Stonewall inizia la rivolta

Stati Uniti, fine anni ’60. L’omosessualità è considerata diffusamente come un comportamento deviato ed è, perciò, illegale in 49 stati. La comunità scientifica avvalora questa tesi, inscrivendo l’omosessualità nel novero delle patologie psichiatriche, con la seconda edizione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-II, 1968). Erano, tuttavia, anche gli anni delle grandi contestazioni, come quella contro la guerra in Vietnam, e dei movimenti per i diritti civili per gli afroamericani, le donne, i poveri e le minoranze in genere. In questo clima di fermento sociale si inscrivono i fatti di Stonewall.

Lo Stonewall Inn era un locale del Greenwich Village, un quartiere del distretto di Manhattan a New York, noto per essere uno dei punti di ritrovo della comunità omosessuale della Grande Mela. Il bar, prima un nightclub per eterosessuali, nel 1969 era in mano alla famiglia mafiosa dei Genovese che, fiutando un affare redditizio, lo trasformò in un locale per omosessuali, pagando tangenti alla polizia per poterlo mantenere aperto. Tutti comunque sapevano che a New York lo Stonewall era l’unico locale in cui le persone gay potevano ballare, o meglio, farlo in coppia. Nondimeno, lo Stonewall faceva di tutto per passare inosservato, a differenza di oggi, che è diventato simbolo della comunità newyorkese Lgbtq, anche grazie alla nomina a Monumento nazionale (primo, negli Usa, che riguarda la storia della comunità gay).

Arriviamo alla notte tra il 27 e 28 giugno 1969, quando si svolsero i fatti. All’epoca, le irruzioni della polizia nel locale erano frequenti, gli avventori dello Stonewall erano abituati a queste retate e il personale era generalmente in grado di riaprire il bar nella notte stessa o in quella seguente. All’una e venti circa, molto più tardi del solito, otto agenti, di cui uno solo in uniforme, entrarono nel bar, ma qualcosa andò diversamente dal solito e si scatenò la guerriglia. Alcuni sostengono che Sylvia Rivera, una donna transgender, scagliò una bottiglia contro un agente, dopo essere stata pungolata con un manganello. Un’altra versione dichiara che Stormé DeLarverie, una donna lesbica, trascinata verso un’auto di pattuglia, oppose resistenza, incoraggiando così la folla a reagire.

Quale che fosse stata la miccia, in poco tempo fuori dal locale si riunì una folla, che diede inizio agli scontri fisici e al lancio di oggetti. I poliziotti, sopraffatti per numero, si rintanarono all’interno del locale e attesero i soccorsi: la squadra anti-sommossa originariamente addestrata per contrastare i dimostranti contro la guerra del Vietnam. Questa riuscì a liberare i colleghi assediati nel locale, ma la folla aumentò fino a raggiungere migliaia di persone e lo scontro con la polizia continuò fino alle prime ore del mattino, e a intermittenza per altre cinque notti.

La sensazione che le cose stessero cambiando iniziò quella stessa notte.

Queste le parole di Thomas Lanigan-Schmidt, una delle poche persone ancora vive tra quelle che parteciparono agli scontri. Questi, infatti, dimostrarono per la prima volta che la comunità omosessuale era diventata un vero movimento, deciso a combattere e a rifiutare il ruolo canonico di vittima.

Le organizzazioni omofile dei due decenni precedenti avevano creato l’ambiente perfetto per la nascita del Movimento di liberazione gay. Per la fine di luglio a New York si formò il Gay Liberation Front (GLF), e per la fine dell’anno il GLF comparve in città e università di tutti gli Stati Uniti.

Organizzazioni simili vennero presto create in tutto il mondo: Canada, Francia, Regno Unito, Germania, Belgio, Paesi Bassi, Australia e Nuova Zelanda. In Italia, dove un movimento omofilo che preparasse il terreno non era mai esistito, si dovette aspettare fino al 1971.

 

Alessio Gaggero

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