Quella festa del primo maggio trasformata nella prima strage della Repubblica

Sul pianoro a metà strada tra i comuni di Piana degli Albanesi, San Giuseppe Jato e San Cipirello, in provincia di Palermo, circa 2.000 persone si erano ritrovate per festeggiare il primo maggio del 1947.

Democrazia, pace, terra e libertà

Il regime fascista aveva cancellato questa festa, sostituendola con quella del 20 aprile, il Natale di Roma. Ma la dittatura fascista era finita. La Seconda Guerra Mondiale era finita. Mussolini era morto due anni prima, il 28 aprile del 1945, e il suo cadavere era stato esposto e dileggiato dalla folla il giorno dopo (lo abbiamo ricordato qui, su questa rubrica, Corsi e Ricorsi). Il 30 aprile si era suicidato Hitler. In Italia, l’anno prima di quel sanguinoso primo maggio del 1947, esattamente il 2 giugno, col Referendum sulla forma di Stato, la maggioranza degli italiani aveva deciso che l’Italia non sarebbe più stata una monarchia, ma una repubblica. Ed erano stati eletti contestualmente i membri dell’Assemblea Costituente deputata a scrivere il testo della nuova costituzione repubblicana. Il 20 aprile del 1947 in Sicilia si erano svolte le elezioni dei membri dell’Assemblea regionale. Avevano votato uomini e donne, visto che era stato introdotto il suffragio universale. Insomma, a prima vista si sarebbe detto che l’incubo era finito. Che si era aperta una nuova fase. Un’era di pace, di libertà e di democrazia. I siciliani avevano eletto i loro legislatori regionali. E aveva ottenuto un successo notevole il Blocco del Popolo (29 seggi su 90, col voto del 32% degli elettori), costituito dall’alleanza tra i socialisti di Nenni e i comunisti di Togliatti. La Democrazia Cristiana aveva avuto soltanto il 21%, ottenendo 21 seggi. Erano lì, su quel pianoro, il primo maggio, quei circa 2000 siciliani, per festeggiare la vittoria elettorale. Molti di essi, infatti, erano agricoltori e contavano su quella novità politica per uscire dalla miseria e dall’ingiustizia derivante dal sistema del latifondo. La festa, infatti, era anche una manifestazione per la riforma agraria e in particolare contro il latifondismo, visto che, ancora nel ’46, in Sicilia, il latifondo rappresentava quasi il 28% dell’intera proprietà fondiaria contro il 17% della media nazionale [1].

La violenza mafiosa contro politici e sindacalisti di sinistra e contro il Blocco del Popolo nelle elezioni di aprile

Però le elezioni regionali, di cui il primo maggio 1947 quei lavoratori festeggiavano il risultato, non si erano svolte in un clima di legalità e sicurezza. La violenza mafiosa si era palesata con un’intensità non dissimile da quella fascista ai tempi delle elezioni del 1922 e del 1924. E i suoi bersagli erano sindacalisti e politici socialisti o comunisti.

Il terrorismo mafioso contro sindacalisti, politici e militanti di sinistra

Quindici di loro erano stati assassinati dal giugno del 1945 fino a quel primo maggio 1947 [2]. Si trattava di una vera e propria strategia del terrore che prendeva di mira sindacalisti, politici, contadini e operai di sinistra e che si era manifestata anche a ridosso delle elezioni. Il 4 gennaio era stato assassinato il dirigente comunista e del movimento contadino Accursio Miraglia (ne abbiamo parlato anche nel post sull’omicidio di Placido Rizzotto: Placido Rizzotto: «I nostri nemici non sono i padroni, ma noi stessi»). Il 17 gennaio era stato trucidato il militante comunista Pietro Macchiarella, mentre altri mafiosi avevano sparato tra i lavorati del Cantiere navale di Palermo.

«Chi voterà per il Blocco del popolo non avrà né padre né madre»

Salvatore Celeste, capomafia di Piana, al termine di un comizio aveva gridato:

«Voi mi conoscete! Chi voterà per il Blocco del popolo non avrà né padre né madre».

Ciononostante, il 32% dell’elettorato siciliano aveva votato per il Blocco del Popolo, ribaltando il risultato delle elezioni del 1946 per l’Assemblea costituente. In quell’occasione, infatti, la Democrazia Cristiana aveva ottenuto il 33,62% al 20,52%, mentre il PSI e il PCI aveva raggiunto, rispettivamente, appena il 12,25% il 7,91% [3].

Le minacce e gli “avvertimenti” ai manifestanti del primo maggio

Tra i partecipanti alla manifestazione per il primo maggio del 1947 qualcuno ricordò di aver sentito alcuni giorni prima, in paese, mormorare una frase premonitrice:

«Partirete cantando, tornerete piangendo».

La stessa mattina del primo maggio a San Giuseppe Jato una donna, moglie di un esponente qualunquista, aveva avvertito altre donne che intendevano recarsi alla manifestazione a Portella della Ginestra, dicendo loro:

«Stamattina vi finirà male».

A Piana un mafioso si era rivolto ai manifestanti con queste parole:

«Ah sì, festeggiate il primo maggio, ma vedrete stasera che festa!».

La strage del primo maggio a Portella della Ginestra

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Nonostante le minacce e gli avvertimenti non si poteva immaginare che qualcuno potesse arrivare a sparare su una folla inerme. Era passato del tempo dai Fasci siciliani e dai massacri successivi. Cose che non si sarebbero ripetute, si pensava. In sostituzione di Girolamo Li Causi, deputato del PCI all’Assemblea Costituente e segretario regionale comunista, un calzolaio di San Giuseppe Jato, Giacomo Schirò, segretario della locale sezione socialista, decise di parlare alla folla. Dopo pochi minuti dall’inizio del suo discorso, all’improvviso, però, dalle colline circostanti il pianoro, partirono raffiche di mitra. Dapprima si credette che fossero scoppi di mortaretti. Non lo erano. La mascella di una bambina si coprì di sangue. Un bambino cadde colpito alla spalla. Qualcuno si abbatté al suolo senza rialzarsi. Tra questi un uomo con la testa maciullata. Una donna perdeva sangue dal petto crivellato sulla carcassa della sua cavalla. La gente cominciò a correre terrorizzata. Secondo le fonti ufficiali, quelle raffiche ammazzarono 9 adulti e 2 bambini e ferirono altre 27 persone, alcune delle quali morirono in seguito per i proiettili ricevuti. Tra i feriti due restarono invalidi per tutta la vita, una perse la vista e la parola e un altro l’uso della gamba destra. La carneficina durò in tutto un paio di minuti.

Il primo maggio 1947 a Portella della Ginestra era stata commessa la prima strage dell’Italia repubblicana.

Le reazioni alla strage del primo maggio.

La CGIL reagì alla strage con lo sciopero generale e accusando i latifondisti di tentare di «soffocare nel sangue le organizzazioni dei lavoratori». Ma l’Ispettore capo di polizia in Sicilia, Ettore Messana, qualificò il fatto come un episodio circoscritto, di carattere locale. In realtà erano state subito fermate 74 persone tra le quali dei noti mafiosi. E all’Assemblea Costituente il giorno dopo la strage del primo maggio, Girolamo Li Causi propose le sue accuse. Se già dopo le elezioni del 20 aprile, disse, c’era stata una campagna a base di provocazioni politiche e di intimidazioni, durante la strage il maresciallo dei carabinieri si era intrattenuto con dei mafiosi. Inoltre, denunciò, tra coloro che avevano aperto il fuoco sulla folla, si erano visti dei monarchici e dei membri del partito qualunquista. La sua accusa, però, venne interrotta dalle grida dei qualunquisti e di esponenti della destra presenti in Assemblea, mentre il ministro degli interni, il democristiano, Mario Scelba, sosteneva l’assenza di qualsiasi «movente politico». Secondo il ministro la strage del 1° maggio era stata solo un «fatto di delinquenza». Nei giorni seguenti i fermati vennero rilasciati, mentre l’ispettore Ettore Messana stabiliva che gli autori della strage erano Salvatore Giuliano e i suoi banditi. Nel frattempo, il 13 maggio, Alcide De Gasperi chiudeva il ciclo dei governi di unità nazionale, avviato con la fine della dittatura, cacciando i partiti socialisti e comunisti all’opposizione, mentre in Sicilia il democristiano Giuseppe Alessi dava vita ad un governo regionale, che escludeva il Blocco del Popolo, e si basava sull’appoggio dei partiti di destra oltre che della DC.

Il mistero sui mandanti della strage politica del primo maggio 1947

Nel 1948 Salvatore Giuliano scrisse una lettera all’Unità, in cui dichiarava che lo scopo della strage era di natura politica e alludeva apertamente a suoi rapporti con politici di spicco, incluso il ministro Scelba. Subito dopo molti membri della sua banda furono catturati. Il 5 luglio 1950 il bandito Giuliano venne ritrovato morto nel cortile della casa di un avvocato di Castelvetrano. Il Ministero dell’Interno comunicò che era stato ucciso, la notte precedente, in un conflitto a fuoco con un reparto dei carabinieri. Un articolo su L’Europeo, di Tommaso Besozzi, illustrò contraddizioni e incongruenze di quella versione, indicando, invece, come assassino di Salvatore Giuliano il suo luogotenente Gaspare Pisciotta, divenuto segretamente, poco prima della morte di Giuliano, un informatore dei carabinieri. Al processo di Viterbo per il massacro del 1° maggio a Portella della Ginestra, Pisciotta si autoaccusò dell’omicidio di Giuliano e accusò anche i deputati Bernardo Mattarella, Gianfranco Alliata, Tommaso Leone Marchesano e Mario Scelba di essere i mandanti politici della strage. Dichiarò:

«Servimmo con lealtà e disinteresse i separatisti, i monarchici, i democristiani e tutti gli appartenenti a tali partiti che sono a Roma con alte cariche, mentre noi siamo stati scaricati in carcere. Banditi, mafiosi e carabinieri eravamo la stessa cosa».

A gennaio del 1954, Pisciotta, detenuto all’Ucciardone, ritenendo di aver subito il carcere solo per avere servito lo Stato, chiese di parlare con il Procuratore della Repubblica di Palermo, Pietro Scaglione, per raccontargli la verità sui rapporti tra la banda di Giuliano e le autorità politiche. Scaglione ebbe un primo breve incontro con Pisciotta e lo rassicurò, dicendogli che si sarebbero rivisti dopo qualche giorno. Il 9 febbraio 1954, il giorno prima di incontrare Scaglione, Pisciotta morì avvelenato con un caffè corretto con la stricnina.

Pietro Scaglione verrà ucciso da Cosa Nostra quindici anni dopo.

Alberto Quattrocolo

[1] Già nell’ottobre del 1944, 14 mesi dopo lo sbarco in Sicilia delle forze anglo-americane, che avevano liberato l’isola da quelle nazifasciste, i contadini avevano occupato le terre incolte. L’occupazione era stata legalizzata da Fausto Gullo, il Ministro dell’Agricoltura del secondo governo Badoglio, nel quale erano rappresentati i partiti antifascisti, dopo vent’anni di dittatura. Gullo, comunista, tentando di rimediare alla povertà diffusa, aveva adottato alcuni decreti per permettere l’occupazione dei terreni non utilizzati e imporre una ripartizione dei raccolti che favorisse gli agricoltori anziché i proprietari, come invece prevedevano le consuetudini fino ad allora vigenti in Sicilia. Poi, però, i contadini siciliani persero questo loro alleato. Finita la guerra, nel Secondo governo di Alcide De Gasperi, Gullo fu sostituito all’Agricoltura dal possidente terriero democristiano Antonio Segni (Gullo prese il posto di Palmiro Togliatti come Ministro di grazia e giustizia).

[2] Andrea Raia (05/08/1944), che a Casteldaccia (Pa) si ribellava alla mafia in nome dei diritti dei contadini. Nunzio Passafiume (07/06/1945), sindacalista che lottava per l’occupazione delle terre in mano alla mafia. Agostino D’Alessandro (11/09/1945), segretario della Camera del lavoro di Ficarazzi (Pa). Giuseppe Scalia (25/11/1945), segretario della Camera del lavoro di Cattolica Eraclea (Ag). Giuseppe Puntarello (04/12/1945), dirigente della Camera del lavoro di Ventimiglia di Sicilia (Pa). Gaetano Guarino(16/05/1946), sindaco socialista di Favara e fondatore di una cooperativa agricola. Pino Camilleri (28/06/1946), sindaco socialista di Naro e organizzatore delle lotte contadine. Girolamo Scaccia e Giovanni Castiglione (22/09/1946), entrambi contadini ad Alia, in provincia di Palermo, uccisi nel corso di un attentato alla Camera del lavoro. Giovanni Severino (25/11/1946), segretario della Camera del lavoro di Jappolo Giancaxio (Ag). Filippo Forno (29/11/1946), contadino e sindacalista di Comitini (Ag). Nicolò Azoti(23/12/1946), segretario della Camera del lavoro di Baucina (Pa). Accursio Miraglia (04/01/1947), segretario della Camera del lavoro di Sciacca (Ag). Pietro Macchiarella (17/01/1947), militante del Partito comunista, impegnato nelle lotte contadine. Nunzio Sansone (13/02/1947), militante comunista, impegnato nella lotta per la riforma agraria, a Villabate, in provincia di Palermo. Leonardo Salvia (13/02/1947), impegnato nelle lotte contadine a Partinico (Pa).

[3] L’erosione democristiana fu recuperata dalle liste di destra: il Blocco LiberalQualunquista conquistò infatti 287.698 voti, pari al 14,8 % e 14 seggi; il Partito Nazionale Monarchico ebbe 185.423 voti, cioè il 9,5 %, quindi nove seggi. Il Movimento Indipendentista Siciliano (MIS), invece, ottenne solo 171.470 voti, corrispondente all’8,8 % e a otto seggi.Il PSU (futuro PSDI) ebbe 4 seggi, 3 li ebbero i Repubblicani, e 2 l’Unione Democratica Siciliana. Il Fronte dell’Uomo Qualunque ebbe un solo seggio.

Fonti

Santino Umberto, La democrazia bloccata. La strage di Portella della Ginestra e l’emarginazione delle sinistre, in Manali Pietro (a cura di), Portella della Ginestra 50 anni dopo (1947-1997), S. Sciascia editore, Caltanissetta-Roma 1999

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