Mediazioni e compromessi come sinonimo di vita (libera)
Abbiamo già dedicato una riflessione al tema mediazioni e compromessi (Mediazione e compromesso), in questa rubrica dell’Associazione Me.Dia.Re. (Riflessioni, appunto), ponendo in rilievo anche l’esistenza di una dialettica, a volte un vero e proprio conflitto, tra i favorevoli a priori, da un lato, i contrari per principio, sul fronte opposto, e quelli favorevoli o contrari a seconda dei casi, nel mezzo. A tale riguardo si era posta l’attenzione anche sul contrasto, talora violento, che può svilupparsi all’interno di un gruppo (una famiglia, un gruppo di lavoro, un’associazione sindacale, oppure un insieme di sindacati, un partito politico, o diversi partiti appartenenti alla stessa area, ecc.) tra le cosiddette colombe, cioè coloro per i quali è bene tenere aperti i canali del dialogo e, in particolare, svolgere un percorso di mediazioni e compromessi con la controparte, e i cosiddetti falchi, vale a dire quelli per i quali con il nemico non si deve trattare, poiché il farlo vorrebbe dire rimetterci l’identità, l’onore, la dignità, la sicurezza, i diritti, gli interessi…
Quella spirale conflittuale che non ammette dubbi e fabbrica traditori
Nelle situazioni in cui il conflitto tra due o più entità raggiunge livelli di escalation e radicalizzazione particolarmente significativi, quasi automaticamente iniziano tempi duri per le colombe, tanto che cala un’ombra sui loro suggerimenti di contemplare mediazioni e compromessi come opzioni permeate di pragmatismo e prevenzione di autodistruzioni. Si è assistito innumerevoli volte, nella storia anche recente, alla delegittimazione e, perfino, alla scomunica e alla demonizzazione, dei fautori della prevenzione del conflitto bellico imminente col ricorso a tentativi di mediazioni e compromessi. Ad esempio, nella nostra rubrica Corsi e Ricorsi, abbiamo ricordato come venissero emarginati coloro che erano per un approccio negoziale nel caso della Prima e della Seconda Guerra del Golfo (rispettivamente nei post Un’avventura senza ritorno e Il naturale colore della verità), abbiamo più volte rammentato come venissero tacciati di tradimento nel lungo corso della Guerra Fredda, coloro che, al di qua o al di là della cosiddetta cortina di ferro, promuovevano l’idea del dialogo. Si pensi all’odio di cui fu fatto bersaglio il presidente John F. Kennedy per non aver adottato una politica improntata alla massima durezza verso l’Unione Sovietica (l’abbiamo ricordato qui) e i suoi alleati; ma si può anche ricordare il trattamento riservato dal Cremlino, nonché da una larga parte del mondo dell’informazione e della cultura ossequiosa alle direttive del Politburo, ad Andrei Sakharov [1]. D’altra parte, per ricordare un altro pluridecennale conflitto, si può pensare ad Itzhak Rabin, ucciso, ancor prima che dalla mano del suo assassino, dall’odio verso chi, favorevole al dialogo, viene considerato come traditore dai membri del gruppo cui appartiene; persone che, in quell’occasione, non permisero a Rabin di costruire un futuro di convivenza fondato su mediazioni e compromessi, sicché non gli perdonarono di aver pensato, detto e tentato di mettere in pratica le seguenti parole: «Ho combattuto finché non si vedeva alcuna possibilità di pace. Ora credo che questa possibilità ci sia, una grande possibilità che dobbiamo cogliere».
Leggi, governi e maggioranze politiche basate su mediazioni e compromessi
Tuttavia mediazioni e compromessi, al di là dei conflitti più o meno ricorrenti tra fautori del dialogo e sostenitori del confronto duro, sono all’ordine del giorno, più di quanto non ci rendiamo conto, negli infiniti microcosmi del nostro ménage quotidiano: in famiglia e in altri contesti relazionali, nonché in ambito imprenditoriale, sindacale, commerciale, finanziario e politico- istituzionale.
Quanti governi, in Italia e altrove, sono stati frutto di mediazione e compromesso?
Riguardo a quest’ultimo ambito, è difficile tenere il conto dei governi che, ad esempio, in Europa, sono sorti a seguito di mediazioni e compromessi[2]. Oggi, il governo Draghi, come molti altri precedenti, inclusi quelli citati in nota, è un altro governo sostenuto dalla quasi totalità delle forze politiche. Occorre, tuttavia, ricordare, per limitarci ai governi della cosiddetta Seconda Repubblica, i tanti governi sostenuti in Parlamento da diversi partiti diversi da quelli risultati vittoriosi all’esito delle elezioni, sulla base di mediazioni e compromessi politici tra le forze parlamentari: da quelli guidati tra il 1994 e il 2001 da Lamberto Dini (supportato da una parte del centro sinistra e da una parte del centro destra), ai due governi di Massimo D’Alema e a quello di Giuliano Amato (tutti e tre successivi alla crisi del governo Prodi e sostenuti dalla fiducia di maggioranze parzialmente diverse da quelle uscite dalle elezioni), a quelli succedutesi nei dieci anni compresi tra il 2010 e il 2021, aventi a capo Mario Monti, seguito, dopo le elezioni del 2013, da Enrico Letta, Matteo Renzi e, infine, Paolo Gentiloni (tutti e tre sostenuti dal PD e da un parte del centrodestra) e dai due presieduti da Giuseppe Conte (il primo frutto di un’intesa post elettorale tra il primo e il terzo partito per numero di elettori alle politiche del 2018, M5S e Lega; il secondo frutto di un accordo tra M5S, PD, cioè, il secondo arrivato alle elezioni, e un partito di sinistra avente un minore consenso elettorale, LeU).
La Costituzione e le leggi fondate su mediazioni e compromessi
D’altra parte, mediazioni e compromessi, nei sistemi di democrazia liberale, sono alla base della stessa esistenza di tali ordinamenti e ne costituiscono un nutrimento davvero ricorrente, collocandosi spessissimo come la premessa politica necessaria di larghissima parte della produzione legislativa. Infatti, fu frutto di un’opera complessa e, a tratti anche tormentata, di mediazioni e compromessi anche la stesura e l’approvazione della nostra carta costituzionale entrata in vigore il 1° gennaio del 1948[3]. Ma anche di leggi ordinarie, che ebbero una rilevanza decisiva per la vita di milioni di persone, anch’esse frutto di mediazioni e compromessi, se ne possono ricordare numerosi esempi e, tra le più dibattute, si può pensare: alla legge che ha introdotto nel nostro ordinamento il divorzio ed a quella sull’aborto, nonché alla legge, di diversi decenni successiva, sulle unioni civili, approvata il 20 maggio del 2016[4]; oppure, per fare un altro balzo temporale all’indietro e passare ad un altro ambito, si può pensare allo Statuto dei diritti dei lavoratori [5].
«Compromesso è sinonimo di vita» e non può essere a sua volta un dogma
Da quanto sopra esposto si potrebbe pensare che si voglia proporre un elogio del compromesso senza se e senza ma. Il che per certi aspetti corrisponde al vero, se e nella misura in cui mediazioni e compromessi vengono ad essere intesi come antitetici all’ottusità, all’intolleranza, al dogmatismo, al fanatismo, alla compressione o alla negazione delle libertà e degli altri diritti fondamentali.
Amos Oz, in “Contro il fanatismo”, ha scritto:
«Sono un gran fautore del compromesso. So che questa parola gode di una pessima reputazione nei circoli idealistici d’Europa, in particolare fra i giovani. Il compromesso è considerato come una mancanza d’integrità, di dirittura morale, di consistenza, di onestà. Il compromesso puzza, è disonesto. Non nel mio vocabolario. Nel mio mondo la parola compromesso è sinonimo di vita. E dove c’è vita ci sono compromessi. Il contrario di compromesso non è integrità e nemmeno idealismo e nemmeno determinazione o devozione. Il contrario di compromesso è fanatismo, morte… Ritengo che l’essenza del fanatismo sia nel desiderio di costringere gli altri a cambiare. Quell’inclinazione comune a rendere migliore il tuo vicino, educare il tuo coniuge, programmare tuo figlio, raddrizzare tuo fratello, piuttosto che lasciarli vivere».
Spostandosi sul terreno della gestione (professionale o meno) dei conflitti, le parole di Amos Oz hanno una rilevanza peculiare. Infatti, anche il mediatore professionale (familiare, penale, in ambito sanitario, in ambito organizzativo-lavorativo, ecc.), come chi in una certa situazione si trova a svolgere tale ruolo, pur non essendo quella la sua professione, deve stare attento a non essere guidato dal proprio «desiderio di costringere gli altri a cambiare ».
La neutralità del mediatore e l’astensione dal tentativo di rendere migliori i confliggenti
Per Amos Oz occorre controllare quella «inclinazione comune a rendere migliore il tuo vicino, educare il tuo coniuge, programmare tuo figlio, raddrizzare tuo fratello, piuttosto che lasciarli vivere». Ebbene, la stessa avvertenza potrebbe valere per chi si appresta a gestire un conflitto altrui. Gestire un conflitto tra coniugi (mediazione familiare), tra fratelli o tra genitori e figli (mediazione in famiglia), tra autore e vittima di un reato, tra un paziente e un medico (mediazione sanitaria), tra due o più membri di un’équipe di lavoro (mediazione organizzativo-lavorativa), ecc., infatti, specie se lo si fa professionalmente dovrebbe significare agire con spirito imparziale e neutrale: imparziale nel senso che non si parteggia per nessuno degli attori del conflitto; neutrale nel senso che non si deve perseguire un particolare esito del percorso. La neutralità, quindi, significa anche non cercare di pilotare la mediazione verso l’estinzione del conflitto, muovendo dall’assunto che la sua esistenza è dannosa per i protagonisti e gli altri soggetti interessati dai suoi effetti, moralmente ed eticamente negativa, economicamente costosa… Infatti, sostanzialmente tutti i modelli di mediazione si fondano sulla sospensione del giudizio non soltanto sulle ragioni, aspirazioni, interessi e obiettivi delle parti, ma anche sul loro essere in conflitto. In breve, si può dire, pressoché tutte le impostazioni partono dalla premessa che il conflitto in sé non è un fatto negativo e che i suoi protagonisti non vanno giudicati negativamente per il fatto di esserne attori e autori.
La sospensione del giudizio sul conflitto e sui suoi protagonisti
Abbiamo già scritto altrove che la mediazione familiare dovrebbe essere laica, cioè non dovrebbe essere intesa né svolta come una specie di processo (non dichiarato) in cui i membri della coppia genitoriale sono posti sul banco degli imputati, accusati di agire irresponsabilmente contro gli interessi dei loro figli, in quanto intrappolati dalle spire delle ripicche reciproche, dei rancori, delle ansie di controllo e dai desideri di “fargliela pagare”. E lo stesso dicasi per la mediazione di conflitti relativi ad altri ambiti relazionali o sociali. Infatti, se, per il mediatore, la premessa non solo concettuale ma anche relazionale è che il conflitto non è né positivo né negativo, allora dovrebbe evitare non soltanto di giudicare, ma anche di fare, indirettamente, sentire giudicate le persone che a lui si rivolgono. Il giudizio negativo, però, in realtà, diventa un fatto, cioè un atteggiamento, intrinsecamente implicito, e talora decisamente esplicito, se e quando il professionista persegue la finalità di porre termine al conflitto, inducendo i suoi attori a comportarsi, a sentire e a pensare in termini non conflittuali ma collaborativi. In tali casi, infatti, senza dichiararlo lavora per far cambiare le persone che ha davanti, per renderle migliori, per raddrizzarle dalle storture del pensiero e dei sentimenti che il conflitto ha provocato in loro. Insomma, non gli sta bene che siano conflittuali come sono e vuole indurle a smetterla di esserlo. Il che, tuttavia, non significa esattamente farle sentire accettate, né rispettare la loro libertà di «lasciarli vivere».
Mediare non significa necessariamente perseguire l’estinzione del conflitto
Nella rubrica Riflessioni abbiamo scritto numerosi articoli (ma si può anche leggere il saggio A. Quattrocolo, M. D’Alessandro, Ascolto e Mediazione, Franco Angeli srl, Milano, 2021), riguardo al fatto che esiste anche un’impostazione secondo la quale l’obiettivo del percorso di mediazione non è necessariamente quello di estinguere il conflitto (lo è quando è questa la richiesta delle parti), bensì offrire ai confliggenti, anche quelli indisponibili a mediare nel senso prevalentemente attribuito a tale verbo, degli spazi in cui essere ascoltati, compresi e riconosciuti dal mediatore, ed eventualmente da lui supportati nel far pervenire all’altro dei contenuti importanti fin lì ignorati.
Come ha scritto Lucia Santamaria nella sua tesi di fine corso:
«La mediazione, lontana dalla pretesa irenica di estinguere ogni conflitto, assume i tratti di uno spazio libero in cui la sospensione del giudizio e la dimensione di ascolto del mediatore possono neutralizzare il vissuto di sconvenienza delle componenti emotive vendicative restituendo anche a queste la dignità di esistere e di essere ascoltate e riconosciute. Uno spazio in cui il vissuto doloroso dei configgenti è accolto senza censure e giudizi. Non è detto che questo basti per portare a il conflitto a risoluzione, la mediazione è nel suo senso più pieno una possibilità e configgenti e mediatori abitano la terrà libera della possibilità di comprensione, interpretazione e significazione e non quella della certezza della risoluzione o del controllo del conflitto».
Sulle caratteristiche, il metodo e le finalità di questa impostazione (detta appunto “Ascolto e Mediazione”) che cerca di evitare di fare la guerra al conflitto (quindi, ai confliggenti) ci si è soffermati già più volte, però restano degli aspetti da precisare.
Un’apparente contraddizione di fondo
A questo punto del discorso, però, ci si potrebbe chiedere:
«Se la mediazione non persegue l’estinzione del conflitto, allora che senso ha? Pensare che la mediazione familiare possa non avere come finalità la cessazione delle ostilità tra i membri della coppia genitoriale non significa forse rasentare una contraddizione stridente, dal momento che quel particolare tipo di gestione del conflitto sorge proprio per tutelare i figli (minori) dagli effetti spesso pesantemente deleteri della conflittualità che domina i rapporti tra i genitori?»
In molti risponderebbero di sì ad entrambi gli interrogativi. In mediazione e compromesso abbiamo posto in rilievo come la gran parte delle scuole di pensiero e delle metodologie operative interpretino l’attività del mediatore come finalizzata alla conclusione del conflitto, il più delle volte, sanzionata dal conseguimento di un accordo (formale o informale). In estrema sintesi, per lo più, la mediazione è intesa e applica come percorso teso a far uscire i confliggenti dalle strettoie della contrapposizione e a giungere, a seconda dei paradigmi di riferimento, ad un riconoscimento reciproco, alla pattuizione dei loro rapporti futuri, inclusi eventuali risarcimenti e indennizzi simbolici e/o economici. Il che, però, come si faceva notare, pone anche qualche problema operativo rispetto a coloro, e non sono pochi, che rischiano di essere esclusi (cioè di rifiutarsi di partecipare o di farlo solo proforma), in quanto non intendono mediare, ma vincere, magari perché aspirano ad avere la soddisfazione di sentirsi riconosciuta la loro ragione o, più in generale, ad ottenere giustizia; oppure perché intimamente vogliono vendicarsi ma ci sono anche coloro che sono disposti a perdere pur di lottare per la difesa di un principio, così come si può essere disposti a tollerare costi, angosce e disagi pur di proteggere sé o altri dalla cattiveria o dalla doppiezza di cui si è convinti che sia traboccante la controparte…
Un’impostazione alternativa, che slega mediazioni e compromessi tra le parti e li pone all’interno della mente del mediatore tra giudizio e non-giudizio
In quell’articolo si accennava anche al fatto che normalmente mediazioni e compromessi sono intese come legate da una sorta di rapporto genitore-figlio: le prime, se funzionano, generano i secondi. Ma si può anche interpretare questa dinamica come qualcosa che si sviluppa ad un livello più profondo, meno visibile e meno scontato, nella mente del mediatore: si tratta di un rapporto tra aspetti mentali, emotivi e cognitivi, in cui la mediazione e il compromesso si scambiano di posto ed è il secondo (a sua volta, frutto di una mediazione introspettiva, interna alla mente del mediatore) a creare le condizioni per la prima. Il compromesso interno, che si svolge nella mente del mediatore, precede, secondo tale prospettiva, lo svolgimento dell’intervento professionale di mediazione, cioè di un percorso di incontri non giudicanti con gli attori del conflitto, cui il mediatore riconosce ad essi la libertà di essere come sono. Si tratta di una mediazione della dialettica interna al mediatore tra «quell’inclinazione comune a rendere migliore il vicino» e il rispetto per la sua libertà di essere come vuole. Un processo, quindi, che esita in un compromesso sempre interno alla sua mente e che lo prepara alla gestione del percorso di mediazione vera e propria con i confliggenti, accompagnandolo anche in ogni momento d’interazione con loro. Quindi, in tal caso, una serie di mediazioni e compromessi si sviluppano nell’animo del mediatore prima, durante e dopo gli incontri con le parti, con la funzione di consentirgli di acquisire e conservare un equilibrio, instabile e dinamico, che lo preservi dal tradurre i propri sentimenti e pensieri, eventualmente intrisi di disapprovazione in atteggiamenti e comportamenti avalutativi in presenza delle parti, consentendogli la più totale libertà di valutazione in loro assenza.
Alberto Quattrocolo
[1] Come abbiamo ricordato in un post a lui dedicato (Sakharov, un portavoce della coscienza per l’umanità, oggi come ieri), il padre della prima bomba H sovietica, nel 1953, divenuto poi riluttante coordinatore del team che fabbricò la “bomba dello Zar”, prima di diventare, sei anni dopo, esplicito sostenitore della necessità «di un riavvicinamento dei sistemi socialista e capitalista, che potrebbero eliminare o ridurre sostanzialmente» le più gravi minacce per la sopravvivenza dell’umanità, cioè
«estinzione termonucleare, catastrofe ecologica, carestia, un’esplosione incontrollata della popolazione, alienazione e distorsione dogmatica della nostra concezione della realtà». Le sue dichiarazioni sul raggiungimento attraverso mediazioni e compromessi di «una società democraticamente governata, democratica e pluralista, priva di intolleranza e dogmatismo, una società umanitaria che si preoccupi della Terra e del suo futuro».
Queste idee, infatti, che gli fruttarono il Nobel per la pace nel 1973, gli procurarono anche le ire del Partito: lettere firmate dai membri dell’Accademia Sovietica delle Scienze lo accusavano pesantemente sul piano politico, mentre sui giornali comparivano lettere fasulle di “persone semplici” che lo attaccavano come “traditore” e, man mano, che si rafforzava il suo impegno per la difesa dei diritti umani in ogni angolo della Terra, attraverso accordi internazionali e non con l’ingerenza nella vita di singoli Paesi, attraverso un approccio riformista globale e non rivoluzionario, cresceva l’insofferenza del Politburo nei suoi confronti, che arrivò a perseguitarlo in tutti i modi possibili, facendolo passare per il peggiore dei traditori.
[2] Perfino i governi che diedero vita alle dittature fasciste italiane e tedesche, in qualche misura, si fondarono su accordi tra parti e istituzioni politiche diverse: quello di Benito Mussolini sorse, sì, dopo la marcia su Roma, ma a seguito di un (deprecabile e invero evitabile) accordo (lo abbiamo ricordato qui), così come fu frutto di un compromesso quello nato, 11 anni dopo, in Germania con l’affidamento della carica di cancelliere del Reich ad Adolf Hitler (lo abbiamo ricordato nel post Hitler non fece né un colpo Stato, né una rivoluzione). D’altra parte anche il governo europeo maggiormente impegnato nel difendersi e contrastare Hitler e Mussolini, quello britannico, guidato dal conservatore Winston Churchill, si basò su un’intesa tra tutte le principali forze politiche, tanto che Clement Attlee (leader dei laburisti) ebbe perfino l’incarico di vice primo ministro. D’altra parte, se è vero che governi di unità nazionale ce n’erano già stati nella Prima Guerra Mondiale (prima quello di Herbert Henry Asquith e poi di David Lloyd George) e durante la Grande Depressione (con la guida di Ramsay MacDonald). Dopo il voto di sfiducia del Gran Consiglio del Fascismo a Benito Mussolini (25 luglio del 1943) e la firma dell’armistizio dell’8 settembre del 1943, anche l’Italia conobbe, pur ancora occupata dalle truppe hitleriane nel Centro Nord, dove Mussolini aveva eretto la Repubblica Sociale Italiana (R.S.I.), conobbe dei governi di unità nazionale (Badoglio II, Bonomi II, Bonomi III, Parri, De Gasperi I, De Gasperi II e De Gasperi III), costituiti con la collaborazione dei sei partiti antifascisti (DC, PCI, PSIUP, PLI; PDL; PdA) aderenti al Comitato di Liberazione Nazionale (CLN). Nel secondo dopoguerra un altro governo italiano di unità nazionale fu il terzo guidato da Giulio Andreotti (detto anche il “governo della non sfiducia”, avendo la maggioranza grazie all’astensione del PCI di Enrico Berlinguer, in accordo col cosiddetto “compromesso storico”).
[3] Abbiamo ricordato in questo post le vicende e le discussioni che portarono all’approvazione del testo definitivo della nostra Costituzione e alla sua promulgazione il 27 dicembre del 1947, mentre al precedente referendum con cui gli italiani, il 2 giugno del 1946, a poco più di un anno dalla Liberazione e dalla fine del coinvolgimento dell’Italia nella Seconda Guerra Mondiale, votarono per la forma repubblicana, e contestualmente elessero i membri dell’Assemblea costituente, è stato dedicato questo post di Corsi e Ricorsi: Repubblica o monarchia?
[4] La legge introduttiva del divorzio fu approvata dalla Camera il primo dicembre del 1970 con i voti favorevoli di 319 deputati e i voti contrari di altri 286. Vale la pena tornare per sommi capi alla prima proposta di legge formulata che, prevedendo la possibilità di divorziare dopo cinque anni di separazione legale, sollevò resistenze diffuse, tanto che, attraverso mediazioni e compromessi, pur di non rinunciare all’introduzione del divorzio nel nostro Paese, questo come altri aspetti del testo originario furono emendati. Solo adesso si è arrivati ad una normativa che prevede il divorzio “breve” dopo sei mesi, in caso di accordo tra i coniugi, o un anno, in mancanza di accordo. Qualcosa di simile accadde circa otto anni dopo, con la legge che introdusse l’aborto (la legge n. 194 del 22 maggio del 1978): ci vollero, in effetti, sette anni prima di giungere all’approvazione di un testo legislativo. Sette anni di discussioni, dibattiti, scomuniche, conflitti, dubbi, ripensamenti. E aggiustamenti. In quel caso il compromesso che permise di far prevalere nel voto a scrutinio segreto i sì, seppur di poco (308 favorevoli e 275 contrari), fu l’introduzione dell’obiezione di coscienza per i medici: una previsione assai discussa allora e tuttora, specie per l’inflazionato uso ostruzionistico che se ne fa. Anche la legge sulle unioni civili del 2016 fu frutto di un compromesso all’interno del PD e tra questo e il Nuovo Centro Destra: da una parte si rinunciò all’equiparazione delle unioni civili al matrimonio e alla stepchild adoption (cioè la possibilità per le coppie, in alcuni casi, di adottare il figlio biologico di uno dei due partner), dall’altra si recedette dalla propria posizione di rifiuto pressoché totale. In ogni caso, il governo dell’epoca, guidato da Matteo Renzi, decise di porre la fiducia in Parlamento e grazie alla divisione interna all’opposizione del centro destra, a seguito di quell’intesa, una parte di essa approvò la legge, come concordato con la maggioranza, portando a 369 i voti favorevoli e limitando a 193 quelli contrari.
[5] Si tratta della legge 300 del 20 maggio 1970, alla cui approvazione definitiva in aula il PCI decise di astenersi sebbene Bruno Trentin, il segretario generale dei metalmeccanici della Cgil, sostenesse che i parlamentari comunisti avrebbero dovuto votare a favore e ricordasse al suo partito che la proposta originaria di uno Statuto dei Diritti dei Lavoratori era stata avanzata da Giuseppe Di Vittorio, segretario generale della Cgil, sin dal 1952
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