Nazionalrazzismo
Si va diffondendo con il socialrazzismo anche il nazionalrazzismo. Li chiamo così, per comodità espositiva. Non so quanto tali termini siano davvero descrittivi ed esplicativi dei fenomeni cui li riferisco, ma penso cha abbiano un certa intrinseca potenzialità evocativa.
Avevo definito socialrazzismo l’atteggiamento di chi, ammettendo o meno di essere razzista, oltre a provare sentimenti fortemente xenofobi, odia i migranti perché li ritiene una minaccia per il Welfare e, dunque, considera complici di tale nemico, quando non principale nemico, i fautori e gli attuatori delle politiche di accoglienza e inclusione. Avevo anche aggiunto che tale forma di razzismo – che si distingue dal razzismo puro e semplice, il quale non si vergogna di rivendicare la propria natura e non sente la necessità di invocare preoccupazioni di difesa dello stato sociale – trova spesso nei social una forma di promozione ed esaltazione della violenza che gli è intrinseca.
Mi permetto di chiamare nazionalrazzismo ciò a cui danno luogo le organizzazioni formali e informali (le prime possono essere anche veri e propri partiti e non solo associazioni o movimenti), che adottano una prospettiva politica, al cui centro vi è l’idea di nazione e che sostanziano larga parte della loro proposta politica in una proposta conflittuale e razzista verso i migranti e tutti coloro che risultano sgraditi per la loro diversità (tra questi figurano anche e sono poste in primo piano le persone lesbiche, gay, bisessuali e transgender).
Nazionalismo e nazionalrazzismo
La nazione, nel suo significato di base, è una comunità di individui che condividono la lingua, il luogo geografico, la storia, le tradizioni, la cultura, l’etnia e un governo. Il nazionalismo, come si può leggere sul Dizionario di Storia della Treccani, è quel «movimento politico e ideologico avente quale programma l’esaltazione e la difesa della nazione». Nel Dizionario di Economia e Finanza sempre della Treccani si aggiunge che si tratta di «un’ideologia, formatasi nel 19° sec., relativa a quelle dottrine e a quei movimenti che sostengono l’affermazione della nazione intesa come collettività omogenea e ritenuta depositaria di valori tradizionali, tipici ed esclusivi del patrimonio culturale e spirituale nazionale». Se già il nazionalismo di per sé contiene una rilevante sfumatura conflittuale – tanto che Charles De Gaulle asseriva: «Le patriotisme, c’est aimer son pays. Le nationalisme, c’est détester celui des autres» -, il nazionalrazzismo si spinge ancora più avanti. Esalta la comunanza di tradizioni, lingua, cultura e di etnia, arrivando, se necessario, a inventarne la sussistenza o a piegarne, nella sua propaganda, l’aspetto al fine di proiettarvi un carattere monolitico. Per gli italiani, infatti, parlare di nazione in senso stretto è un azzardo e in parte un’invenzione. Ciò è ancor più vero per altri popoli, quali, ad esempio, gli statunitensi e gli svizzeri. Ma il nazionalrazzismo di Donald Trump, come quello nostrano, propone, ciononostante, un’idea di comunità intesa come gruppo omogeneo in senso assai rigido. Un gruppo la cui identità si fonda su poche, semplificate ed esasperate caratteristiche (culturali, religiose, tradizionali), fondamentali per differenziare un gruppo di individui dagli altri gruppi e per contrapporli ad essi. Il nazionalrazzismo, dunque, è assai più del nazionalismo. Sorge, infatti, per promuovere e difendere in sede politica (oggi chiudendosi dietro il filo spinato; domani, forse, attaccando) tale visione identitaria, dotandola di un risvolto di superiorità. In linea teorica si potrebbe essere nazionalisti senza per questo disprezzare gli altri popoli. Il nazionalrazzismo, invece, com’è proprio della sua natura fortemente conflittuale, stabilendo che popolo-nazione-cittadinanza sono inscindibili e immutabili, afferma anche che si definiscono non nell’inclusione e nell’integrazione delle differenze, ma nella ferrea esclusione dai confini nazionali di tutti coloro che sono eterogenei rispetto ai tratti caratterizzanti i membri della nazione, in particolare, dal punto di vista etnico e culturale.
Il nazionalrazzismo come forma di socialrazzismo consapevole, politicizzata e organizzata
A quest’idea è strettamente correlato il ragionamento secondo il quale, poco cristianamente, occorre pensare solo a se stessi, al proprio gruppo. Perché, nell’ottica nazionalrazzista, gli altri arrivano secondi e, se ve ne sono, al massimo possono spartirsi gli avanzi: siccome però di avanzi non è previsto che ve ne siano, quando si afferma “prima gli americani” o “prima gli italiani” o “prima i francesi”, in realtà si sta dicendo “solo gli americani”, “solo gli italiani”, ecc. I secondi, gli stranieri, cioè, sono ritenuti non soltanto immeritevoli di solidarietà vera, ma ancor prima sono ritenuti insuscettibili di rispetto della loro umanità. Immeritevoli di essere visti. Meritevoli, però, di essere respinti, scacciati e, se conveniente, imprigionati. In termini generali, meritevoli di essere puniti. Tanto che vengono chiamati clandestini e odiati e condannati in base a tale etichetta. Cioè in virtù di una disposizione normativa che, occorre ricordarlo, sanziona non il comportamento in sé, ma la condizione personale, la quale ex lege diventa giuridicamente illecita (per dirla pane al pane: se un francese si reca in Italia non commette alcuna infrazione, ma se la stessa condotta è posta in essere da un senegalese egli può essere qualificato e sanzionato come clandestino).
Il nazionalrazzismo, in sintesi, può definirsi la forma politicamente organizzata non solo del razzismo tout-court, ma anche, e forse assai di più, del socialrazzismo di cui avevo scritto in un altro post. E, infatti, in termini nazionalisti, si propone come movimento di liberazione di una nazione oppressa, ma, in termini razzisti, inventa tale inesistente oppressione, attribuendola ai migranti e alle politiche di accoglienza e integrazione. Così di fatto, implicitamente, quando non esplicitamente, propone la supremazia della nazione italiana rispetto a quelle cui appartengono i migranti, giungendo, in certi casi perfino ad auspicare, più o meno velatamente, atti potenzialmente forieri di risvolti bellici nei loro riguardi (come l’occupazione delle coste per impedire la partenza delle imbarcazioni cariche di migranti).
Nazionalisti e, soprattutto, razzisti assai più che sovranisti
Il nazionalrazzismo può includere movimenti che vengono definiti sovranisti. Si tenga presente che questo neologismo si riferisce, come spiega ancora la Treccani, alla «posizione politica che propugna la difesa o la riconquista della sovranità nazionale da parte di un popolo o di uno Stato, in antitesi alle dinamiche della globalizzazione e in contrapposizione alle politiche sovrannazionali di concertazione». Ma il sovranismo di per sé non significa avversare la migrazione, detestare i migranti e chiamarli tutti con rabbia risentita “clandestini” e criminalizzarli. In fondo, si può dire che l’espressione nazionalrazzismo per chi adotta tale linea politica sia più chiaro e descrittivo di sovranismo. Infatti, rispetto ai partiti e alle organizzazioni che pongono al centro della loro proposta politica la legittimazione e la promozione della xenofobia e dell’odio verso i migranti, sfruttando vecchi pregiudizi e creandone di nuovi, rappresentandosi come difensori autentici, direi che la parola nazionalrazzismo sia più pertinente. L’espressione “sovranista”, invece, mi pare che trascuri o attenui molto una delle più importanti, se non la principale, delle finalità perseguite da quei soggetti politici. Cioè quella di costruire l’immagine di un nemico, cui attribuire la responsabilità di tutte o quasi le ingiustizie della globalizzazione e della crisi, e di individuarlo contemporaneamente all’esterno del gruppo-nazione e all’interno: il migrante e tutti coloro che sostengono, blandamente o con convinzione, la necessità e la giustezza di accoglierlo e includerlo.
La demonizzazione nazionalrazzista del migrante
I primi – siano essi in fuga da condizioni economico-sociali difficilissime o da guerre, terrorismo, persecuzioni o discriminazioni – sono immancabilmente descritti dai nazionalrazzisti come se fossero un blocco monolitico di fannulloni, approfittatori, furbi e criminali. Per tutti vale l’espressione “clandestini”, poiché coloro che ottengono lo status di rifugiato o altra forma di protezione internazionale o umanitaria non sono presi quasi per niente in considerazione dal nazionalrazzismo. Il quale, del resto, si guarda bene dal considerare che i criteri per la concessione dell’asilo sono di una rigidità tale e sottoposti a valutazioni svolte in termini oggettivamente così ri-vittimizzanti che, se con le stesse modalità fossero trattati sistematicamente degli autoctoni vittime di assai meno gravi violenze, si solleverebbe un’ondata di indignazione popolare.
Quindi, i migranti per il nazionalrazzismo sono tutti clandestini – fuggano dalla fame o dalle bombe, da una condanna inflitta da qualche organizzazione estremista e terrorista o da una faida – e non c’è discussione che tenga. Né del resto sono disposti ad interessarsi al fenomeno della tratta, a come essa coinvolga anche delle giovanissime (e da ultimo giovanissimi), né a quello dei minori non accompagnati. Il nazionalrazzismo descrive queste persone come un “tutt’uno clandestino”, cioè come una massa informe di soggetti che violano la legge, che si nascondono, che sono opachi nelle intenzioni e nelle attitudini. Gente che ha qualcosa da nascondere. A tali caratteristiche negative, nell’elenco degli stereotipi nazionalrazzisti, si aggiungono quelle legate alle tradizioni e ai costumi, ma soprattutto l’aspetto religioso. Per il nazionalrazzismo i migranti sono tutti di fede islamica, anche quando si tratta di cristiani. E, in quanto musulmani, sono tutti fondamentalisti e, perciò, potenziali o attuali terroristi. Poco importa, dunque, che una grande fetta dei richiedenti asilo e dei rifugiati siano perseguitati dal sedicente Stato Islamico o da altre analoghe organizzazioni.
Peraltro, il nazionalrazzismo non si lascia scappare un’occasione per svolgere un’imponente e penetrante campagna d’odio verso i migranti ogni volta che la cronaca presenta la notizia di un reato commesso da uno straniero. Invariabilmente il nazionalrazzismo pone in risalto la nazionalità del reo, cioè la sua estraneità alla nazione italiana, e attribuisce la tendenza a delinquere del reo non alla dimensione individuale riguardante quella singola persona, ma ad una caratteristica intrinseca allo straniero. Occorre tenere presente che tale termine si riferisce solo ad africani e asiatici, non certo a statunitensi, canadesi o tedeschi.
Alberto Quattrocolo
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