Si fa presto a dire “emozioni”: la paura nella mediazione

Pare che la parola emozione sia un po’ inflazionata, io stessa ne abuso.
Provare quella emozione, rifuggire a quell’altra emozione, sei emozionato, è stato emozionante: sono solo alcuni esempi dei mille modi con cui, ogni giorno, ci riempiamo la bocca con questa parola.
Quanti di noi, possono dire di conoscere davvero il significato della parola “emozione”?
Di sicuro, non io.

Facendo una ricerca su Google, alla voce “Emozione” si trova:
“Le emozioni sono stati mentali e fisiologici associati a modificazioni psicologiche, a stimoli interni o esterni, naturali o appresi. Secondo la maggior parte delle teorie moderne, le emozioni sono un processo multi-componenziale, cioè articolato in più componenti e con un decorso temporale che evolve.” In tal caso la fonte è, come al solito, Wikipedia.

Dal punto di vista neurologico

Priviamo a partire proprio da qui.
Secondo Darwin, nel celebre saggio “L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali” (1872), mettendo a confronto le modalità espressive corporee dell’uomo e dell’animale, arrivò alla conclusione che il linguaggio corporeo nell’uomo sia a base innata e per lo più geneticamente ereditato.

Nello specifico, facendo riferimento proprio alle emozioni, affermò che le espressioni facciali, quando si prova una data emozione, individuate sia nell’uomo che nell’animale, abbiano una valenza adattiva, esito dell’evoluzione filogenetica e che siano regolate da precisi processi e meccanismi nervosi.

Prendiamo ad esempio la capacità che ha un animale di riconoscere in un suo simile la rabbia, anziché la paura; abilità, questa, che gli può consentire di mettere in atto determinati comportamenti, atti a garantirgli la sopravvivenza.
Nel corso della selezione naturale, sono stati questi modelli comportamentali, divenuti stabili e mossi da automatismo, a diventare segnali stereotipati.
Allo stesso modo, anche l’uomo, ha elaborato un repertorio di segnali, derivanti da adattamenti filogenetici, capaci di regolare la coesistenza con i suoi simili.

Dal punto di vista neurologico, tra l’altro, esisterebbe nella specie umana la cosiddetta amigdala, la parte più antica del cervello, responsabile delle reazioni emotive (in particolare la paura) e degli istinti primordiali.
È qui che hanno origine le reazioni di comunicazione non verbale involontarie.

Quando riceviamo uno stimolo sensoriale, il talamo, una volta sottoposto lo stimolo all’amigdala, lo smista in frazioni di secondo anche all’area sottoposta allo stesso (visiva, linguistica, gestuale, ecc.) la quale valuterà l’adeguatezza della reazione dell’amigdala dandone consenso o innescando tentativi di inibizione (Giusti, Azzi, 2013).

La teoria neuro-culturale di Ekman

Parlando di emozioni, diviene impossibile non citare Paul Ekman – lo psicologo statunitense che ha trascorso l’intera carriera a studiare il comportamento non verbale, facendo esperimenti sulle espressioni facciali e sui movimenti del corpo, mostrando un crescente interesse per la psicologia sociale e gli studi transculturali in ottica evolutiva -, le cui ricerche si sono focalizzate, nel tempo, sullo studio delle emozioni, divenuto suo vero e principale interesse.

Egli confermò alcune intuizioni originali di Darwin circa la gestualità innata, passando molti anni a studiare le espressioni facciali dei membri di cinque culture completamente differenti. Appurò che ogni cultura adottava la medesima mimica facciale di base per esternare le emozioni; elemento, questo, che lo fece arrivare alla convinzione che dovesse trattarsi di una caratteristica innata.

Così, nel 1972, a cento anni dal saggio di Darwin citato prima,  elaborò la teoria neuro-culturale, secondo la quale le emozioni primarie si fondano su due fattori:
uno di natura neurale, in base al quale esiste un programma neuro-fisiologico innato, di natura genetica, specifico per ogni emozione, che garantisce l’invariabilità e l’universalità delle espressioni facciali associate a ciascuna emozione; un altro di natura culturale, per cui le risposte emozionali possono essere modificate in relazione alla variabilità culturale.
Partendo quindi dall’assunto che le emozioni siano universali, vediamo ora quali sono le sette principali.
In base agli studi di Ekman troviamo:

– La paura

– La rabbia

– La gioia

– La sorpresa

– Il disprezzo/disgusto

– La tristezza

La paura

Tutte emozioni queste, che giocano un ruolo fondamentale nella mediazione familiare e, in generale, nella mediazione dei conflitti.
Ma partiamo dalla prima che ho messo in elenco, la paura, provando a vedere come questa entri in gioco in ambito mediativo.
Possiamo considerarla una delle emozioni più importanti per l’essere umano e, insieme alla rabbia, rappresenta le basi per la nostra sopravvivenza.

Infatti, il sistema nervoso autonomo, quando ci troviamo in una situazione di pericolo, reagisce stimolato da una serie concatenata di ormoni e neurotrasmettitori, che si trasformano in comportamenti volti a difesa della nostra vita.

I 6 modi di reazione alla paura (Marks e Bracha)

Marks e Bracha, nel 2004, hanno individuato 6 modi di reazione, spesso involontaria, alla paura:

1- Freezing, congelamento (anticamente, con questa tecnica, ci si rendeva invisibili ai predatori)

2/3- Fight or Flight (attacco o fuga- Cannon, 1929)

4- Sottomissione

5- Fingersi morti (lo fanno molti animali che, in questo modo, provano a sfuggire a predatori abituati a cacciare la preda in movimento)

6- Lo svenimento

Per le paure che riguardano le relazioni sociali, appare evidente come, partendo da queste strategie basiche, si debbano individuare e metterne in atto di più evolute, riconoscendo ed essendo consapevoli di come quell’emozione ci faccia reagire.

L’ansia

Anche l’ansia è associata alla paura, ma non possiamo catalogarla come emozione.

I suoi effetti sono concentrati, maggiormente, nella zona toracica (i sintomi più comuni sono: oppressione al petto e al cuore) e possono creare incapacità di agire e sensazione di impotenza(quando si dice: essere bloccati dall’ansia)

Leggere la paura sul nostro viso

In base agli studi di Ekman, quando si prova l’emozione della paura, sul nostro viso appaiono movimenti involontari muscolari ben precisi; infatti,  vi è un innalzamento della parte interna ed esterna delle sopracciglia le quali si avvicinano tra di loro e gli angoli della bocca vengono tirati verso la mandibola.
Tutti segnali questi che possono aiutarci, in sede di colloquio a capire se la persona o le persone (ad esempio durante una seduta di mediazione e quindi di confronto tra le parti) stiano provando questa emozione.
Non tutti, però, si è in grado di leggere il non verbale e quindi di cogliere questi tratti caratteristici e, molte volte, anche se  si ha un po’ di dimestichezza con il linguaggio non verbale, per l’appunto, questi segnali non sono così evidenti.
Ad esempio, quando la paura è contenuta, perché non ci si sente in una reale situazione di pericolo, come quando ci troviamo, per la prima volta, davanti ad un mediatore.
Il fatto stesso di trovarsi davanti ad uno “sconosciuto” a raccontare i “fatti nostri” ci può fare provare una sensazione di imbarazzo, alla base della quale proviamo paura.
Paura di esternare i nostri sentimenti, paura del giudizio, paura di non essere compresi, paura di non stare facendo la cosa giusta e così via (possono essere molte le motivazioni che ci portano a provare questa emozione).
Di sicuro, in una situazione come quella descritta sopra, anche l’ansia (seppur non catalogata come emozione) gioca il suo ruolo e rende ancora più complessa l’identificazione dell’emozione primaria provata.
In ambito di mediazione penale, ad esempio, non di rado si può riprovare, nel raccontarla, la sensazione di paura, provata durante un atto di violenza subito (ma, perché no, anche agito) e, ad un osservatore attento, sicuramente non sfuggiranno i segnali che questa emozione attiva sul volto, perché non sono solo gli stimoli vissuti al momento a scatenate le reazioni nervose, ma anche i ricordi di situazioni vissute.

Come può il mediatore “maneggiare” questa emozione?

Partendo dalla consapevolezza che il mediatore dei conflitti utilizzi come strumento principale, per riconoscere ciò che la persona prova, l’ascolto empatico, nulla vieta che lo stesso, avendone le capacità acquisite con lo studio, possa utilizzare, anche, come strumento integrativo, quello del  riconoscimento del comportamento non verbale, leggendo i segnali legati a quel tipo di emozione.
Una volta riconosciuta l’emozione, non potrà far altro che “restituirla” a chi la sta provando, rispecchiandola e, di conseguenza, andando a nominarla.
Molte volte, il nominare un’emozione, rendendola quindi “tangibile”, in special modo un’emozione, a volte scomoda, come può essere quella della paura, può renderla meno spaventosa, più “maneggevole” appunto.
Un esempio ricorrente nell’ambito della mediazione familiare è il seguente.
In un rapporto disfunzionale, dove impera un alto grado di conflittualità, non è raro riconoscere l’emozione della paura legata alla prospettiva di uscire da quel tipo di situazione che, nonostante ci faccia stare male (tanto da averci fatto scegliere di rivolgerci ad un professionista esterno, quale il mediatore familiare) rappresenta la nostra zona confort, dentro la quale abbiamo delle certezze.
L’immaginarci al di fuori di quel tipo di relazione, quindi, ci spaventa, ci fa paura, anche perché, solitamente, quando iniziamo a vederci come singole unità e non più come coppia,  dobbiamo necessariamente reinventarci, pensandoci al di fuori di quella situazione di coppia che, nel caso di separazione, non esisterà più (si fa riferimento coppia sentimentale, poiché in caso di presenza di figli, è bene sottolineare come la coppia genitoriale esisterà sempre, seppur anch’essa modificata nel suo status quo).

“Niente paura, ci pensa la vita, mi han detto così”

Anche in tal caso, il rispecchiamento/riconoscimento da parte del mediatore di tale emozione, può aiutare ad utilizzarla non più in chiave distruttiva, come se fosse un’azione (e una conseguenza) subita, ma in un’ottica di azione volta alla ricerca del cambiamento relazionale (agito, anziché subito).
Come è facile intuire, il mediatore dei conflitti non ha la bacchetta magica e non sarà necessariamente chiamato ad identificare l’emozione della paura allo scopo di “sconfiggerla”, ma il riconoscerla in chi la sta vivendo, con tutto il carico emotivo che si porta dietro, e il poterla, con gli strumenti che ha a disposizione, incasellare e, quindi, rendere più visibile e meno paurosa (solitamente le cose che non riusciamo a distinguere sono quelle che ci mettono più in difficoltà), potrà far sì che, anche un’emozione così importante, possa essere introiettata e quindi maneggiata con più facilità.
Recita così il ritornello di una canzone di Ligabue:

 Niente paura, ci pensa la vita, mi han detto così

Parafrasandolo, con un po’ di autoironia indirizzata verso il ruolo del mediatore così:

Niente paura, ci pensa la vita (e a volte il mediatore), mi han detto così!

Daniela Meistro Prandi
Fonti:
Wikipedia
“Il cuore nella mente” Diego Ingrassia
“Giù la maschera” Paul Ekman, Wallace V. Friesen

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