Quello strano colpo di Stato della notte dell’Immacolata
«Il lungamente atteso colpo di Stato ha avuto luogo»
«Italiani, l’auspicata svolta politica, il lungamente atteso colpo di Stato ha avuto luogo».
Queste parole avrebbe voluto pronunciare, la notte dell’Immacolata del 1970, il sessantaquattr’enne principe Junio Valere Borghese, già comandante della Xª Flottiglia MAS durante la Seconda Guerra Mondiale, aderente alla Repubblica di Salò, dopo l’8 settembre del ’43, presidente del Movimento Sociale Italiano dal ’51 al’53, e fondatore nel ’68 del Fronte Nazionale[1].
Cosa prevedeva il colpo di Stato?
Il colpo di Stato non fu portato a termine, lo sappiamo. Cioè, sappiamo che non fu realizzato quel particolare piano di colpo di Sato, il quale in ogni caso non era affatto una tardiva goliardata di senescenti generali, come si cercò, invece, di farlo passare.
Il colpo di Stato era stato progettato fin dal 1969, con la formazione di gruppi clandestini armati, in accordo con diversi vertici militari e con rilevanti membri interni ai Ministeri. Avrebbe dovuto consistere nel rapimento del presidente della Repubblica Giuseppe Saragat (del Partito Socialdemocratico Italiano), nell’uccisione del capo della polizia Angelo Vicari, nell’occupazione dei ministeri dell’Interno e della Difesa e delle sedi Rai, nell’assunzione del totale controllo dei mezzi di telecomunicazione (radio e telefoni), nonché nella deportazione di tutti i parlamentari comunisti e degli altri presumibili oppositori al colpo di Stato presenti nel Parlamento, quale che fosse il partito di appartenenza.
I golpisti facevano sul serio o per finta? Oppure facevano sul serio a fare per finta?
Il colpo di Stato era in fase di avanzata esecuzione quando, improvvisamente, Junio Valerio Borghese, attorno alle ore 24 del 7 dicembre, ne ordinò l’immediato annullamento[2]. Perché?
Era previsto fin dal principio che il colpo di Stato non giungesse a completo compimento e che avesse la funzione di indurre con la minaccia una correzione politica da parte del governo in carica e soprattutto della Democrazia Cristiana?[3] Oppure, il piano era stato concepito per dare luogo realmente ad un colpo di Stato, ma, poi, all’ultimo, era venuto meno l’appoggio di chi aveva promesso di fornirlo, come se al momento della verità, i cospiratori avessero appreso che il sostegno e gli appoggi internazionali su cui avevano fatto assegnamento non vi erano?
Il “principe nero” non era solo
Certo è che il principe (“nero”, come fu definito) Borghese non aveva agito da solo. Nel rapporto che il Servizio informazioni della difesa (Sid) inviò ai giudici di Roma nel ’74 furono eliminati molti nomi di personaggi eccellenti che vi avevano avuto a che fare. Tra questi Licio Gelli, il capo, cioè, della Loggia Propaganda 2, inoltre, come abbiamo visto il colonnello Lovecchio e il generale Casero, il generale Miceli, l’ammiraglio Torrisi e Filippo De Iorio: anch’essi della P2[4].
Il disegno politico del colpo di Stato
Che i cospiratori guidati da Borghese, o che lo guidavano, facessero sul serio o meno, rispetto all’attuazione del colpo di Stato pianificato, appare quasi certo che il fine fosse quello di spostare l’asse politico del Paese verso destra.
Cioè: verso un ripristino di stampo marcatamente reazionario dell’ordine, turbato soprattutto dall’onda lunga del ’68, con lo sviluppo del movimento studentesco e di quello operaio; verso l’adozione di una linea politica conservatrice che interrompesse, quindi, quel riformismo sviluppatosi fin dai primi governi di centro sinistra (sorti sull’accordo tra la DC e il Partito Socialista di Pietro Nenni) e che pareva in procinto di avviarsi sempre di più verso approdi che irritavano e preoccupavano il mondo economico-finanziario e coloro che, per cultura e per valori, preferivano una politica decisamente più moderata.
Costoro, come del resto il governo americano di Richard M. Nixon, vedevano con orrore lo spostamento a sinistra sia delle iniziative adottate dal potere legislativo ed esecutivo che dell’elettorato. Non soltanto appena una settimana prima era stata approvata una legge che riconosceva a ciascun coniuge il diritto di divorziare – quindi, era “cambiata la Storia”, almeno sotto questo profilo -, ma in quel 1970 era stato anche approvato lo Statuto dei Lavoratori, una riforma che, insieme, a quella urbanistica – tutte novità alimentate dai socialisti -, creava allarme negli ambienti conservatori.
Inoltre, era da poco trascorso il cosiddetto Autunno caldo, e le elezioni del ’68 avevano visto prodursi un successo dei comunisti, che avevano ottenuto 11 seggi in più, e il fallimento – 29 seggi in meno – dell’unificazione tra socialisti e socialdemocratici (Partito socialista unificato), che avrebbe dovuto dare luogo ad una grande forza di sinistra moderata, capace di isolare il Partito Comunista, riducendone parecchio l’area di consenso. Mentre Aldo Moro, ormai fuori dal governo, si proponeva di dare luogo ad una nuova apertura proprio verso il Pci, questo partito, proprio nell’estate di quell’anno, aveva attuato il suo primo strappo dall’U.R.S.S., criticando l’invasione della Cecoslovacchia. Del resto, dalla metà degli anni Sessanta, dopo la pubblicazione del memoriale su Yalta, il Pci era sospettato di eresia negli ambienti sovietici più ortodossi, un sospetto acuito dal discorso pronunciato, l’11 giugno 1969, a Mosca nella Conferenza internazionale dei partiti comunisti, da Enrico Berlinguer, all’epoca vicesegretario del Pci: il suo intervento venne ricordato come «il più duro discorso mai pronunziato a Mosca da un dirigente straniero» contro la linea del Partito Comunista Sovietico.
Il “fallito” colpo di Stato e la strategia della tensione
Su questo sfondo era maturata, l’anno prima del tentativo di colpo di Stato di Junio Valerio Borghese, la strage di Piazza Fontana, del 12 dicembre del 1969, che, oltre a togliere la vita a 16 persone, aveva dato il via alla “strategia della tensione”[5].
Questa strategia, in realtà, secondo Giovanni Pellegrino, presidente, tra il ’94 e il 2001, della Commissione bicamerale d’inchiesta sulle stragi, per i suoi vari protagonisti aveva obiettivi diversi. Per la manovalanza neofascista, che metteva materialmente le bombe e massacrava decine di esseri umani, il fine era quello di provocare allarme sociale e paura, anzi di far sì che tali massacri fossero attribuiti all’estrema sinistra, collegati, quindi, almeno emotivamente, alla protesta studentesca e operaia e al Pci, cosicché la cosiddetta maggioranza silenziosa auspicasse, o almeno, accettasse, una risposta d’ordine e una netta emarginazione, anche violenta e illegale, dei comunisti. In altre parole, il loro obiettivo era funzionale ad un vero e proprio colpo di Stato, come quello progettato nel golpe Borghese. I mandanti, ovvero, gli istigatori, invece, avevano come fine non un rovesciamento dell’ordinamento giuridico, ma uno spostamento in senso conservatore del Paese. A livello internazionale, invece, l’obiettivo di convergenti interessi politici era quello di mantenere l’Italia in una condizione di disordine e instabilità interna.
Come ha osservato Giovanni Pellegrino, «gli anni tra il 1969 e il 1974 [anno della strage di Piazzale della Loggia a Brescia, preceduto da quella di Petano del 1972, ma anche delle dimissioni di Richard Nixon a seguito del Watergate e della caduta della giunta militare dei “colonnelli” in Grecia, così come di quello del regime fascista in Portogallo, grazie alla “rivoluzione dei garofani”, entrambe favorite dal venir meno dell’appoggio statunitense] sono costellati da una serie impressionante di omicidi o di morti misteriose di persone che avrebbero potuto rivelare verità scottanti, capaci di far fallire i piani mentre erano in corso, o di indirizzare i giudici verso i mandanti una volta che i piani erano stati abbandonati. Ma a ritardare l’accertamento della verità ha contribuito per molti anni anche l’assenza del “pentitismo”, dal momento che i terroristi neri avevano paura di parlare, non sapendo mai, durante gli interrogatori, chi avevano di fronte: se un servitore fedele dello Stato o, magari, proprio uno dei mandanti dell’attentato per il quale si trovavano sotto inchiesta».
L’insofferenza verso il sistema parlamentare e il pluralismo partitico, cioè verso la democrazia rappresentativa
Quale che fosse il fine ultimo perseguito dagli ispiratori e dai sostenitori del fallito colpo di Stato tentato da Borghese nel 1970, così come dagli altri, sanguinosi, attacchi precedenti e successivi, posti in atto dall’eversione di destra, con la complicità, o almeno, con la copertura di apparati dello Stato, in primis dei servizi segreti (deviati) – dalla strage alla Banca dell’Agricoltura di Piazza Fontana, del 12 dicembre ’69, alla strage di Bologna, del 2 agosto 1980 -, una cosa appare difficilmente controvertibile: che fossero concepiti in senso anti-comunista o, più probabilmente, in una prospettiva anti-progressista, ovvero ancora all’interno di un più ampio quadro internazionale, risultava evidente l’intenzione di ridurre all’irrilevanza o a mera parvenza formale il sistema della democrazia rappresentativa.
La preminenza del Parlamento sul Governo, la subordinazione di questo a quello, l’affidamento pressoché esclusivo del potere legislativo al primo e la dipendenza del secondo dal voto di fiducia parlamentare, la connessa assenza del vincolo di mandato per gli eletti, costituivano per i golpisti non meno che per gli stragisti un nemico da abbattere. Gli erano visceralmente avversi la Loggia P2, il principe Junio Valerio Borghese e l’organizzazione fascista da lui fondata, come gli altri movimenti neo-fascisti di quegli anni – e di quelli attualmente attivi -, i loro sostenitori occulti all’interno dell’amministrazione dello Stato.
Un popolo a sovranità molto limitata
Ai neofascisti, come ai loro predecessori del Ventennio, il sistema parlamentare proprio non poteva andare giù, essendo essa il vero e il più forte baluardo posto a presidio della libertà e della sovranità del popolo.
Lo statuto del Fronte Nazionale fondato nel ’68 da Junio Valerio Borghese, infatti, dichiarava quale scopo da perseguire «tutte le attività utili alla difesa e il ripristino dei massimi valori della civiltà italiana ed europea». Nel documento pubblicato l’anno dopo dal titolo “Orientamenti programmatici” venivano meglio specificate quelle attività utili: la soppressione dei partiti politici e delle istituzioni parlamentari definiti «germi di disintegrazione, focolai di corruzione» (De Lutiis, 1996).
Se per quell’organizzazione era facilmente ravvisabile la prossimità con l’antiparlamentarismo fascista, un discorso più complesso vale per coloro che all’interno del nostro Stato e all’esterno lo appoggiarono o lo sfruttarono.
Una facoltà di scelta limitata dagli equilibri internazionali
Il Pci, dal 1948, come la DC credeva nella Costituzione e svolgeva una funzione di opposizione democratica, però, faceva riferimento ad un ordine internazionale, quello comunista cino-sovietico, che tutto era tranne che democratico. Tuttavia, il Pci si rendeva conto che l’equilibrio Est-Ovest stabilito a Yalta, in particolare per quanto riguarda l’Europa, ovvero la spartizione delle aree di influenza tra l’URSS, con i suoi alleati, da una parte, e gli USA con i loro alleati dall’altra, non poteva essere alterato, sicché poteva solo aspirare ad essere il maggiore partito di opposizione, contribuendo al governo del Paese esclusivamente attraverso la propria azione politico-parlamentare[6].
Le ingerenze USA e le “covert operations”
Se già ciò, in linea di principio, costituiva un limite preciso, ancorché non esplicito, alla libertà di scelta degli elettori italiani, un altro aspetto più marcatamente illegale era costituito dall’ingerenza americana nella politica nostrana. Ad esempio, tra le tante direttive del National Security Council dedicate ad assicurare che l’assetto politico del nostro Paese non subisse variazioni, vi era il NSc 1/3 dell’8 marzo 1948, in cui al punto 5 si affermava che in caso di partecipazione dei comunisti nel governo italiano o nel caso in cui il governo italiano avesse cessato di opporsi con determinazione all’avanzata comunista, gli USA dovevano adottare “operazioni coperte”, anche illegali, per sradicare la presenza dei comunisti dall’Italia[7]. In altre parole, si tratta della operazione Chaos, svolta tra il ’67 e il ’73, che, secondo il rapporto che nel 1975 la Commission on C.I.A. Activities within the United States inviò al Presidente Gerald Ford, consisteva nell’infiltrazione di agenti americani o da questi “arruolati” in partiti, associazioni, organizzazioni e gruppi dell’estrema sinistra extraparlamentare (anarchici, marxisti-leninisti, operaisti e castristi) in Italia, Francia, Gran Bretagna, Spagna e Repubblica Federale Tedesca perché compissero azioni violente o addirittura eversive, così da stimolare una reazione popolare di avversione alla sinistra quale portatrice di sovversione e terrorismo (De Lutiis, 1996). Del resto la strage di Piazza Fontana fu in un primo momento attribuita al gruppo anarchico di Pietro Valpreda.
Grazie al Freedom of Information Act, nel 2004 è stato possibile apprendere che il piano di Borghese era noto al governo degli Stati Uniti, anche se ancora oggi non è possibile affermare irrevocabilmente se esso lo abbia avvallato o discretamente scoraggiato.
Fanno, comunque, venire i brividi le parole dette dal segretario della DC, Arnaldo Forlani, il 5 novembre 1972, in un comizio al Teatro Civico della Spezia:
« È stato operato il tentativo forse più pericoloso che la destra reazionaria abbia tentato e portato avanti dalla Liberazione ad oggi. Questo tentativo disgregante, che è stato portato avanti con una trama che aveva radici organizzative e finanziarie consistenti e che ha trovato delle solidarietà probabilmente non soltanto di ordine interno ma anche di ordine internazionale, questo tentativo non è finito: noi sappiamo in modo documentato che questo tentativo è ancora in corso».
Nessuna verità
Gli italiani appresero la notizia del colpo di Stato solo 3 mesi dopo, grazie al quotidiano Paese Sera, che titolò: “Piano eversivo contro la repubblica, scoperto piano di estrema destra“. Il 18 marzo 1971 il sostituto procuratore di Roma Claudio Vitalone firmò i mandati di arresto, per usurpazione dei poteri dello stato e cospirazione, a carico del costruttore edile Remo Orlandini, di Mario Rosa, di Sandro Saccucci, di Giuseppe Lo Vecchio e di Junio Valerio Borghese.
Costui fuggì in Spagna, dove morì il 26 agosto 1974, anche se nel 1973, era stato revocato l’ordine di cattura.
La procura della Repubblica di Roma archiviò l’indagine del 1971 per mancanza di prove, ma riaprì l’istruttoria il 15 settembre 1974, e il 30 maggio 1977 cominciò il processo per il golpe a 68 imputati. Con la sentenza della Corte d’Assise d’appello del 29 novembre 1984 si ebbe una complessiva assoluzione, con la formula “perché il fatto non sussiste”, sicché anche gli imputati che avevano ammesso di aver preso parte al fatto vennero assolti. L’assoluzione interessò tutti i 46 imputati dall’accusa di cospirazione politica, e la sentenza liquidò il colpo di Stato tentato come «conciliabolo di 4 o 5 sessantenni», riformando completamente la decisione di primo grado, inoltre riduceva le condanne, inflitte nel luglio del ’78, a carico di alcuni imputati minori, rei di detenzione e porto di armi da fuoco.
Però qualcosa sappiamo
Naturalmente, il colpo di Stato tentato e poi annullato dal principe Borghese non soltanto non fu un golpe da operetta, ed è anche dubitabile che, avventura eversiva mancata o gesto riuscito con finalità di avvertimento alla classe politica del tempo, si sia trattato di un’iniziativa ispirata solo dalla lotta contro il comunismo. Cioè, quale che fosse il fine, come suggeriscono diverse analisi, si può supporre che non si tratti di un’azione collocabile esclusivamente in una dimensione politico-ideologica.
Appare quanto mai improbabile che coloro che appoggiarono prima il “principe nero” e si occuparono poi di depistare per decenni le indagini fossero mossi soltanto da un viscerale anticomunismo e dalla paura paranoica del pericolo rosso.
Il pericolo rosso poteva essere sbandierato nelle campagne elettorali, ma a quei livelli era indubbiamente noto che il Pci, anche in caso di vittoria schiacciante alle elezioni, non aveva alcuna intenzione di portare l’Italia nell’orbita sovietica, né di dare luogo alla dittatura del proletariato. Pertanto, sembra più credibile che la vera preoccupazione nutrita nell’ambiente in cui maturò quel tentativo di colpo di Stato, come, del resto, per il precedente “Piano Solo”, sul fronte interno, non fosse quella dell’impossibile formazione di un governo comunista o anche-comunista, ma del costituirsi di una maggioranza parlamentare e di un governo intenti a realizzare politiche economico-sociali di tipo progressista; mentre, a livello internazionale, a procurare agitazione era la possibilità di un assetto politico italiano capace di intraprendere una propria autonoma politica su temi delicatissimi, quali i rapporti con i cosiddetti Paesi in via di sviluppo e, ad esempio, l’approvvigionamento energetico.
Alberto Quattrocolo
Fonti
Giuseppe De Lutiis, Il lato oscuro del potere. Associazioni politiche e strutture paramilitari segrete dal 1946 ad oggi, Editori Riuniti, Roma, 1996
Giuseppe De Lutiis, I servizi segreti in Italia. Dal fascismo all’intelligence del XXI secolo, Sperling & Kupfer, 2010.
Giovanni Fasanella, Claudio Sestieri e Giovanni Pellegrino, Segreto di Stato. La verità da Gladio al caso Moro, Giulio Einaudi Editore S.p.A., Torino, 2000.
Parlamento Italiano, XIII Legislatura, Relazioni della Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi. On. Giovanni Pellegrino
https://it.wikipedia.org/
[1] Il discorso che Junio Valerio Scipione Ghezzo Marcantonio Maria dei principi Borghese aveva previsto di rivolgere al popolo italiano, quella notte tra il 7 e l’8 dicembre del 1970, dagli studi della RAI, proseguiva così: «La formula politica che per un venticinquennio ci ha governato, e ha portato l’Italia sull’orlo dello sfacelo economico e morale ha cessato di esistere. Nelle prossime ore, con successivi bollettini, vi saranno indicati i provvedimenti più importanti ed idonei a fronteggiare gli attuali squilibri della Nazione. Le forze armate, le forze dell’ordine, gli uomini più competenti e rappresentativi della nazione sono con noi; mentre, d’altro canto, possiamo assicurarvi che gli avversari più pericolosi, quelli che per intendersi, volevano asservire la patria allo straniero, sono stati resi inoffensivi. Italiani, lo stato che creeremo sarà un’Italia senza aggettivi né colori politici. Essa avrà una sola bandiera. Il nostro glorioso tricolore! Soldati di terra, di mare e dell’aria, Forze dell’Ordine, a voi affidiamo la difesa della Patria e il ristabilimento dell’ordine interno. Non saranno promulgate leggi speciali né verranno istituiti tribunali speciali, vi chiediamo solo di far rispettare le leggi vigenti. Da questo momento nessuno potrà impunemente deridervi, offendervi, ferirvi nello spirito e nel corpo, uccidervi. Nel riconsegnare nelle vostre mani il glorioso TRICOLORE, vi invitiamo a gridare il nostro prorompente inno all’amore: ITALIA, ITALIA, VIVA L’ITALIA!»
[2] Quella notte tra il 7 e l’8 dicembre ’70 centinaia di congiurati si erano raggruppati a Roma e in molte altre città. Al ministero della Difesa il generale dell’Aeronautica militare Giuseppe Casero e il colonnello Giuseppe Lo Vecchio erano già arrivati per svolgere la loro parte, così come al ministero dell’Interno erano state distribuite armi e munizioni ai congiurati, mentre circa 190 uomini del Corpo Forestale dello Stato erano in attesa del “via” nei pressi degli studi televisivi della RAI.
[3] E, in tal caso, doveva servire da scusa per l’emanazione di leggi speciali, simili – ma, forse, ancora più severe – a quelle che poi furono adottate a seguito del rapimento di Aldo Moro nel ’78?
[4] Sul coinvolgimento di Cosa Nostra e della ‘ndrangheta si veda https://it.wikipedia.org/wiki/Golpe_Borghese#Il_ruolo_di_Cosa_Nostra_e_della_’Ndrangheta
[5] In questa rubrica abbiamo ricordato la strage dell’Italicus, l’uccisione del giudice Occorsio e di Francesco Straullu, la strage di Bologna e la sentenza su quella strage
[6] Del resto l’ex capo del Sismi, ammiraglio Martini, rivelò che anche i vertici sovietici gli confidarono che erano pronti ad attivarsi per evitare che un’eventuale vittoria elettorale del Pci alterasse gli equilibri di Yalta.
[7] Analogamente, esattamente 22 anni dopo, cioè l’8 marzo 1970, nove mesi prima dell’abortito colpo di Stato di Borghese, un altro documento che evidenzia l’illegalità del pianificato intervento del governo e dell’esercito USA in caso di vittoria delle sinistre è il “supplemento B” al Field Manual 30-31 del Gen. Westmoreland (il documento fu trovato e sequestrato nella valigia di Maria Grazia Gelli, la moglie di Licio Gelli, all’aeroporto di Fiumicino, il 4 luglio dell’81), in cui si fa esplicito riferimento all’utilizzo di organizzazioni di estrema sinistra, opportunamente infiltrate.
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