Oh, che bella guerra
Il 24 maggio del 1915 l’Italia entrava in guerra, in quella che sarebbe diventata la Prima Guerra Mondiale.
L’Italia tra la Triplice Alleanza e la Triplice Intesa
La Prima Guerra Mondiale (alla quale su questa rubrica, Corsi e Ricorsi, sono stati dedicati numerosi post), che coinvolse le principali potenze mondiali e molti Stati minori, rivelandosi il più grande conflitto armato mai combattuto fino ad allora, era iniziata il 28 luglio 1914, con la dichiarazione di guerra avanzata dall’Impero austro-ungarico al Regno di Serbia, a seguito all’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo-Este, avvenuto un mese prima, il 28 giugno 1914, a Sarajevo. La dinamica delle alleanze, sviluppatesi negli ultimi decenni del 1800, aveva portato ad una reazione a catena, che aveva determinato lo schierarsi in campo delle maggiori potenze mondiali, e poco per volta delle rispettive colonie. Si erano, così, costituiti due blocchi contrapposti: da una parte, gli Imperi centrali (vale a dire la Germania, l’Impero austro-ungarico e l’Impero ottomano); dall’altra, gli Alleati rappresentati principalmente da Francia, Regno Unito, Impero russo (la Triplice Intesa)
Il 24 maggio del 1915, un anno dopo l’inizio del conflitto in Europa, l’Italia, fin lì rimasta neutrale, fece il suo ingresso in questo immenso mattatoio, al fianco della triplice Intesa.
La neutralità del Regno d’Italia, pur essendo parte della Triplice Alleanza
Il Regno d’Italia aveva conservato al neutralità trattando per un certo tempo, a volte anche contemporaneamente, sia con gli Imperi centrali, che con la Triplice Intesa. Infatti, l’Italia il 20 maggio 1882 a Vienna aveva firmato con gli imperi di Germania e Austria-Ungheria (che già formavano la Duplice alleanza) un patto militare con il quale si era costituita la Triplice Alleanza. Però, in virtù dell’art. 4 del trattato, nel 1914, aveva potuto dichiararsi neutrale. Il Consiglio dei Ministri del 2 agosto 1914 aveva preso questa decisione e l’aveva diramata la mattina del 3:
«Trovandosi alcune potenze d’Europa in istato di guerra ed essendo l’Italia in istato di pace con tutte le parti belligeranti, il governo del Re, i cittadini e le autorità del Regno hanno l’obbligo di osservare i doveri della neutralità secondo le leggi vigenti e secondo i princìpi del diritto internazionale».
Dieci mesi dopo, il 23 maggio del 1915 il Regno d’Italia abbandonò definitivamente lo schieramento della Triplice Alleanza e la neutralità, dichiarando guerra all’Austria-Ungheria. Il giorno dopo avviò le operazioni belliche, per poi dichiarare guerra anche all’Impero ottomano, il 21 agosto 1915, che nel frattempo aveva preso il posto dell’Italia nella Triplice Alleanza, al Regno di Bulgaria, il 19 ottobre 1915, e all’Impero tedesco, il 27 agosto 1916.
La fatale decisione di tre uomini
La drammatica, gravissima, decisione di entrare in guerra contro l’Impero austro-ungarico annunciata il 23 maggio 1915 e messa in pratica il 24 maggio, non venne presa dal Parlamento italiano, dopo un ampio ed esauriente dibattito, ma soltanto da tre uomini: il presidente del Consiglio dei Ministri, Antonio Salandra, il ministro degli Esteri, Sidney Sonnino, e il re Vittorio Emanuele III. La maggioranza del Paese, pur spaccata tra interventisti e neutralisti, era, comunque, avversa alla guerra e, in particolare, lo erano le donne, che erano prive del diritto di voto. La neutralità aveva ottenuto inizialmente un consenso pressoché unanime. Poi l’insuccesso dell’offensiva tedesca contro gli Alleati, sulla Marna, diffuse i primi dubbi in Italia sulla invincibilità tedesca. Così, già, dei gruppi interventisti cominciarono a farsi sentire nell’autunno 1914, crescendo in pochi mesi. La tesi degli interventisti era che l’Italia, se fosse rimasta neutrale, avrebbe perso prestigio, credibilità e potere sul piano internazionale. Se avesse vinto la Triplice Intesa, sarebbe stata fuori dai giochi e avrebbe potuto scordarsi le mire su quanto le interessava, vale a dire il Trentino, le isole della Dalmazia, Gorizia, Gradisca e un «primato» sull’Albania. Se avessero vinto la guerra gli Imperi centrali, pensavano gli interventisti, si sarebbero vendicati dell’Italia, considerandola traditrice di un’alleanza trentennale. Per un intervento a fianco dell’Intesa erano schierati, i nazionalisti, la destra conservatrice, il centro sinistra repubblicano e radicale, il socialismo riformista e l’anarco-sindacalismo. Contro la guerra erano schierati i ceti borghesi, al cui vertice c’era il loro leader Giovanni Giolitti, il mondo cattolico e i socialisti. Se in termini numerici i contrari alla guerra erano una netta maggioranza, il loro peso politico era sminuito da vari fattori. Tra questi, c’era quella della natura non altisonante né demagogica dei loro argomenti. Tutti fondati sull’esame di realtà, sulla razionalità e sui principi umanitari.
La debolezza politica della maggioranza neutralista
Mentre gli interventisti potevano far vibrare corde emotivamente più potenti: il patriottismo, l’onore, l’identità nazionale, l’orgoglio, le aspirazioni coloniali, funzionavano efficacemente come argomenti per le persone di destra, mentre la parte progressista sentiva sollecitati gli ideali della democrazia e della lotta alle monarchie autocratiche degli Imperi centrali, che venivano connessi e alla liberazione di Trento e Trieste. Inoltre, i neutralisti non potevano contare su organi ed istituzioni politiche in grado di smuovere le masse. A tale riguardo, va detto che il governo e il re, di certo, non consultarono la massa contadina, afflitta dalla miseria. Né, a conti fatti, lo fecero altri. Però furono i contadini, poveri e in gran parte analfabeti, a sopportare il sanguinoso peso della guerra. E lo fecero con passiva rassegnazione. Del resto, coloro che avrebbero potuto dare voce alla contrarietà alla guerra delle masse contadine, i socialisti, non vi riuscirono. Pur essendo numerosi, e in larga parte fino alla fine decisamente ostili alla guerra, subirono una scissione da parte di coloro che come il deputato socialista trentino, Cesare Battisti, sostenevano che il socialismo non poteva ignorare le radici nazionali e le ragioni dell’appartenenza nazionale.
«Il vecchio anti-patriottismo è tramontato» (Benito Mussolini)
Fatto ancor più significativo il direttore dell’Avanti!, giovane leader del partito, Benito Mussolini, non soltanto abbandonò prima il giornale, ma anche il partito stesso, giungendo a dichiarare il 10 novembre del 1914: «il vecchio antipatriottismo è tramontato». Cinque giorni dopo, sul primo numero de Il Popolo d’Italia, da lui fondato, fece uscire il pezzo «Audacia», con cui esprimeva tutto il suo entusiasmo per l’entrata in guerra.
L’ambivalenza dei liberali
Per quanto riguarda la corrente liberale, Salandra, perseguendo la sua ambizione di spostare il partito liberale a destra, aveva dapprima moderatamente appoggiato la causa neutralista, per poi passare sul fronte interventista, convinto a fare ciò anche dal ministro Sonnino. Costui, infatti, stava conducendo una serie di trattative segrete con entrambi gli schieramenti in guerra. E, il 26 aprile 1915, firmava il Patto di Londra, impegnando l’Italia ad entrare in guerra entro un mese al fianco dell’Intesa.
Le «aspirazioni nazionali»
In realtà, le trattative con Vienna si erano protratte fino all’11 maggio di quell’anno fatale, il 1915. E l’Austria aveva concesso alle richieste dell’Italia, definite dagli italiani «aspirazioni nazionali», una parte del Trentino, una parte del Litorale adriatico e la piena autonomia municipale di Trieste. Il governo italiano e il monarca, però, avevano obiettivi imperialistici altri e ulteriori, che non potevano essere definiti, onestamente, delle mere «aspirazioni nazionali». Il desiderio e la pretesa di annettere all’Italia territori abitati da forti minoranze tedesche, slovene e croate, suscettibili di suscitare in costoro moti irridentistici nei confronti del dominio italiano, poco c’entravano con i miti risorgimentali. Tuttavia a quella visione risorgimentale si richiamava, esplicitamente e con un certo successo, la propaganda dei favorevoli alla guerra, cioè degli interventisti.
Così ad un accordo con l’Impero austro-ungarico, Salandra, Sonnino e Vittorio Emanuele III, che non avrebbe provocato il sacrificio di nessuna vita, preferivano un’altra soluzione. Quella bellica.
L’infinito macello della guerra «patriottica»
Oltre 70 milioni di uomini furono mobilitati in tutto il mondo (60 milioni solo in Europa) di cui oltre 9 milioni furono massacrati sui campi di battaglia. Altri 7 milioni di persone furono spazzate via dalle conseguenti carestie ed epidemie. All’Italia, la decisione di partecipare alla guerra avrebbe procurato 652.000 morti, 450.000 invalidi, un onere finanziario di 157 miliardi di lire, che avrebbe gravato lo Stato di un debito pubblico colossale, la distruzione delle conquiste sindacali, l’intensificazione dello sfruttamento del proletariato nelle fabbriche, oltre che nelle trincee.
Eppure, tolti gli intossicati dalla propaganda sulla bella guerra, i vertici dello Stato avrebbero dovuto sapere che si apprestavano a scaraventare il Paese in un vortice di atrocità. Da un anno era evidente a tutte le parti in conflitto che quella guerra era un immenso mattatoio. Per la prima volta si usavano armi micidiali, come l’aeroplano, il carro armato, il lanciafiamme, le bombe a mano, le bombarde, i gas asfissianti e vescicanti. Da un anno gli eserciti contrapposti si immolavano nell’inferno, prima sconosciuto, delle trincee.
Soprattutto, è sconcertante pensare come la decisione di entrare in guerra non fosse stata trattenuta dalla consapevolezza della debolezza delle forze armate italiane e della scarsità delle risorse.
L’avanzata contro l’Austria-Ungheria del 24 maggio del 1915, non soltanto gettò gli italiani in un macello epocale, ma pose le basi alla nascita del di poco successivo totalitarismo. Fu da quella guerra «patriottica», infatti, che sarebbero sorti tutti i totalitarismi, fascismo, bolscevismo e nazismo.
Alberto Quattrocolo
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