Quando Marlon Brando rifiutò l’Oscar perché «non siamo umani»
Il 27 marzo del 1973, Marlon Brando non partecipò alla cerimonia di consegna dei premi Oscar. E fu proprio la sua assenza a rendere memorabile quella serata. Lo scopo di Marlon Brando era quello di sensibilizzare l’opinione pubblica americana sulle ingiustizie disumane da sempre sofferte dai nativi-americani e, in tal modo, un po’ più implicitamente, denunciare la natura razzista e violenta di tanta parte della politica interna ed estera degli Stati Uniti. Non presentandosi al Dorothy Chandler Pavillon, quella sera di fine marzo, di quarantasei anni fa, questo selvaggio attore di 49 anni riuscì nel suo intento.
L’impegno di Marlon Brando sul fronte dei diritti civili e contro il razzismo
Era noto a molti fan di Marlon Brando che l’attore si era avvicinato da alcuni anni alla causa degli amerindi. Ma ciò non faceva notizia. Brando era stato sempre molto attivo sul piano politico: aveva dato contributi economici alla campagna per la candidatura alla presidenza degli Stati Uniti d’America di John Fitzgerald Kennedy (cui abbiamo dedicato due post: uno in occasione dell’anniversario della sua elezione e uno in quello del suo assassinio). Nell’agosto 1963 aveva partecipato alla Marcia su Washington insieme con altre star hollywoodiane democratiche e liberal quali, Burt Lancaster, Sidney Poitier, James Garner, Charlton Heston, Paul Newman, Harry Belafonte… (ne abbiamo parlato nel post dedicato a Paul Newman e in quello dedicato a Sidney Poitier, nonché su quello più recente su Richard Widmark, su questa rubrica). Negli anni sessanta aveva donato inoltre migliaia di dollari al movimento guidato da Martin Luther King e donò fondi per i bambini malati del Mississippi. Assieme a Paul Newman era stato attivista del movimento Freedom Riders [1].
Marlon Brando era sicuro che sarebbe stato premiato
Nonostante questi precedenti, la decisione di Marlon Brando di non partecipare alla cerimonia, però, poteva non essere di per sé oggetto di una corposa attenzione mediatica. Per ottenere un adeguato riscontro, non era sufficiente essere candidati e ignorare la cerimonia di premiazione, occorreva essere proclamati vincitori. Ma Marlon Brando su questo punto aveva ridotto al minimo i suoi dubbi. Il padrino (1972), di Francis Ford Coppola, stava raccogliendo un successo commerciale planetario ed era candidato a ben dieci premi Oscar [2]. Inoltre, Marlon Brando era arrivato alla sua ottava candidatura. L’altro Oscar, il primo ricevuto, lo aveva ottenuto quasi vent’anni prima per la parte di Terry Malloy, il protagonista di Fronte del porto (1954, di Elia Kazan). Inoltre era più che rassicurato dalla validità della sua performance nei panni di Vito Corleone.
Marlon Brando e l’attivista Sacheen Littlefeather
Marlon Brando, però, una volta presa la decisione di approfittare della 45esima cerimonia degli Oscar, quella appunto del 27 marzo 1973, ritenne che non sarebbe stato sufficiente comunicare all’Academy Awards e alla stampa la sua indisponibilità a ritirare il premio. Occorreva un gesto più incisivo per suscitare una rilevante attenzione sulla sua protesta circa il trattamento inflitto ai nativi americani e alle minoranze in generale, dall’industria cinematografica hollywoodiana, nonché dalla politica e dalla cultura dominanti negli Stati Uniti. Occorreva un gesto politico. Perché la politica è anche comunicazione. Per riuscire nel suo intento, Marlon Brando chiese ad una donna di aiutarlo. Si trattava di Sacheen Littlefeather, al secolo Marie Louise Cruz, attrice, attivista per i diritti civili e presidente del National Native American Affirmative Image Committee.
Sacheen Littlefeather: «Questa sera rappresento Marlon Brando»
L’annuncio della vittoria di Marlon Brando, quel 27 marzo al Dorothy Chandler Pavillon, fu dato da Liv Ullmann e Roger Moore, mentre in sottofondo riecheggiavano le note della colonna sonora del film firmata da Nino Rota. Però, ai due attori non si aggiunse Marlon Brando, bensì Sacheen Littlefeather, che rifiutò con un gesto delicatissimo la statuetta. In mano aveva le pagine scritte da Marlon Brando per spiegare le ragioni del suo rifiuto. Non le fu, però, permesso di leggerle. Uno dei vertici dell’organizzazione aveva minacciato di farla arrestare, se il discorso fosse durato più di sessanta secondi [3]. Così la donna improvvisò il discorso davanti alla platea del Dorothy Chandler Pavillon – mentre tra i presenti si levavano commenti di disapprovazione e applausi – e a quasi novanta milioni di telespettatori in diretta.
«Questa sera rappresento Marlon Brando. Mi ha chiesto di dirvi […] che è davvero dispiaciuto di non poter accettare questo premio. La ragione è dovuta al trattamento degli indiani d’America nell’odierna industria cinematografica […] e televisiva, anche rispetto ai recenti avvenimenti di Wounded Knee».
Il discorso integrale di Marlon Brando
Sacheen Littlefeather poté leggere l’intero testo scritto da Marlon Brando, quindi, solo nel backstage. Il New York Times lo pubblicò interamente il giorno seguente.
«Facciamo delle loro virtù un crimine e dei nostri misfatti una virtù»
«Per 200 anni al popolo indiano, che lottava per la propria terra, la propria vita, le proprie famiglie e il proprio diritto di essere libero, noi abbiamo detto: “Deponete le vostre armi, amici, e noi vivremo insieme. Solo se deporrete le armi, amici, si potrà parlare di pace e arrivare ad un accordo che vi porterà la felicità”. Quando deposero le armi, noi li assassinammo. Noi mentimmo loro. Noi li defraudammo delle loro terre. Noi li facemmo morire di fame per mezzo di accordi fraudolenti, da noi definiti “trattati” e da noi mai rispettati. Noi li riducemmo ad essere accattoni in un continente che aveva dato loro da vivere a memoria d’uomo. Né rendemmo poi loro giustizia, interpretando sempre in maniera distorta la Storia. Non fummo né leali né giusti. Non ci siamo sentiti tenuti a rendere giustizia a questo popolo, né a lasciarlo vivere secondo quei trattati. E ciò in virtù di un potere che ci arroghiamo e con il quale violiamo i diritti altrui, ne prendiamo le proprietà, gli distruggiamo la vita se cercano difendere la loro terra e la loro libertà. Facciamo delle loro virtù un crimine e dei nostri misfatti una virtù»
«Il tremendo verdetto della Storia»
Il discorso di Marlon Brando proseguiva così:
«Ma una cosa brucia i poteri di questa perversione, ed è il tremendo verdetto della Storia. E la Storia sicuramente ci giudicherà. Ma quale importanza ha questo per noi? Quale sorta di schizofrenia morale ci permette di strepitare per tutto il mondo che noi viviamo nella libertà, quando tutti gli assetati, affamati, umiliati giorni e notti degli ultimi anni di vita dell’Americano Indiano smentiscono questa voce?»
La frecciata di Marlon Brando alla politica estera americana: «Non siamo umani e non rispettiamo le nostre stesse leggi»
A questo punto del suo discorso, Marlon Brando inserì un cenno polemico alla politica estera statunitense [4].
«Sembra quasi che in questa nazione il rispetto e l’amore reciproci, come principi base dei rapporti con le genti vicine, non siano funzionali ai nostri principi, e che tutto quanto si è compiuto per opera nostra sia stato solo per annichilire le speranze di altri Paesi, quelli amici e quelli nemici. Cioè, non siamo umani e non rispettiamo le nostre stesse leggi».
L’offesa alle menti dei nativi-americani bambini di cui non ci si rende conto
Marlon Brando spostò il riflettore sui film di Hollywood e sulla rappresentazione disumanizzante dei nativi americani da parte dei bianchi.
«Forse in questo momento vi chiederete che diavolo tutto questo c’entri con gli Academy Awards. Perché questa donna stia lì sopra a rovinare la nostra serata, ad invadere la nostra vita con cose che non ci riguardano, e di cui non ci importa nulla. A farci sprecare il nostro tempo e il nostro denaro, intrufolandosi nelle nostre case. Penso che la risposta a queste domande sia che la comunità del cinema, al pari di tutte le altre, ha avuto una pesante responsabilità nel degradare l’indiano, nel fare della sua personalità una caricatura, nel descriverlo come un selvaggio, ostile e demoniaco. È davvero duro per i bambini crescere in questo mondo. Quando i bambini indiani guardano i film alla televisione, e vedono il loro popolo ritratto come lo è nei film, le loro mente sono offese in modi ci cui non riusciamo a renderci conto».
«Se non siamo i tutori di nostro fratello, facciamo almeno in modo di non esserne i boia»
«Di recente sono stati fatti pochi, incerti, passi per modificare questa situazione. Ma troppo incerti e troppo pochi. Pertanto io in quanto membro di questa comunità professionale, in quanto cittadino degli Stati Uniti, non mi sento di accettare un Oscar questa sera. Penso che i premi in questo Paese, in questo momento, non possono essere dati né ricevuti finché la condizione dell’americano indiano non sarà radicalmente mutata. Se non siamo i tutori di nostro fratello, almeno facciano in modo di non esserne i boia».
«Avrei voluto essere qui stasera per parlarvi direttamente, ma…»
«Avrei voluto essere qui stasera per parlarvi direttamente, ma ho ritenuto di essere forse più utile a Wounded Knee, a prevenire una pace disonorevole “finché i fiumi scorreranno e l’erba crescerà”. Spero che non riterrete questa una brutale interruzione, bensì un serio sforzo di attirare l’attenzione su un popolo, in rapporto al quale si determinerà se questo Paese ha il diritto o no di affermare di vivere negli inalienabili diritti di tutto il popolo a rimanere libero e indipendente nelle terre che hanno nutrito la sua vita a memoria d’uomo. Grazie della vostra benevolenza e della vostra cortesia verso Miss Piccola Piuma. Grazie, e buona notte».
Il risultato ottenuto da Marlon Brando e Sacheen Littlefeather
Marlon Brando e Sacheen Littlefeather ottennero così che la stampa si recasse in South Dakota dove l’American Indian Movement aveva occupato la riserva di Wounded Knee (che era già stata scenario del massacro di un intero villaggio Sioux nel 1890), come atto di protesta contro le politiche del Governo. Quest’attenzione mediatica non piacque all’FBI, la quale iniziò a diffondere falsità sull’attivista indiana, rovinandole la carriera. Sacheen Littlefeather, però, non ha mai smesso di lottare a favore dei diritti civili e non si è mai pentita di essere salita su quel palco, al posto di Marlon Brando. Recentemente ha dichiarato:
«Rosa Parks fu la prima a sedersi su quell’autobus. Qualcuno doveva essere il primo a pagare il prezzo del biglietto. E quel qualcuno sono stata io…» [5].
Alberto Quattrocolo
[1] Fin dal giorno immediatamente successivo all’assassinio di Martin Luther King, nel 1968, Marlon Brando aveva dichiarato che avrebbe aumentato il proprio impegno attivo nel movimento. Anche molte delle sue scelte professionali erano in linea con il suo impegno politico. Anzi, spesso ne erano fortemente condizionate. Oltre al caso del film La Caccia, 1966, di Arther Penn (ne abbiamo parlato nel post La caccia ai capri espiatori), si pensi ad opere antirazziste come Sayonara (1957, di Joshua Logan), di denuncia della mentalità violentemente reazionaria e bigotta del Sud degli Stati Uniti, come Pelle di serpente (1960, di Sindey Lumet), o ad un film, da lui anche prodotto, di esplicita condanna della ingerenza statunitense nelle vicende vietnamite come Missione in Oriente (1964, di George Englund).
[2] Il Padrino aveva incassato 135 milioni di dollari nei soli Stati Uniti, battendo il record del kolossal più acclamato di sempre, il leggendario Via col vento. Le candidature proposte per Il padrino erano le seguenti: miglior film per il produttore Albert S. Ruddy; miglior attore protagonista per Marlon Brando e migliore sceneggiatura non originale per Francis Ford Coppola e Mario Puzo; migliore regia per Francis Ford Coppola; 3 migliori attori non protagonisti per James Caan, Robert Duvall, Al Pacino; migliori costumi per Anna Hill Johnstone; miglior montaggio per William Reynolds e Peter Zinner; migliore sonoro per Charles Grenzbach, Richard Portman e Christopher Newman. I premi assegnati furono quelli per le prime tre candidature sopra elencate (miglior film, miglior sceneggiatura originale, miglior attore protagonista)
[3] Inoltre pare che John Wayne si fosse detto pronto a trascinarla giù dal palco di forza.
[4] Si ricordi che quelli non erano soltanto gli anni della guerra in Vietnam (cui abbiamo dedicato i seguenti post:“I had a brother at Khe Sanh, Fighting off the Viet Cong”; Il 4 agosto del 1964 il cosiddetto incidente del Tonchino ‘legittima’ l’escalation dell’intervento militare degli Stati Uniti in Vietnam; Rolling Thunder si scatena sul Vietnam; 12 novembre 1969: il giornalista freelance Seymour Hersh scopre l’eccidio di My Lai), ma anche quelli del colpo di Stato in Cile (si veda questo post) e che cominciavano ad essere apertamente denunciate le tantissime altre ingerenze, tutt’altro che democratiche e legali, nelle vicende interne di diversi Paesi, non ultimo il nostro.
[5] Il 1º dicembre 1955, a Montgomery (Alabama), Rosa Parks, tornando a casa in autobus dal suo lavoro di sarta, poiché non aveva trovato altri posti liberi, sedette in un sedile tra quelli dietro a quelli riservati ai soli bianchi, nel settore dei posti comuni. In quello Stato come in altri del Sud degli Stati Uniti, però, vigeva la segregazione razziale. Dopo tre fermate, quindi, l’autista le chiese di alzarsi e spostarsi in fondo all’automezzo per cedere il posto ad un passeggero bianco salito dopo di lei. Rosa, in modo sommesso e dignitoso, rifiutò di alzarsi. Il conducente fermò il mezzo e chiamò la polizia. Rosa fu arrestata e condannata per condotta impropria e per aver violato le norme cittadine che obbligavano le persone di colore a cedere il proprio posto ai bianchi nel settore comune, quando in quello a loro riservato a questi ultimi non ve n’erano più di disponibili. Da allora Rosa Parks divenne nota come The Mother of the Civil Rights Movement.
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