Raggi, Renzi, Grillo, Salvini, Meloni, Berlusconi, Bersani, D’Alema, Fini, Boldrini…. La personalizzazione della politica e la spersonalizzazione dell’avversario negli attacchi ad personam

La personalizzazione non è soltanto un fatto correlato alla personalità dell’interessato, al suo carisma, ecc. Un minimo di personalizzazione nella politica, probabilmente, vi è sempre stato e sempre vi sarà. Almeno, se per personalizzazione si intende ad un livello minimo, l’importanza che la personalità del politico ha rispetto al suo proporsi dialetticamente con gli interlocutori politici e con i cittadini. Sono le persone in carne e ossa, con nomi e cognomi, quelle che pensano, propongono, agiscono, comunicano e lottano. Limitandoci a pochi esempi, non si possono non ricordare i tanti politici italiani, i cui nomi sono stati dati alle vie delle nostre città, né si potrebbe negare l’incidenza sulle cose della politica che hanno avuto i caratteri personali di diversi leader degli ultimi 70 o 80 anni, quali: Neville Chamberlain o Winston Churchill, Harold Macmillan o Margaret Thatcher; Konrad Adenauer o Willy Brandt, Helmut Kohl o Gerhard Schröder; Charles De Gaulle o Valéry Giscard d’Estaing, François Mitterrand o Jacques Chirac; F. D. Roosevelt o Harry Truman, Dwight Eisenhower o John F. Kennedy e così via elencando gli altri presidenti degli Stati Uniti fino a Donald Trump.

Interessante, dal punto di vista di questo Blog, dunque, non è il fenomeno della personalizzazione della politica in sé, ma la sua connessione e la sua declinazione con la dimensione conflittuale.

Per certi versi è normale che il conflitto in ambito politico sia personalizzato: è più semplice e concretamente agevole, oltre che psicologicamente percorribile, dare un volto e un nome ai fenomeni e ai processi politici, economici, sociali o culturali che appoggiamo o contrastiamo; così come, ad un altro livello, è decisamente più facile convogliare verso individui specifici, invece che verso entità o processi, il favore o lo scontento delle persone delle quali cerchiamo di procurarci o di conservare l’appoggio (si pensi alle diverse battaglie politiche, che, in sede di comunicazione, vengono presentate come contrapposte oppure come affini ad Angela Merkel o a Frauke Petry, a Theresa May o a Jeremy Corbyn, a Marine Le Pen o a Benoît Hamon).

Certamente non si può negare che maggiore è la propensione alla costruzione di una leadership politica incarnata in pochi individui carismatici, di governo e di opposizione, e maggiore è la tendenza del conflitto a produrre un aspetto non secondario della sua escalation: la personalizzazione degli attacchi, tesi a contrastare gli argomenti, gli atti e le proposte della controparte, delegittimandola anche sul piano personale (cioè, non solo politico, il che già non è poco, ma anche su quello delle capacità, dell’etica o della morale del soggetto).

Compaiono, così, forme di interazione conflittuale, talora all’insegna dell’insulto e, più spesso, caratterizzate dalla finalità di squalificare e, finanche, ridicolizzare, i leader della controparte. Il tentativo, cioè, è di esautorarli. Come spiega un dizionario, tale verbo significa: privare dell’autorità una persona o un organismo a cui sono attribuite funzioni direttive o di comando e, per estensione, privare qualcuno o qualche istituto della stima, del credito, della reputazione, rendendo impossibile o difficile l’esercizio delle sue funzioni.

Be’, quasi non si contano i tentativi di una parte di privare gli esponenti della parte avversa della fondamenta su cui si fonda la loro leadership: si pensi al confronto interno al Partito Democratico tra maggioranza e minoranza e il suo frequente ruotare intorno alle caratteristiche psicologiche di Matteo Renzi o, sull’altro fronte, l’incentrarsi sulla contestata irrisolutezza della precedente leadership del partito e sulla sua presunta indisponibilità a cedere il posto ai nuovi esponenti.

Un aspetto dell’escalation del conflitto politico, pertanto, è proprio quello di concorrere a rinforzare una naturale tendenza alla personalizzazione della politica, accompagnandola talora con attacchi che sono spersonalizzanti. La personalizzazione della politica, infatti, nello sviluppo del conflitto politico, genera la spersonalizzazione dell’avversario quando questo è fatto bersaglio di messaggi e commenti tesi a disconoscerne la dignità di persona.

Si pensi: alla definizione di Beppe Grillo, data da Maurizio Gasparri, come campione di ipocrisia, in un rapido commento su Rainews24 del 3 gennaio; a quando Gasparri invitava i cattolici a prendere le distanze dall’ateo Gianfranco Fini; al termine “populista” utilizzato soprattutto da esponenti della maggioranza di governo per screditare Grillo, Salvini o la Meloni; ai soprannomi inventati da Beppe Grillo per ridicolizzare tra gli altri, Monti (Rigor Montis), Pisapia (Pisapippa), Fornero (Frignero), Alemanno, (Aledanno), Bersani (Gargamella, zombie), Veronesi (cancronesi); agli attacchi alla Presidente della Camera dei Deputati Laura Boldrini; all’espressione bambolina imbambolata, utilizzata dal Presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca, in riferimento alla Sindaca di Roma, Virginia Raggi; ai commenti apparsi sui social da parte di esponenti del Partito Democratico, riguardo all’avviso di garanzia pervenutole il 24 gennaio. Oppure si consideri la trasformazione dei commenti alla sentenza della Corte costituzionale, del 25 gennaio, sulla legge elettorale, in uno scambio di attacchi sul piano della delegittimazione politica, come quelli di Alessandro Di Battista e Andrea Romano.

Se c’è, qual è, allora, il costo sociale di tale aspetto dell’escalation conflittuale?

A prima vista, si direbbe che la riduzione di una rilevante parte del conflitto politico, irrinunciabile per la vita di una democrazia, ad uno scambio di offese e attacchi personali, può intaccare o addirittura soverchiare le capacità di attenzione della cittadinanza; una porzione della quale, quindi, si allontanerebbe dalla politica, classificandola come una sorta di noiosa e irresponsabile lite condominiale, o vi parteciperebbe con spirito da ultras. Il che, in entrambi i casi, può presentare ricadute non impercettibili sulla qualità stessa della partecipazione democratica e del contributo popolare alla politica di una comunità.

Naturalmente, sarebbe alquanto superficiale e inutile puntare con arroganza il dito contro tali aspetti della conflittualità politica, rimproverando i singoli per i loro comportamenti e per quelli reattivi delle controparti.

In un’ottica di Political Conflict Management, invece, risulta più utile e interessante tentare di comprendere gli eventi e le persone che ne sono protagoniste o comunque coinvolte.

Così, dietro ciascuno degli attacchi sul piano personale che sono stati qui citati si potrebbero ricostruire le motivazioni razionali ed emotive che sottendono quei comportamenti. E, probabilmente, sono proprio quelle motivazioni il terreno sul quale dovrebbe proporsi chi volesse cimentarsi in un’attività di Political Conflict Management.

 

Alberto Quattrocolo

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