I pugni di Smith e Carlos si alzarono nel cielo di Città del Messico il 17 ottobre 1968

Il 17 ottobre 1968, alle Olimpiadi di Città del Messico, si svolge una premiazione che passerà alla storia, ma non principalmente per i risultati sportivi.

La XIX edizione dei Giochi olimpici estivi si annuncia come l’Olimpiade nera, per la vera e propria invasione di atleti africani, soprattutto in pista, forse una sorta di riconoscimento per l’esclusione del Sudafrica dell’apartheid dalle competizioni a cinque cerchi.

In quel 1968, il contesto sociale e politico è incandescente in tutto il pianeta: il 16 marzo il massacro di My Lai, il 4 aprile l’assassinio di Martin L. King, il 5 giugno tocca a Bob Kennedy; e poi il maggio francese, le contestazioni studentesche e operaie, le lotte per i diritti, il Biafra, i carri armati sovietici sulla primavera di Praga.

Dieci giorni prima dell’apertura dell’Olimpiade, nel quartiere di Tlatelolco polizia ed esercito sparano per 29 minuti sui manifestanti radunati nella Piazza delle tre Culture, uccidendo 250 persone secondo la CIA, 500 secondo i giornalisti presenti, fra cui Oriana Fallaci, a sua volta ferita nell’eccidio.  Il governo messicano rassicura il CIO e il dipartimento di Stato USA: durante i Giochi non si ripeterà nulla di simile, l’accaduto riguarda solo una piccola parte della popolazione, l’ordine è già stato restaurato, le Olimpiadi si apriranno regolarmente.

Gli Stati Uniti sono attraversati dalle mobilitazioni per i diritti civili, molte città sono una polveriera. Gli atleti coloured sentono di essere strumenti in mano al potere bianco e di tornare utili soltanto quando è il momento di correre o saltare davanti al mondo, per poi tornare a non potersi nemmeno sedere su un bus una volta spenti i riflettori.

Nel 1967 Harry Edwards, sociologo a Berkeley, ex discobolo, aveva fondato l’OPHR, Olympic program for human rights. Gli studenti neri costituivano l’elite dello sport americano, soprattutto in discipline come l’atletica, il football e il basket e attiravano investitori per le università che frequentavano, ma non avevano accesso a molti corsi universitari, non potevano sedere alla caffetteria insieme ai bianchi e avevano residenze e bagni separati. Le rivendicazioni e istanze dell’OPHR vengono puntualmente respinte, finché non viene deciso il boicottaggio della partita di apertura del campionato di football universitario del 1967 tra San José State e Texas El Paso: in un clima teso, tra le minacce degli Hell’s Angels, la mobilitazione delle Black Panthers e la chiamata della guardia nazionale da parte dell’allora Governatore della California Ronald Reagan, la partita non viene giocata e ne conseguono ripercussioni economiche, occupazioni del campus e sit-in sino a che le barriere segregazioniste non vengono rimosse.

In quel momento Harry Edwards comprende la portata rivoluzionaria dello sport applicata alla politica e ai diritti civili, e concepisce il Progetto olimpico per i Diritti Umani in vista delle Olimpiadi del Messico previste per il 1968: “Perché dovremmo correre in Messico solo per strisciare a casa?”, si legge sui manifesti dell’OPHR.

 

L’idea è che gli atleti neri boicottino i Giochi, ma è difficile da realizzare, nonostante il sostegno espresso da Martin Luther King:

[Il boicottaggio] avrebbe un potere enorme, e il potere sta proprio nell’assenza. Sarebbe come una guerra senza i soldati neri. Non diciamo: bruciamo tutto. Diciamo solo che non ci interessa partecipare, poi vediamo come vi sentite senza di noi a far parte dello show.

Ma il reverendo King viene ucciso a Memphis. Ottenuta l’esclusione del Sudafrica razzista dai Giochi, l’OPHR infine opta per la partecipazione, lasciando i propri atleti liberi di manifestare la protesta come meglio credono. Tra questi, John Carlos e Tommie “Jet” Smith, studenti e corridori della San José State University. Cresciuto ad Harlem il primo, seguace di Malcolm X, battagliero e coraggioso fin dai tempi della scuola; figlio del sud degli Stati Uniti il secondo, ottiene una borsa di studio sportiva all’università:

Non volevo tornare nei campi di cotone; in America se ti vedono con le scarpe pulite e un libro sotto al braccio vuol dire che sei uno che ce l’ha fatta.

A Città del Messico, nella finale dei 200 metri piani vince Tommie Smith, il velocista di punta della squadra, “grazia liquida”, il primo al mondo a scendere sotto i 20”, davanti all’australiano Peter Norman e al compagno John Carlos.

La premiazione si tiene il giorno seguente, 17 ottobre: nel sottopassaggio che va dagli spogliatoi al podio Norman assiste ai preparativi dei due americani. Tutto è fortemente simbolico, dalla mancanza di scarpe, che insieme ai calzini neri indica la povertà, alla collanina di piccole pietre che Carlos mette al collo, una pietrina per ogni nero che si batteva per i diritti ed è stato linciato. Smith e Carlos spiegano, e Norman dice: “Datemi uno dei distintivi, sono solidale con voi. Si nasce tutti uguali e con gli stessi diritti.”. Così anche Norman sistema la coccarda sulla sinistra della tuta.

Parte l’inno americano, Tommie solleva il braccio destro, Carlos il sinistro, le mani strette a pugno per gridare la protesta al mondo, racchiuse in un guanto nero (un guanto a testa, Carlos si era scordato i suoi): entrambi ascoltano l’inno a capo chino.

Non sono i soli a protestare; l’aveva già fatto prima, terzo sul podio dei 100, con il pugno alzato, anche il velocista Charlie Greene; lo ripetono, con i baschi neri in testa, i tre colored americani guidati da Lee Evans, sul podio dei 400; a Tommie e John la staffetta vincitrice della 4×100 guidata da Wyomia Tyus dedica la medaglia d’oro.

Ma quando i tre scendono dal podio scoppia il finimondo: per i due americani consegue l’espulsione dal Villaggio Olimpico, e poi minacce personali, proteste, una persecuzione decennale che causa a entrambi la perdita del lavoro e contribuirà al suicidio della moglie di Carlos. Uno camperà lavando auto, l’altro come scaricatore al porto di New York e buttafuori ad Harlem; solo molti anni dopo li riprenderanno a San José, come insegnanti di educazione fisica e allenatori sportivi. Carlos, che ha fondato un’associazione per togliere dalla strada i giovani neri, sarà ingaggiato per fornire volontari ai Giochi di Los Angeles ’84; Smith diventerà docente di sociologia. E nel 2005 Norman sarà con loro, per l’inaugurazione di un monumento che ricorda quel giorno in Messico.

Nell’Australia che fino al 1975 segrega neri e nativi, Norman viene cancellato: supera 13 volte il tempo di qualificazione per i 200 e 5 quello per i 100, ma a Monaco ‘72 non lo mandano. Insegna educazione fisica, svolge attività sindacale, arrotonda in una macelleria. Il più grande sprinter australiano non è coinvolto in Sydney 2000 né tantomeno invitato. Sofferente di cuore, muore il 3 ottobre 2006: Smith e Carlos vanno a reggere la bara, il 9 ottobre, e questa data diventerà, su iniziativa USA, la giornata mondiale dell’atletica.

La foto della premiazione di Smith, Norman e Carlos fece il giro del mondo. Ha scritto il giornalista sportivo Gianni Mura:

Non erano due neri e un bianco a chiedere rispetto e giustizia su quel podio, erano tre esseri umani. ‘Sono affari vostri’, poteva dire Norman, ma non lo disse e non si pentì mai, e gli altri due nemmeno. Tutte cose che la foto non dice.

Silvia Boverini

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Fonti:
E. Trifari, “Carlos e Smith: e la storia fu presa a pugni. Neri”, www.gazzetta.it;
G. Mura, “Sono uguale a voi. Quel volto bianco accanto ai pugni neri”,  www.ricerca.repubblica.it;
C. Geymonat, “17 ottobre 1968 – Due pugni chiusi nel cielo di Città del Messico”, www.riforma.it;
“Smith e Carlos, la rivoluzione della libertà” (Speciale 1968 a cura di A. Mastroluca), www.incontropiede.it;
L. Iervolino, “Trentacinque secondi ancora”, ed. 66thand2nd, 2017

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