Un colpo alla testa uccide il commissario Calabresi
Di origine romana, Luigi Calabresi studiò giurisprudenza in Sapienza, ma, alla carriera forense, preferì quella nelle forze dell’ordine: nel 1965, a 28 anni, prese servizio come vicecommissario a Milano. Il percorso lavorativo in Questura lo portò fino a rivestire il ruolo di vice capo dell’Ufficio politico, passando per quello di Commissario capo. Nel frattempo, era riuscito anche a costruirsi una famiglia: Gemma, la moglie, era incinta del terzo figlio quando diventò vedova; Mario sarà direttore de La Repubblica fino a gennaio 2019.
La mattina del 17 maggio 1972 gli fu tolto tutto. Da poco uscito di casa, stava raggiungendo l’auto per andare, con ogni probabilità, in ufficio; davanti al civico 6 di corso Vercelli, fu colpito da un proiettile alla schiena e uno alla testa. Morirà poco dopo in ospedale, a 34 anni.
C’è un fatto, grave, che molti hanno legato all’omicidio Calabresi: la morte di Giuseppe Pinelli nel 1969. Il commissario, che all’epoca era incaricato di indagare sugli attentati per mezzo di bombe, dovette ampliare il proprio raggio d’azione alla strage di piazza Fontana. Le relative indagini portarono a convocare in Questura Pinelli, ferroviere che lavorava nella stazione di Porta Garibaldi. Trattenuto ben oltre i limiti previsti per legge, dopo tre giorni costui precipitò proprio dalla finestra dell’ufficio del commissario, per poi spirare qualche ora più tardi al Fatebenefratelli.
L’opinione pubblica si scagliò contro le forze dell’ordine, chiedendo il riconoscimento dell’omicidio e attribuendone il concorso anche a Calabresi e al questore, ritenuti essere presenti nella stanza al momento del fatto. Le dichiarazioni di tutti, compresi i cinque agenti che effettivamente si trovavano in quell’ufficio, portarono a escludere la presenza dei due ufficiali. Di più, l’inchiesta, conclusasi nel 1975, definì la morte come accidentale: “l’improvvisa alterazione del centro di equilibrio”, che portò alla caduta, fu provocata da un improvviso malore di Pinelli.
Il mondo sociale, politico e culturale facente capo alla sinistra si ribellò fortemente alla sentenza, facendo anche chiari riferimenti alla responsabilità del questore e del commissario. Di conseguenza, il movente dell’omicidio di Calabresi fu spesso rintracciato in ciò che accadde quel giorno del 1969 nel suo ufficio. Altre ipotesi portavano a sospettare degli ambienti della destra estrema, in considerazione del fatto che il commissario stava conducendo un’indagine sul traffico d’armi e finanziamenti agli eversori tedeschi. Ad ogni modo, le indagini ufficiali non portarono ad alcun rinvio a giudizio.
Almeno, fino a quando Leonardo Marino non decise di raccontare la propria versione. Nel luglio 1988, infatti, l’ex militante di Lotta Continua raccontò alle forze dell’ordine di aver partecipato attivamente all’omicidio, ordinato, a suo dire, da Adriano Sofri e Giorgio Pietrostefani. Dunque, sedici anni dopo i fatti, si aprì finalmente il processo. Per chiuderlo, ce ne vollero altrettanti. Sofri, Bompressi (l’esecutore materiale) e Pietrostefani furono condannati a 22 anni carcere.
Alessio Gaggero
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