Quell’irrealizzabile attentato a Mussolini che favorì l’affermazione della dittatura
Il 5 novembre 1925 Mussolini dava il via a quelle articolate misure repressive, progettate da tempo, che erano intese a instaurare la dittatura. Il giorno prima, infatti, era “scampato” ad un attentato. Era esattamente ciò che gli occorreva per compiere il liberticidio programmato.
4 novembre 1925, ore 6: un maggiore degli alpini e un suo giovane accompagnatore entrano all’Hotel Dragoni di largo Chigi
Alle sei di mattina, del 4 novembre 1925, un uomo in alta uniforme da maggiore degli alpini, con tanto di decorazioni al petto entrò nell’Hotel Dragoni di largo Chigi 9 a Roma, angolo via del Tritone. Sembrava un patriota ansioso di assistere alla parata per l’anniversario dalla vittoria della Grande Guerra. Si qualificò alla reception come maggiore Domenico Silvestrini. Lo accompagnava un uomo più giovane, lo stesso che alcuni giorni prima si era occupato della prenotazione della camera e che aveva insistito perché si trattasse di una stanza la cui finestra fosse, rispetto alla facciata dell’albergo, centrale e non laterale. Il proprietario dell’hotel, Romano Dragoni gli assegnò la camera numero 90.
Erano passati tre anni dalla marcia su Roma.
Dal 31 ottobre del ‘22 il Regno d’Italia aveva un governo fascista, presieduto da Mussolini – e lo avrebbe avuto per altri vent’anni circa, fino al 25 luglio del ‘43. Anche le elezioni del 1924, svoltesi in un intollerabile clima di violenza fascista, avevano premiato Mussolini, assegnandogli la maggioranza parlamentare.
Giacomo Matteotti, deputato del Partito Socialista Unitario, il 30 maggio 1924, alla Camera dei Deputati, però, aveva denunciato le brutalità, riconducibili al Partito Fascista, che avevano compromesso la correttezza delle elezioni tenutesi in aprile, mettendo, così, in discussione la libera formazione del consenso del popolo e, dunque, la stessa legittimità del Parlamento formalmente scaturito dalle urne[1].
A seguito del delitto Matteotti, era sembrato che la stella di Mussolini stesse tramontando. Ma l’illusione era durata poco[2]. Anzi, sempre più veloce andava affermandosi l’instaurazione del regime, annunciata dal discorso tenuto a Montecitorio il 3 gennaio proprio da Mussolini, nell’ambito del quale esplicitava l’intenzione di farla finita con l’opposizione e con il regime di democrazia liberale[3].
L’attentato che non poteva compiersi
Fu in questo contesto che maturò lo strano, quasi bizzarro, attentato a Mussolini del 4 novembre. Strano, perché non si può dire che fallì, visto che in un certo senso neanche iniziò. Infatti, non vi era alcuna possibilità che venisse sviluppato quell’attentato, predisposto e portato avanti da Tito Zaniboni.
Zaniboni voleva colpire il maggiore responsabile dell’omicidio Matteotti e della soppressione delle libertà politiche
Zaniboni, 42enne, già tenente colonnello degli alpini durante la Grande Guerra, pluridecorato per atti di coraggio, massone, ex deputato, ex membro del Partito Socialista Unitario, era un uomo disperato. Si era impegnato personalmente nelle ricerche di Matteotti, prima che ne venisse trovato il corpo. Aveva sperato che le forze di opposizione mostrassero maggior nerbo nel reagire a tale delitto e alla politica liberticida del fascismo. Ma, deluso dall’inefficacia della condotta dell’opposizione e dalla passività del Re, cui pure si era rivolto, aveva iniziato progettare il modo per rovesciare il Governo. Non trovando un serio appoggio neanche in tal senso, si era infine risolto di giustiziare il mandante dell’omicidio di Giacomo Matteotti e l’oppressore della libertà politica degli italiani.
Le autorità di polizia sapevano già tutto
A rendere impossibile il compimento del suo delitto, però, era il fatto che l’intenzione di Zaniboni di uccidere Mussolini era già nota all’autorità di polizia: i personaggi coinvolti, assai prima di quel 4 novembre 1925, erano sotto costante controllo da parte di spie, di carabinieri e poliziotti in borghese. Nel gruppo dei cospiratori vi era perfino un infiltrato, un informatore della polizia, tale Carlo Quaglia, giornalista del periodico del Partito popolare «Il Popolo» e studente in giurisprudenza.
Il maggiore degli alpini Domenico Silvestrini, accomodatosi nella stanza numero 90 dell’Hotel Dragoni quella mattina del 4 novembre 1925, infatti, era, in realtà, Tito Zaniboni e il giovane che lo accompagnava si chiamava Carlo Quaglia.
Tito Zaniboni aveva progettato di sparare a Mussolini, mentre, verso le 10 del mattino, secondo le previsioni, si affacciava dalla terrazza di palazzo Chigi per rivolgere un breve discorso alla folla convenuta in Piazza Colonna, durante la sosta del corteo che da Piazza del Popolo era diretto all’Altare della Patria. A tal fine, era stato collocato all’interno della stanza, in un armadio, un fucile austriaco di precisione.
Poco dopo le 9, però, il vice questore Errico Belloni e i suoi agenti della Questura di Roma comparvero nella stanza, la perquisirono, trovando l’arma, e arrestarono Zaniboni e Quaglia, di cui, naturalmente conoscevano già i nomi veri [4].
Le mosse del 5 novembre e delle settimane successive
I giornali del mattino del giorno dopo non facevano alcun cenno a quanto accaduto nell’albergo di largo Chigi, perché, il 4 Mussolini aveva tenuto la cosa riservata, passandola alla stampa soltanto il 5 novembre.
Così, fu solo a partire dalle edizioni straordinarie del pomeriggio del 5 che venne diffusa la notizia del mancato attentato a Mussolini e degli arresti eccellenti dell’onorevole Tito Zaniboni e del generale Luigi Capello (rispetto al gen. Capello e alla sorte di Zaniboni si veda la nota 4), ma non vi era una riga sul come era stato scoperto il complotto.
A Mussolini interessava suscitare l’indignazione dell’opinione pubblica e stimolarne il rancore verso gli oppositori del regime, rappresentandoli come moralmente responsabili del tentativo di Zaniboni di sparargli. In tal modo, contava di superare definitivamente gli imbarazzi e le difficoltà del delitto Matteotti e di avere il necessario consenso popolare per le misure liberticide da tempo messe in cantiere e che attendevano solo una apparentemente plausibile ragione per essere adottate.
Quell’attentato fu provvidenziale. Gli consentì di essere visto non più come colui su cui gravavano i sospetti di essere il mandante del massacro di Giacomo Matteotti, ma come la vittima del fanatismo antipatriottico, anti-italiano degli oppositori del fascismo.
I telegrammi, le manifestazioni “spontanee” di «allegrezza popolare» per Mussolini e la violenza squadrista
Furono inviati migliaia di telegrammi a Mussolini per congratularsi dello scampato pericolo. Quello di Roberto Farinacci, segretario del Partito Fascista e capo della sua ala «intransigente», quella impaziente di eliminare tutta l’opposizione, fu pubblicato a lettere cubitali sulle prime pagine di tutti i giornali fascisti e di quelli dei fiancheggiatori[5].
In tutt’Italia, Farinacci organizzò anche manifestazioni “spontanee” per celebrare lo scampato pericolo da parte di Mussolini e per condannare gli autori di un simile gesto. Molti, sia in quelle «manifestazioni di allegrezza popolare» che altrove, chiedevano a gran voce la reintroduzione della pena di morte.
Le squadre fasciste non si limitarono a vociare. Nonostante l’invito del Ministro degli Interni Luigi Federzoni e dello stesso Farinacci a mantenere la calma, le camicie nere scatenarono la loro violenza di strada contro socialisti e massoni in molte città (del resto, come riportato alla nota 2, anche all’indomani del delitto Matteotti avevano dato luogo ad una terribile ondata di violenza lungo tutta la Penisola).
I provvedimenti del Governo contro il PSU, le logge di Palazzo Giustiniani, i giornali, le Camere del Lavoro
Fu, soprattutto, il governo, però, a cogliere la palla al balzo per regolare i conti con gli oppositori politici e non solo. Infatti, non si limitò a occupare militarmente tutte le logge massoniche di Palazzo Giustiniani, dalle quali, secondo l’accusa, era sorto il complotto, ma sciolse d’autorità il Partito Socialista Unitario – sebbene Zaniboni ne fosse stato espulso nei mesi precedenti -, di cui furono chiuse le sezioni e sospeso il quotidiano «La Giustizia».
Toccò, quindi, alla stampa di opposizione subire ulteriori misure restrittive, con sospensioni e sequestri ai danni dell’«Avanti!», de «La voce repubblicana», del «L’Unità», de «Il mondo», de «Il Risorgimento» e de «La rivoluzione liberale» di Piero Gobetti. «La Stampa», che era stata sospesa a settembre per vilipendio delle forze armate, fu autorizzata a riprendere le pubblicazioni a condizione che non si occupasse più di politica (l’anno dopo, il suo proprietario, il senatore Frassati fu costretto a vendere il quotidiano). Il senatore Albertini fu costretto a lasciare la direzione del «Corriere della Sera», che in breve fu trasformato in un quotidiano amico del Governo.
Neppure i sindacati furono risparmiati. Già ad ottobre, con l’accordo di Palazzo Vidoni (sede del partito fascista) il Governo aveva fatto firmare ai rappresentanti di Confindustria un testo che li impegnava a riconoscere il monopolio della rappresentanza sindacale ai sindacati fascisti, ma dopo l’attentato del 4 novembre furono sciolte le ultime Camere del Lavoro e diverse federazione autonome. Non venivano ancora soppresse le grandi confederazioni, che subirono tale sorte nell’aprile del ’26, con la legge sulle Corporazioni, la quale istituiva il monopolio sindacale del sindacato fascista.
I passi legislativi verso lo stato fascista
Il fallito attentato di Zaniboni permetteva al ministro della Giustizia, l’ex nazionalista, Alfredo Rocco, di far adottare i primi testi legislativi intesi a modificare la natura e la struttura dei poteri pubblici, sostituendo a tutti i livelli il principio democratico con quello autoritario. La legge del 24 dicembre, ad esempio, inventava per il presidente del Consiglio, Benito Mussolini, la funzione di «Capo del governo e Duce del fascismo». Tale legge gli attribuiva la totalità del potere esecutivo, lo rendeva responsabile soltanto verso il Re e non verso il Parlamento, la cui funzione legislativa veniva compromessa e umiliata al punto che il Governo poteva fare le leggi, senza doverne necessariamente riferire alle Camere, che così diventavano, di fatto, dei meri organi di registrazione delle leggi del Governo.
Erano, queste, le prime “leggi fascistissime” rese possibili dai fatti del 4 novembre di 93 anni fa e dal modo in cui Mussolini e i suoi seppero sfruttare questo “strano” attentato fin dal giorno dopo.
Alberto Quattrocolo
Fonti
Dino Barattin, Tito Zaniboni e il complotto friulano per uccidere Mussolini, Libraria, San Daniele Del Friuli (Ud), 2011.
V. Castronovo e N. Tranfaglia, La stampa italiana nell’età fascista, Bari, Laterza, 1980
Pierre Milza, Mussolini, Carocci Editori, Roma, 2000
www.cultura.biografieonline.it/tito-zaniboni-attentato-al-duce/
www.wikipedia.org
[1] «Nessun elettore italiano si è trovato libero di decidere con la sua volontà. […] Vi è una milizia armata, composta di cittadini di un solo Partito, la quale ha il compito dichiarato di sostenere un determinato Governo con la forza, anche se ad esso il consenso mancasse», aveva dichiarato Matteotti. Al termine del suo intervento aveva mormorato ai compagni del suo partito: «Io, il mio discorso l’ho fatto. Ora voi preparate il discorso funebre per me». Infatti, una decina di giorni dopo, il 10 giugno, veniva sequestrato e ucciso (ma il suo cadavere verrà ritrovato soltanto il 16 agosto).
[2] Anzi l’offensiva squadrista contro gli antifascisti e i non fascisti aveva ripreso vigore fin dalla metà di agosto del 1924, a ridosso del ritrovamento del cadavere di Matteotti. Il 17 agosto, vale a dire il giorno dopo, a Napoli vi furono i primi disordini provocati dalle camicie nere. Il 5 settembre a Torino a Piero Gobetti, indicato da Benito Mussolini come uno di coloro cui si «si doveva rendere la vita impossibile», fu picchiato selvaggiamente. A Roma, dove un operaio, mentalmente disturbato aveva ucciso su un tram a colpi di pistola il deputato fascista Giovanni Corvi, per vendicare Giacomo Matteotti, i fascisti proposero un’escalation di brutalità, culminate nell’assassinio, a colpi di baionetta, di un cameriere di un caffè. Nelle ultime settimane del ’24, a Firenze 10.000 camicie nere incendiarono le sedi del “Nuovo giornale”, del giornale dei combattenti, della massoneria e del Circolo della cultura. A Bologna, Pisa, Siena e Arezzo i fascisti attaccarono oltre ai giornali le abitazioni degli oppositori e a Milano la sede del Corriere della Sera.
[3] Nel suo discorso alla Camera dei Deputati, quel giorno, tra le altre inquietanti affermazioni fece anche la seguente.
«L’Italia, o signori, vuole la calma laboriosa. Noi questa tranquillità, questa calma laboriosa gliela daremo con l’amore, se è possibile, con la forza se sarà necessario».
Dal giorno dopo, il 4 gennaio del ’25, usò la forza: in primo luogo, mobilitò la Milizia fascista cui all’indomani del delitto Matteotti erano stati forniti 100.00 fucili moderni. E nei giorni appresso la polizia e gli squadristi occuparono le sedi dei partiti antifascisti e dei giornali di opposizione. Numerosi circoli e associazioni furono sottoposti a scioglimento, si svolsero centinaia di perquisizioni e decine di arresti. Molti oppositori del fascismo decisero di darsi alla clandestinità, altri ripararono all’estero. Sul piano istituzionale, però, il regime fascista non venne alla luce in quel gennaio del ’25. Ciò accadrà soltanto un anno dopo, grazie all’inattuato attentato del 4 novembre 1925.
[4] Tito Zaniboni aveva organizzato l’attentato con l’aiuto di un gruppo di persone, che conoscevano il suo proposito ma il cui aiuto era stato tutt’altro che fondamentale, verosimilmente solo un piccolo sostegno economico. Tra questi, fu incluso anche il generale Luigi Capello, arrestato alcuni giorni dopo l’attentato, ma che si dichiarò sempre innocente e fu condannato a trent’anni di carcere. Zaniboni fu condannato per alto tradimento a trenta anni di reclusione. Nel 1935 spedì diverse lettere a Mussolini per ringraziarlo di aver aiutato economicamente la figlia a terminare gli studi universitari. Inoltre, prese parte dal carcere alla campagna “Oro alla Patria” per finanziare la guerra d’Etiopia e promise di porsi al servizio del Regime. Con altre lettere del 1939 prese poszione in favore del fascismo. Anche la figlia, Bruna scrisse a Mussolini per ringraziarlo del trattamento ricevuto gli regalò la propria tesi di laurea. Zaniboni venne scarcerato l’8 settembre 1943, e fu chiamato da Badoglio a far parte del governo, ma rifiutò. Nel febbraio del ’44 accettò per la nomina di alto commissario “per l’epurazione nazionale dal fascismo”. Nel secondo Governo Badoglio fu poi nominato alto commissario per i profughi e i reduci fino al 1945. Dal 1950 al 1960 fu Presidente dell’UNUCI – Unione Nazionale degli Ufficiali in Congedo d’Italia. Morì a Roma nel dicembre del ’60. Il gen. Capello morì 19 anni prima. Era stato rimesso in libertà il 22 gennaio 1936. La condanna abbreviata fu dovuta alla convinzione di Mussolini che, nonostante le prove, in realtà, il generale fosse estraneo all’attentato, nonché per il riconoscimento degli importanti meriti che il militare aveva acquisito nella Grande Guerra.
[5] Questo era il testo del telegramma: «Duce, se la massa dei fascisti volesse seguire il suo spontaneo impulso avrebbe voluto fare giustizia sommaria di tutti coloro che nei tempi del tragicomico quarterellismo scelsero a proprio leader l’on. Zaniboni, ma abituati come sempre ad ubbidire si limiterà quest’oggi con imponenti manifestazioni di giubilo per la tua immunità, che è immunità dell’Italia, a dimostrarti ancora una volta il suo affetto e la sua devozione. Ho dato ordini a tutti i dipendenti fascisti perché ogni rappresaglia sia scongiurata e ciò per non svalutare le imponenti cerimonie di questi ultimi giorni e per non dare soverchia importanza alle opposizioni che con vile tentativo hanno riaffermato la loro impotenza». Arcovaldo Bonaccorsi, capo delle squadre bolognesi, telegrafò a Mussolini: «Criminalità avversari fascismo et traditori patria impone esemplare punizione colpevoli. Offromi come boja per decapitare arrestati». Anche l’onorevole Balbino Giuliano, ex sottosegretario alla Pubblica Istruzione, nel suo telegramma si offriva come: «boja!».
Ho conosciuto CARLO QUAGLIA a Mogadiscio nei primi anni del ’60, in occasione di una mia missione in Somalia sotto l’egida delle Nazioni Unite. Aveva un ben avviato studio di avvocato in associazione con l’avv. Mohammed Gabiou. Ignoro come abbia fatto a laurearsi in giurisprudenza (e divenire avvocato) se fu inviato al confino in Somalia subito dopo l’attentato, dal momento che, allora, non vi era una Università.
Grazie,Gino Pelizzon,per aver commentato il presente post, ricordando e condividendo quanto ci ha scritto.
Buona serata.
Alberto Quattrocolo