Stalingrado: la ferocia, gli ordini, la morte, Hitler, Stalin… e «la dignità umana»

L’assedio di Stalingrado finì il 2 febbraio del 1943, con la vittoria dell’Armata Rossa. Fu la prima grande sconfitta politico-militare delle truppe nazifasciste e segnò l’inizio di quell’avanzata sovietica verso occidente, che si sarebbe conclusa oltre due anni dopo con la battaglia di Berlino.

Il macello di Stalingrado, una carneficina dai costi umani incalcolabili – oltre un milione di soldati tedeschi, rumeni, ungheresi e italiani e mezzo milione circa di soldati russi –, era iniziato il 17 luglio del ’42. Pochi mesi prima, Hitler aveva deciso che le truppe dell’Asse dovevano tornare a vincere sul fronte orientale, dove l’Armata Rossa aveva bloccato la loro avanzata, impedendo la conquista di Mosca, e passando al contrattacco.

Quel brusco risveglio di Molotov e di Mussolini verso l’alba del 22 giugno ‘41

L’Operazione Barbarossa, cioè l’invasione dell’Unione Sovietica, aveva avuto inizio un anno prima, verso l’alba del 22 giugno del 1941. Con un annuncio di poco precedente al tuonare dell’artiglieria, verso le due del mattino, l’ambasciatore di Hitler al Cremlino presentava al ministro degli Esteri sovietico Molotov la dichiarazione di guerra [1]. Alla stessa ora, a Berlino, il ministro degli Esteri tedesco, Ribbentrop, dava udienza all’ambasciatore russo per proporgli la stessa comunicazione. Cessava di esistere così il patto di reciproca non aggressione tra le due potenze totalitarie, noto come patto Ribbentrop-Molotov [2]. Un’ora dopo, mezz’ora prima che i cannoni tedeschi dessero il via al cannoneggiamento lungo un fronte di centinaia di miglia, l’ambasciatore tedesco a Roma svegliò il ministro degli Esteri italiano, conte Galeazzo Ciano, per consegnargli una lunga lettera di Hitler indirizzata a Mussolini [3]. Il Führer  informava il suo alleato della decisione che aveva assunto e messo in atto a sua insaputa, aggiungendo che non avrebbe avuto bisogno dell’aiuto delle truppe italiane per quella campagna [4]. Mentre le truppe sovietiche, colte totalmente di sorpresa, venivano furiosamente travolte da quelle tedesche, Mussolini dava l’ordine di dichiarare immediatamente guerra all’URSS, ma aggiungeva di augurarsi che in quella guerra contro Stalin i tedeschi perdessero «molte penne!».

«Io dichiaro senza riserve che il nemico a Est è stato schiacciato e che esso mai più si rialzerà» (Adolf Hitler)

Il 3 ottobre 1941, con le parole sopra citate, in un discorso al popolo tedesco il Führer annunciò la sua convinzione che la Russia fosse ormai liquidata e che le due più grandi città dell’URSS, Leningrado e Mosca, fossero sul punto di cadere come frutti maturi [5]. Ai suoi generali, intenti a raggiungere le due città, spiegò che, se anche si fossero arrese, esse andavano distrutte. Nella direttiva del 29 settembre del ’41, in effetti, aveva ordinato di «cancellare Pietrogrado (Leningrado) dalla faccia della terra […] Non abbiamo alcun interesse a salvare anche soltanto una parte della popolazione di questa grande città».

Due fatali errori di calcolo dei tedeschi, di cui uno frutto della disumanità

Già da luglio, però, nonostante l’avanzata fulminea delle truppe naziste, alcuni generali tedeschi annotavano nei loro diari che le divisioni dell’Armata Rossa erano meglio equipaggiate e più numerose di quanto Adolf Hitler avesse immaginato (gen. Franz Halder). Inoltre, rilevavano che per la prima volta la loro avanzata non era assicurata dalla copertura area [6]. Infine, osservava il generale Blumentritt, i soldati russi, «anche se circondati, resistevano e combattevano». Il generale Ewald von Kleist osservava con minore stupore la tenacia dei combattenti sovietici, perché sapeva spiegarsela: era provocata dalla ferocia nazista.

Nessuna rivolta popolare contro Stalin

Il Führer era convinto che le sue truppe sarebbero state accolte dalla popolazione civile e dalla massa dei soldati con entusiasmo e che i russi avrebbero colto l’occasione per rivoltarsi contro Stalin e abbattere il suo sanguinario regime. Aveva detto: «Basterà dare un calcio alla porta e tutta quella marcia impalcatura crollerà». Il punto è che quel calcio, seguendo fedelmente i suoi ordini e spesso aggiungendoci un bel po’ di sadica iniziativa personale, le forze d’occupazione tedesche non lo davano alla porta ma al popolo. E con una violenza che superava la spietatezza dello stalinismo [7].

I massacri degli ebrei

Anche in Unione Sovietica le truppe tedesche diedero immediatamente corso a persecuzioni e carneficine contro la popolazione ebraica, come già facevano in Polonia fin dal 1939. La divisione di fanteria SS “Totenkopf”, comandata dal gruppenführer Theodor Eicke, al seguito del IV gruppo corazzato diretto verso Leningrado, ad esempio, eseguì i primi massacri subito dopo aver occupato la Lituania. Le SS, infatti, linciarono centinaia di ebrei per le strade, suscitando orrore e sgomento anche in chi non era fisicamente colpito da quella violenza.

«Centinaia di ebrei con le facce macchiate di sangue, fori di proiettile in testa, arti spezzati, occhi strappati dalle orbite, corrono davanti a noi; i soldati davanti alla prigione picchiano la folla; grondanti di sangue gli ebrei crollano gli uni sugli altri strillando come maiali al macello».

Con queste parole un sergente delle SS, Felix Landau, descriveva “l’operazione”. Anche chi non venne sopraffatto dall’orrore e dalla pietà, assistendo alle atroci violenze inflitte ai suoi concittadini ebrei, si rese conto che una simile crudeltà avrebbe potuto dilagare in ogni momento verso chiunque non fosse tedesco.

La pianificazione nazista del terrore in Unione Sovietica

Tre mesi prima di invadere l’URSS, ai primi di marzo del ’41, Hitler, infatti, spiegò ai capi delle tre armi e ai principali comandanti delle truppe destinate all’Operazione Barbarossa che dovevano mettere da parte ogni scrupolo.

 «È una lotta tra ideologie e razze diversi e dovrà essere combattuta con una durezza, una spietatezza e una inesorabilità senza precedenti […] I commissari del popolo dovranno essere eliminati».

Così venne diramato “l’Ordine relativo ai Commissari politici”. Per sradicare ogni dubbio, il 16 luglio del ’41, ad invasione appena cominciata, Hitler precisò che la soluzione migliore era «fucilare chiunque ci guarderà di traverso». A tale scopo furono impiegati anche reparti speciali, gli Einsatzgruppen, cioè delle squadre di sterminio, che dovevano dedicarsi agli ebrei e ai commissari politici sovietici. Non è dato sapere quanti commissari comunisti siano stati ammazzati, poiché nella contabilità nazista non venivano distinti dalle vittime ebree. Certamente gli ebrei “liquidati” erano moltissimi di più, dato che erano assai più numerosi dei commissari e che ad essere uccise erano intere famiglie. E, per giunta, con ritmi e sistemi industriali [8]. Comunque, uno dei modi utilizzati dai nazisti per incutere il terrore su tutta la popolazione consisteva nell’impiccare o nell’inchiodare i funzionari del Partito Comunista alle porte. Per risparmiare tempo, però, più spesso venivano fucilati [9].

«Oggi i russi combattono con un eroismo e uno spirito di sacrificio senza pari, ed essi combattono contro di noi solo per difendere la loro dignità umana» (Otto Bräutigam)

Contestualmente veniva pianificata un’opera distruzione di ogni industria e un’attività di così vasta e sistematica rapina di ogni risorsa russa, a partire da quelle alimentari che dovevano essere destinate a nutrire il popolo tedesco, che esplicitamente i vertici nazisti affermavano: «Non v’è dubbio che molti milioni di persone moriranno per fame quando porteremo via dal Paese le cose che ci sono necessarie». Otto Bräutigam, vicecapo dell’ufficio politico di Alfred Rosenberg, ministro di un nuovo dicastero sui territori orientali occupati, in un rapporto del 25 ottobre del ’42, mentre infuriava già la battaglia di Stalingrado, scrisse che al loro arrivo in Unione Sovietica le truppe tedesche trovarono «una popolazione stanca del bolscevismo, che attendeva nuovi slogan carichi di migliore prospettive per il futuro». Ma, constatava Bräutigam, «il lavoratore e il contadino non tardarono a scoprire che erano destinati a servire da schiavi alla Germania». Inoltre, faceva notare che «noi ora ci troviamo nella grottesca situazione di dover reclutare milioni di lavoratori dai territori occupati dopo che tanti prigionieri di guerra sono morti di fame come le mosche» [10]. Bräutigam, con estrema cura, indugiava nella descrizione della violentissima caccia all’uomo organizzata dalle forze tedesche per dare corso al reclutamento forzato delle popolazioni slave e spedirle a lavorare in Germania. Poi ne illustrave le inevitabili conseguenze in atto, secondo lui dissonanti con gli interessi del Terzo Reich: «La nostra politica ha fatto confluire i bolscevichi e i nazionalisti russi in un fronte comune contro di noi». E concludeva: «Oggi i russi combattono con un eroismo e uno spirito di sacrificio senza pari, ed essi combattono contro di noi solo per difendere la loro dignità umana».

«Il mito dell’invincibilità del soldato tedesco era stato infranto» (gen. Franz Halder)

La resistenza sovietica, però aveva iniziato a produrre risultati assai prima che iniziasse la battaglia di Stalingrado. Già il 5 dicembre del ’41, su tutto il fronte semicircolare di 200 miglia che si stendeva attorno a Mosca, i tedeschi furono fermati. Anzi, quella sera, il generale Guderian, comandante della seconda armata corazzata, comunicò che era stato costretto ad indietreggiare. La temperatura era scesa di oltre 35 gradi sotto lo zero e i russi non cessavano di difendersi, resistere e contrattaccare, mentre i tedeschi erano stremati. Il 6 dicembre il generale Georgij Zukov su quel fronte lanciò all’attacco sette armate e due corpi di cavalleria. I tedeschi erano in rotta. E sorti non tanto diverse toccavano alle altre linee di invasione. Hitler decise di non permettere agli eserciti tedeschi in Russia di ritirarsi, provocando così gravissime perdite di uomini e di materiali. Un rapporto del 30 marzo 1942 registrava che su 162 divisioni combattenti impegnate all’Est solo 8 potevano ancora essere usate per azioni di attacco.

Il disastro di Stalingrado

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Il Führer decise, allora, che, a partire dall’estate del ’42, ci si doveva concentrare sulle regioni meridionali dell’URSS: i giacimenti petroliferi del Caucaso, il bacino industriale del Donets, i campi di grano del Kuban, la città di Stalingrado sulla Volga. L’obiettivo era togliere ai sovietici il petrolio e buona parte dei viveri e delle industrie di cui avevano bisogno per combattere. Sapeva che se il tentativo non fosse riuscito avrebbe dovuto «porre fine a questa guerra». Lo stesso discorso, però, valeva per Stalin, al quale non sfuggiva che l’occupazione tedesca di Stalingrado avrebbe sbarrato l’ultima via importante per portare il petrolio nella Russia centrale.

La concessione a Hitler,  da parte di Mussolini, di “carne da cannone” italiana

Adolf Hitler, tuttavia, a differenza di Stalin, aveva bisogno di uomini. Si rivolse, perciò, a Budapest e a Bucarest, per avere soldati rumeni e ungheresi, e al suo amico Mussolini. Göring fu spedito a Roma proprio con questo obiettivo, con la raccomandazione di rassicurare il duce circa la certezza della vittoria sulla Russia entro il 1942 e sulla Gran Bretagna entro il ’43. Data la tiepidezza della reazione di Mussolini, il 29 e il 30 aprile Hitler incontrò il duce e Ciano a Salisburgo, riuscendo a persuaderlo a impegnare 9 divisioni, di cui 6 da impiegare nel settore meridionale del fronte, dove si sarebbe svolto l’attacco principale [11].

 L’avanzata estiva delle truppe nazifasciste e l’attacco a Stalingrado

Mentre le truppe di Hitler procedevano nella steppa assolata puntando su Stalingrado, le truppe italiane, rumene e ungheresi si schieravano progressivamente per proteggerne i fianchi allungati sul Don. A metà luglio, la 6ª Armata tedesca, avvicinatasi alla grande ansa del Don, affrontava nuove truppe sovietiche, velocemente raccolte da Stalin per frenare quell’avanzata tedesca verso Stalingrado. Ma il 13 settembre la 6ª Armata, sotto il comando del generale Friedrich Wilhelm Ernst Paulus, sferrava il primo massiccio attacco frontale contro la città. La battaglia così divenne una lotta furibonda, combattuta quartiere per quartiere, via per via, palazzo per palazzo e stanza per stanza, in una Stalingrado resa già spettrale dai cannoneggiamenti e dai bombardamenti aerei tedeschi. Stalin aveva ordinato che la città doveva essere tenuta ad ogni costo. Chi indietreggiava andava punito con la morte. In ballo c’era la sopravvivenza dell’URSS.

La “sacca di Stalingrado”

A fine ottobre sembrava che a Stalingrado la vittoria tedesca fosse ormai certa, ma il 19 novembre 1942, con la parola in codice “sirena”, i sovietici diedero il via all’Operazione Urano. Un’avanzata improvvisa di 500 carri armati T-34, fatti affluire da Stalin nel segreto più assoluto. Gli assedianti tedeschi di Stalingrado divennero così assediati, mentre i difensori russi assunsero il ruolo di attaccanti.

«Resistere ancora non ha senso» (gen. Paulus)

Su tutto il settore, con l’approssimarsi dell’inverno, le cose volgevano al peggio per gli eserciti nazifascisti. L’11 dicembre del 42 era iniziata la seconda battaglia del Don, che costringeva il contingente italiano ad una tragica ritirata (l’abbiamo ricordata in questo post). La mattina dell’8 gennaio il generale Rokossovskij, comandante delle forze sovietiche di Stalingrado, inviò un ultimatum di 24 ore al feldmaresciallo von Paulus. Dopo avergli ricordato che il suo esercito non poteva essere soccorso via terra né più rifornito via aria, aggiungeva:

«La vostra situazione è disperata. State soffrendo la fame, le malattie e il freddo. Il crudo inverno russo è appena iniziato […] I vostri soldati mancano di equipaggiamento invernale e vivono in condizioni sanitarie paurose […] In vista di ciò e per evitare un inutile spargimento di sangue vi invitiamo ad arrendervi»

Le garanzie offerte erano più che onorevoli (a partire dall’assistenza sanitaria assicurata per feriti e malati) e Paulus trasmise via radio l’offerta di resa ad Hitler. Il Signore della Guerra nazista immediatamente la respinse. La mattina del 10 gennaio 5 mila pezzi di artiglieria sovietica aprirono il fuoco. Il 24 gennaio gli emissari sovietici tornarono da Paulus con nuove proposte di resa. Paulus via radio comunicò a Hitler che «resistere ancora non ha senso. L’esercito chiede l’immediata autorizzazione ad arrendersi per salvare la vita delle truppe che restano».

«Proibisco la resa» (A. Hitler)

Hitler rispose immediatamente:

«Proibisco la resa! La 6ª Armata terrà le posizioni fino all’ultimo uomo e all’ultima cartuccia, e con la sua eroica resistenza darà un indimenticabile contributo alla costituzione di un fronte di difesa e di salvezza del mondo occidentale».

Gli uomini della 6ª Armata, ridotti a larve in quella Stalingrado sventrata e ghiacciata, pochi anni prima avevano combattuto contro il mondo occidentale in Francia e nella Fiandre.

«Nessun segno di combattimenti a Stalingrado»

Paulus, invece, si arrese il 31 gennaio, quando le truppe sovietiche fecero irruzione nel suo quartier generale, in una cantina delle rovine di un grande emporio. Il 30 gennaio nel decimo anniversario della presa del potere dei nazisti (lo abbiamo ricordato in questo post, della rubrica Corsi e Ricorsi), il maresciallo Göring alla radio aveva detto che tra mille anni i tedeschi avrebbero ricordato la battaglia di Stalingrado con sacro rispetto, poiché essa fu decisiva per la vittoria finale della Germania. Alle 14,46 del 2 febbraio un piccolo aereo da ricognizione tedesco volando sopra Stalingrado trasmise per radio la seguente comunicazione: «Nessun segno di combattimenti a Stalingrado». Di 285.000 soldati dell’Asse ne erano rimasti 91.000. Si incamminavano fuori da Stalingrado, diretti ai campi di prigionia russi. Solo 5000 di questi sarebbero tornati a casa.

Hitler era furioso con Paulus e i suoi generali: si erano arresi invece di uccidersi con un’ultima pallottola. Soprattutto disprezzava Paulus:

«Cos’è la vita?! La vita è la Nazione! […] Egli avrebbe potuto ascendere all’eternità e all’immortalità della Nazione, invece ha preferito andarsene a Mosca!»

Il 3 febbraio l’OKW (l’Alto comando della Wehrmacht) emanò un comunicato straordinario:

«La battaglia di Stalingrado è terminata. Fedele al suo giuramento di combattere sino all’ultimo respiro, la 6ª Armata, condotta esemplarmente dal feldmaresciallo Paulus, è stata sopraffatta dalla schiacciante superiorità del nemico e delle condizioni sfavorevoli in cui le nostre forze sono venute a trovarsi»

Alberto Quattrocolo

[1] Il governo russo fu preso letteralmente alla sprovvista dalla slealtà tedesca. Anche se molti segnali avrebbero dovuto indurlo a comprendere quel che Hitler stava per mettere in atto. Lo stesso Primo Ministro Britannico, Winston Churchill, già il 3 aprile 1941, tramite l’ambasciatore inglese a Mosca, sir Stafford Cripps, aveva inviato un memorandum a Stalin per avvisarlo sulle reali intenzioni di Hitler, informandolo dei movimenti di truppe corazzate tedesche verso la Polonia, che gli erano stati rilevati dai servizi d’informazione britannici. Cripps inoltrò il messaggio solo il 19 aprile, ma Stalin, che diffidava del governo inglese, pensando che volesse scatenare una tensione idonea a incrinare il patto Molotov-Ribbentrop, non lo prese sul serio. Inoltre lo spionaggio tedesco riuscì a fare far credere ai russi che lo spostamento di truppe verso est aveva come unico scopo quello di portare al di fuori del raggio di azione dei bombardieri britannici tutte le forze che sarebbero state utilizzate da Hitler per l’invasione della Gran Bretagna. Stalin, infine, era certo che la Germania non avrebbe aperto il fronte orientale prima di aver invaso la Gran Bretagna. Così il 14 giugno l’Agenzia di stampa ufficiale sovietica, la TASS, scriveva: «La Germania sta osservando i termini del Patto di non aggressione tanto strettamente quanto l’Unione Sovietica. Le voci sull’intenzione tedesca di rompere il patto ed attaccare l’Unione Sovietica sono prive di qualsiasi fondamento». E il 16 giugno, Stalin ricevuta una copia del rapporto di un ufficiale tedesco, trovato dai suoi agenti segreti, in cui si parlava di un attacco all’Unione Sovietica da parte della Germania per il 22 giugno, scriveva: «Rimandatelo a quella puttana di sua madre. Non è una fonte ma un disinformator

[2] Quell’ accordo aveva offerto alla Germania nazista la tranquillità di poter occupare la parte occidentale della Polonia e di volgersi ad occidente prima e a sud est poi per divorare quasi per intero il resto d’Europa, senza dover fronteggiare le truppe sovietiche. E aveva consentito a Stalin di annettersi la Polonia orientale, i Paesi Baltici e la Bessarabia e di tenersi fuori dal conflitto che stava insanguinando il continente europeo.

[3] Mussolini, parecchio infastidito, sbottò: «Io non oso, di notte, svegliare i miei servitori ed i tedeschi mi fanno saltare dal letto senza il minimo riguardo».

[4] Il testo finiva così: «Lasciatemi ancora dire una cosa, Duce. Dopo che, lottando, sono giunto a questa decisione, mi sento spiritualmente libero. L’associarmi all’Unione Sovietica, malgrado la sincerità assoluta dei nostri sforzi per venire ad una definitiva conciliazione, era stato per me assai fastidioso perché, in un modo o nell’altro, ciò sembrava contrario con tutto il mio atteggiamento precedente, con le mie concezioni e con i miei precedenti impegni. Ora sono assai contento di essermi liberato da questo disagio spirituale. Con saluti cordiali e camerateschi, vostro Adolf Hitler».

[5] In sole tre settimane i suoi soldati avevano compiuto sul fronte centrale un’avanzata di quasi 900 km, trovandosi ad appena 200  km da Mosca, mentre a nord, avanzando verso gli stati baltici, puntavano su Leningrado e a sud muovevano verso Kiev, capitale della fertile Ucraina.

[6] Gli aerei da caccia sovietici continuavano a colpire, mentre quelli tedeschi, in mancanza di aeroporti adeguati, restavano tropo per indietro per poter provvedere alla copertura delle loro truppe, che spostavano sempre più avanti il fronte.

[7] Dapprincipio, però, vi furono casi in cui le truppe tedesche furono salutate come liberatori dalla popolazione oppressa e terrorizzata dalla dittatura comunista. Vi furono anche cospicue diserzioni nelle regioni baltiche, che i sovietici avevano occupato poco prima, e in Ucraina. Qui, dove un embrionale movimento indipendentista non era mai stato represso del tutto, molti furono lieti della liberazione dalla dominazione sovietica

[8] Avevano già operato in Polonia per prelevare e chiudere nei ghetti gli ebrei, ma con l’invasione della Russia furono addette alla realizzazione della «Soluzione finale».

[9] Talora insieme ai bambini, alle donne e agli uomini ebrei.

[10] In tutto i tedeschi catturarono 5 milioni e 250 mila soldati sovietici. Di questi 3.800.000 furono presi tra il 21 giungo e il 6 dicembre del ’41. In tutto alla cattività sopravvisse appena un quinto dei russi catturati. «Per noi più prigionieri muoiono e meglio è», affermava Rosenberg.

[11] Il ministro degli Esteri italiano scrisse nel suo diario: «Hitler parla, parla, parla. Mussolini, che è abituato a parlare lui e che lì invece è costretto a tacere quasi sempre, soffre».

 

Fonti

De Tomasi (a cura di), Il Terzo Reich. Macchina di morte, Hobby & Work Publishing, 1994

Joachim C. Fest, Hitler. Una biografia, Garzanti Libri, Milano, 2005

Richard Overy, Russia in guerra, il Saggiatore, Milano, 2000

William L. Shirer, Storia del Terzo Reich, Giulio Einaudi Editore, Torino, 1962

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