Chi subisce un’azione violenta non si chiama colpevole ma vittima
È stata una settimana all’insegna della violenza più letale: messa in atto da singoli, da organizzazioni e da Stati. Su La Stampa di ieri ho letto che Rakhmat Akilov, il presunto autore dell’attacco di Stoccolma di venerdì scorso, avrebbe confessato di essere l’autore della strage a Drottinggatan, commessa in esecuzione di ordini ricevuti da membri del gruppo jihadista in Siria. Non solo avrebbe asserito di aver «realizzato ciò che si era proposto di fare» e di avere prima pianificato l’attacco, con una ricognizione della strada pedonale dove poi ha colpito, ma avrebbe anche dichiarato di aver «investito degli infedeli» per «vendicare i bombardamenti sull’Isis», e per porre «fine ai bombardamenti nel Paese in guerra». Inoltre, secondo Anders Thornberg, il capo dell’intelligence (Säpo), è concreto il rischio di vendette e violenze da parte di militanti dell’estrema destra.
Quindi Rakhmat Akilov direbbe: quelli che ho ucciso e ferito non sono vere vittime, trattandosi di infedeli; ho ricevuto un ordine e l’ho eseguito; c’è una ragione morale alta dietro la mia azione, che non è grave quanto quella messa in atto da altri, poiché stavo vendicando gli attacchi dall’aria sull’Isis e rivendicando la cessazione dei bombardamenti sulla Siria.
Secondo una certa prospettiva social-cognitiva, vi è un aspetto ricorrente nella mente di chi pone in essere il comportamento violento (e non si pensi soltanto alla violenza fisica): il disimpegno morale. Con tale espressione si fa riferimento al fatto che l’autore della violenza prende le distanze dalla responsabilità morale di quanto sta per porre in atto e conserva tale atteggiamento anche dopo averlo compiuto, attivando dentro di sé dei meccanismi di autogiustificazione. In particolare nella prospettiva interazionista di Bandura (Bandura, Barbaranelli, Caprara, & Pastorelli, 1996), vi sono dispositivi cognitivi interni all’individuo, socialmente appresi e costruiti, che liberano l’individuo dai sentimenti di autocondanna. Il disimpegno morale rappresenta un meccanismo cognitivo che permette alla persona di giustificare il proprio comportamento riprovevole, assolvendola da sentimenti di colpa e vergogna.
Questi meccanismi di autoassoluzione, dunque, servono a ridefinire in termini non riprovevoli o addirittura apprezzabili una condotta illecita e, per estensione, un’azione violenta.
Ad esempio, l’autore del comportamento violento ricorre: alla «giustificazione morale» dei fini superiori per oscurare la riprovevolezza della condotta compiuta o da compiere (si pensi alla vendetta legittimata come forma di giustizia che traspare dalle parole di Rakhmat Akilov e che, secondo Anders Thornberg, intenderebbero realizzare i militanti di estrema destra); all’«etichettamento eufemistico» per ridimensionare l’entità e dolorosità delle conseguenze della violenza; al «confronto vantaggioso», consistente nel confrontare la propria azione con condotte altrui considerate moralmente peggiori, così da ridimensionare per contrasto la valenza immorale del proprio comportamento, come quando si dice «se la prendono con me perché ho rubato un motorino mentre altri rubano miliardi», oppure «è più criminale fondare una banca che rapinarla» (questi tre meccanismi riguardano la valutazione dell’azione violenta); al «dislocamento della responsabilità», con il quale la responsabilità della condotta è attribuita ad un fattore esterno, ad esempio, ad un’autorità che l’avrebbe imposta (tipicamente «stavo solo eseguendo un ordine») oppure alle caratteristiche di una particolare situazione (come quando si sostiene che non v’era alternativa all’azione violenta); alla «diffusione della responsabilità», che consiste nel giustificarsi dicendosi, «ma sì, lo fanno tutti», perciò, si sostiene che si tratta di colpe che, per il fatto di essere di tutti, in definitiva non sono di nessuno; alla «distorsione delle conseguenze», che vale ad ignorare o a minimizzare la portata delle conseguenze dell’azione violenta, attraverso una non considerazione degli effetti di un’azione (in questi secondi tre meccanismi proposti il disimpegno morale opera sulla relazione causa-effetto, distorcendolo); alla «deumanizzazione» con cui si attribuisce alla o alle vittime un’assenza di sensibilità o sentimenti umani, così da bloccare sul nascere lo svilupparsi l’empatia, ovvero quel di senso interiore d’angoscia vicaria di fronte alla loro sofferenza che impedirebbe l’azione o, una volta commessa, porterebbe l’autore a soffrirne (appunto, vicariamente); alla «attribuzione di colpa alla vittima», che serve per convincerci che l’offesa arrecata o che si intende arrecare alla vittima è da lei pienamente meritata. Gli ultimi due atteggiamenti riguardano la cosiddetta “rivalutazione della vittima”, cioè la sua valutazione in negativo, e su di essi, sia pure con una terminologia mutuata dagli sviluppi criminologici e vittimologici, mi ero già soffermato in altri post rispetto a fatti e notizie di politica interna (“Psiconani ed ebetini, gufi e rottami, rosiconi e alessitimici, infami e bamboline: l’autolegittimazione delle aggressioni verbali nel conflitto politico”; “Raggi, Renzi, Grillo, Salvini, Meloni, Berlusconi, Bersani, D’Alema, Fini, Boldrini…. La personalizzazione della politica e la spersonalizzazione dell’avversario negli attacchi ad personam”; “Mattarella aveva denunciato i rischi della violenza verbale nella lotta politica”; “Le aggressioni a Roberto Speranza e ad Osvaldo Napoli: la radicalizzazione del conflitto dal vertice alla base e ritorno“)
In sintesi, nelle poche frasi che avrebbe pronunciato Rakhmat Akilov, secondo quanto riferito da La Stampa, si potrebbero rinvenire alcuni dei meccanismi sopra riportati.
Ma va ricordato che questi, in realtà, vennero presi in considerazione, in ambito teorico e di ricerca, in primo luogo non per spiegare i comportamenti dei terroristi, ma soprattutto per indagare il bullismo (si veda però: Bandura A., Mechanisms of moral disengagement, in Reich W. Origins of terrorism: Psychologies, ideologies, theologies, states of mind, 1990). Ciononostante, mi sono venuti subito in mente. E, istantaneamente, mi sono ricordato di quanto accaduto il 23 febbraio a Follonica, quando, nel retro di un supermercato, due addetti sorpresero due donne che frugavano tra i rifiuti e i prodotti fallati riposti in una gabbia e, dopo averle rinchiuse in quella sorta di gabbia metallica, le avevano filmate e derise per la loro reazione disperata soprattutto quella delle due, che urlava, tenendosi la mano probabilmente schiacciata. Come si sa i due, di 25 e 35 anni, sono indagati per sequestro di persona: l’art. 655 del codice penale definisce con tale espressione la condotta di chi privi della libertà personale qualsiasi altro individuo. E la libertà di movimento è la libertà personale. Il giorno dopo il leader della Lega, Matteo Salvini, pubblicò su facebook e su twitter il post «Io sto con i LAVORATORI (li contatterò già oggi per offrire loro tutto il nostro sostegno, anche legale) e non con le ROM “FRUGATRICI”. Ma quanto urla questa disgraziata??? #ruspa e CONDIVIDI!».
In sostanza, si potrebbe ipotizzare che per il leader della Lega quelle donne non erano vittime come tutte le altre – ROM FRUGATRICI, scrive, infatti, non donne o persone (si potrebbe pensare alla deumanizzazione sopra citata?) -, se l’erano cercata (potrebbe rinvenirsi in ciò un’attribuzione di colpa alla vittima?), si lamentavano eccessivamente, in particolare colei che urlava di più (si può trovare una certa rassomiglianza con il citato meccanismo della distorsione delle conseguenze?). Quel pomeriggio, in diretta telefonica con la conduttrice Tiziana Panella della trasmissione Tagadà, Salvini affermò ancora: «Non sono due poverette che passavano lì per caso. Possiamo discutere sulla opportunità di pubblicare un video del genere e sul fatto che dovessero intervenire subito le forze dell’ordine. Questi due ragazzi, che possono aver fatto una bravata, non possono rischiare il posto». E aggiunse: «quando blocchi queste ladre, queste cominciano a urlare come forsennate, perché fa parte della tecnica delle ladre. Quindi, i due vanno licenziati perché ridevano del fatto che queste molestassero per l’ennesima volta?».
Si potrebbe ravvisarere, in tali parole, i meccanismi della giustificazione morale (poiché, secondo Salvini, i due addetti al supermercato stavano bloccando delle ladre), del confronto vantaggioso (rinvenibile nell’affermare che “quelle” rubano, anche se non è in alcun modo vero che stavano rubando) e dell’etichettamento eufemistico (i due, secondo Salvini, avrebbero soltanto riso e non sequestrato le donne, e la loro sarebbe una bravata)?
In effetti, parrebbe che, dal punto di vista di Matteo Salvini, le due donne non siano state vittime di un abuso, di una violenza, insomma non possano essere considerate in alcun modo come vittime. Anzi, semmai sarebbero colpevoli (ladre, anche se non stavano rubando nel supermercato, ma frugando tra scarti e rifiuti).
Ovviamente, sarebbe pazzesco, oltre che offensivo e immorale, equiparare le parole pronunciate e scritte dal segretario della Lega Nord con la portata delle parole e dell’azione posta in essere dal terrorista che ha colpito a Stoccolma, o di chi ha fatto una carneficina prima nella chiesa copta di San Giorgio a Tanta e poi nella cattedrale di Alessandria, nel giorno della domenica delle palme, o ancor prima a Londra sul ponte di Westminster.
Ciò che si vuole porre in rilievo è che, troppo spesso, per ragioni diversissime, e del tutto in buona fede, confondiamo le cose. Vestiamo la vittima di una violenza con i panni del colpevole. E non ce ne rendiamo conto. Se lo facessimo per dare luogo alla violenza, infatti, saremmo naturalmente i principali artifici di quell’azione. Ma, più spesso, adottiamo tale atteggiamento nell’osservare e commentare la condotta altrui. E, in tale posizione, attiviamo, senza avvedercene, meccanismi simili nella loro essenza a quelli dispiegati dall’autore della violenza. E, magari, lo facciamo per difendere un principio o dei valori, mentre siamo impegnati in una stressante e appassionata lotta politica. Com’è possibile che sia accaduto al leader della Lega.
Così è toccato allo stesso Salvini trovarsi ad essere vittima di un comportamento palesemente ingiusto e violento (mi riferisco alle reazioni tese ad impedirgli di parlare a Napoli), ma accompagnato da dichiarazioni e atteggiamenti che richiamavano da vicino i meccanismi di disimpegno morale, con l’intento di giustificare la violazione del diritto di manifestare.
Ancora un ultimo spunto: il 6 aprile, il governo italiano concludendo un accordo di riparazione, ha riconosciuto il proprio torto nei confronti di sei cittadini per quanto da essi subito nella caserma di Bolzaneto il 21 e 22 luglio 2001, ai margini del G8 di Genova (verserà 45 mila euro ciascuno per danni morali e materiali e spese processuali). Costoro, insieme ad altri circa 60, che non hanno accettato l’accordo, avevano fatto ricorso alla Corte europea dei diritti umani, sostenendo che lo Stato italiano aveva violato il loro diritto a non essere sottoposti a maltrattamenti e tortura e avevano denunciato l’inadeguatezza dell’indagine penale italiana sui fatti di Bolzaneto.
Si può supporre con una certa facilità che per gli autori di quelle e delle altre violenze commesse al G8 di Genova non vi fosse alcuna empatia verso i corpi e per la psiche delle persone che essi violavano e sconvolgevano. Si può pensare che per coloro che direttamente commisero quegli atti e per coloro che li appoggiarono, autorizzarono, approvarono, ecc., vi fossero dei meccanismi di giustificazione, di disimpegno morale. Certo anche in tal caso, come in quello dei bagni di sangue sopra citati, fa stare male il pensarlo.
In conclusione, ad integrazione dei meccanismi definiti da Bandura, si può porre mente al fatto che una potente risorsa auto-assolutoria è fornita dal conflitto. Il conflitto, non solo quello bellico, può “legittimare” la violenza sulla base della logica reattiva: nella versione del conflitto che ciascuna parte racconta a se stessa e agli altri si tratta sempre di reagire ad un’ingiustizia perpetrata dalla controparte, e il torto eventualmente commesso non sarà mai tanto grave quanto il torto subito o che si intende prevenire. In pratica, ogni parte dice “Dio è con me”.
Chiunque abbia seguito le notizie di questi giorni sa quali sono gli argomenti posti a fondamento del lancio, alle 4,40 di domenica mattina, la domenica delle palme, di 59 missili Tomahawk contro la base militare siriana di Al-Shayrat, nella provincia di Homs, cioè la base sospettata di essere coinvolta nel raid con armi chimiche effettuato martedì 4 aprile su Khan Sheikhun, provocando la morte di oltre 70 persone, di cui molti bambini.
Riesce difficile pensare al fianco di chi Dio possa trovarsi a proprio agio, da qualche tempo in qua, in Siria e in tanti, troppi, altri posti.
Non mi sfugge, tuttavia, che soffriamo parecchio e almeno un po’ ci rendiamo anche conto del paradosso della colpevolizzazione della vittima quando siamo noi a subirla (quando le vittime della violenza siamo noi), mentre dei suddetti meccanismi mentali tendenzialmente non siamo consapevoli quando è la nostra mente a dispiegarli. Cioè: spesso, ci crediamo proprio alla nostra buona ragione nel colpevolizzare la vittima di una qualche forma di violenza. E magari ci arrabbiamo molto se qualcuno ci fa notare quanto siamo, in effetti, scollati dalla realtà.
Alberto Quattrocolo
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