Il primo giudice ucciso dalla mafia
Il caso Scaglione segna un confine che non può essere oltrepassato, un punto di non ritorno.
Il 5 maggio 1971, il Procuratore Capo della Repubblica di Palermo Pietro Scaglione e l’autista Antonio Lo Russo, agente di scorta, percorrono in auto via dei Cipressi. Come ogni mattina, il giudice si sta recando al cimitero di Palermo: la visita è alla moglie Concetta, scomparsa da qualche anno. Prima di arrivare a destinazione, i due vengono affiancati da una Fiat 850, che in pochi secondi blocca la macchina. I killer scendono rapidi dal proprio mezzo ed esplodono due raffiche di mitra. Scaglione e Lo Russo muoiono sul colpo.
La frase che apre l’articolo di oggi è presa dall’editoriale del Corriere della Sera del giorno successivo all’omicidio: Alberto Sensini sintetizza bene la situazione che si apre con quell’atto efferato. La mafia, fino a quel giorno, non aveva ancora toccato un magistrato. Certo, di sangue ne era stato versato molto, sempre troppo, ma l’escalation si era come fermata. L’attacco a viso aperto alle istituzioni era ancora lontano. Uccidere un giudice, tuttavia, costituì un chiaro passo in quella direzione. Davvero “un punto di non ritorno”.
Cesare Terranova, Lenin Mancuso e Boris Giuliano nel 1979, Carlo Alberto Dalla Chiesa nel 1982, Giangiacomo Ciaccio Montalto e Rocco Chinnici nel 1983, Ninni Cassarà e Roberto Antiochia nel 1985, Rosario Livatino nel 1990, Antonino Saetta e il figlio Stefano nel 1988, Antonino Scopelliti nel 1991. Gli uomini di legge caduti sotto i vili colpi degli uomini d’onore sono molti. Negli ultimi mesi abbiamo provato a ricordarne alcuni. Pietro Scaglione fu, suo malgrado, il primo di questa orribile lista.
Palermitano di origine, nasce agli inizi del nuovo secolo. In pochi anni potrà rivestire il ruolo di difensore dello stato, anche nelle vesti di Vicepretore e Pretore. Giunto alla Procura della sua città, gli vengono affidati i processi per la strage di Portella della Ginestra del 1° maggio 1947. Nel febbraio del 1954, Gaspare Pisciotta, luogotenente di Salvatore Giuliano condannato all’ergastolo, chiede di parlare con un magistrato. È di turno Scaglione. Pisciotta ricostruisce a lui i particolari e la dinamica di quella strage. Il magistrato assicura che tornerà l’indomani con un cancelliere. Ma Pisciotta muore dopo aver bevuto un caffè alla stricnina. Da Procuratore capo indaga anche sulla strage di Ciaculli e con l’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo contribuisce a reprimere efficacemente la mafia, come attesta anche la Relazione della Commissione parlamentare antimafia.
Nondimeno, come scrisse Giovanni Falcone, il primo omicidio di un giudice ebbe “lo scopo di dimostrare a tutti che Cosa nostra non soltanto non era stata intimidita dalla repressione giudiziaria, ma che era sempre pronta a colpire chiunque ostacolasse il suo cammino”. Una strategia di attacco diretto, inedita fino a quel momento, che può far pensare a un cambiamento ai vertici di Cosa nostra. Tesi sostenuta anche da Tommaso Buscetta, celeberrimo collaboratore di giustizia, che, di fronte allo stesso Falcone, diceva di Scaglione: “Un magistrato integerrimo e spietato persecutore della mafia”. Per il Boss dei due mondi, le menti e gli autori della strage furono Luciano Leggio e Salvatore Riina. La mafia siciliana stava cambiando, probabilmente in peggio.
Purtroppo, le indagini non portarono a prove sufficientemente certe a condannare nessuno, per cui, ad oggi, la verità giudiziaria è lontana dall’identificare i responsabili di quel doppio omicidio. Una cosa è certa, dice Pietro Scaglione, il nipote: “Mio nonno (riconosciuto “vittima del dovere” dal Ministero della Giustizia, previo parere del Csm) fu ucciso per avere svolto la sua attività giudiziaria in modo “specchiato e inflessibile” “.
Alessio Gaggero
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