Il mediatore e lo specchio emotivo
Il mediatore dei conflitti, sia esso un mediatore familiare, un mediatore penale o un mediatore in altri ambi relazionali e sociali (come, ad esempio, in ambito sanitario e organizzativo-lavorativo), si propone come specchio emotivo di ciascuno degli attori del conflitto, ma anche il mediatore è davanti ad uno specchio emotivo.
La principale caratteristica del modello Ascolto e Mediazione
Il mediatore è inesorabilmente davanti ad uno specchio emotivo, soprattutto, se impiega alcuni particolari modelli di mediazione. Tra questi rientra il modello Ascolto e Mediazione.
In diversi post, pubblicati su questa rubrica si è tentato di delineare il modello di mediazione proposto e praticato da Me.Dia.Re.
Per non correre il rischio di essere ripetitivi, si rimanda a quei post, ribadendo soltanto che esso è fondato sull’ascolto delle persone e, in particolare, sull’accoglienza delle loro emozioni e dei loro sentimenti, spesso con il ricorso al cosiddetto “rispecchiamento”.
Il rispecchiamento
Ascoltare empaticamente, nella prospettiva di tale mediazione, non implica cercare a tutti i costi una soluzione, né tentare di ‘guarire’ l’altro dalla sua emozione. Pertanto ascoltare un altro essere umano non vuol dire sollecitarlo ad accantonare, ad esempio, la sua rabbia, oppure tentare di fargli ridimensionare la sua sofferenza. Significa, invece, aiutarlo ad affrontare la sua rabbia o la sua sofferenza. In tal modo, comunicandogli che non è solo, che si è disponibili ad avvicinarsi ai suoi stati d’animo, senza censurarli né giudicarli.
«Lo strumento che il mediatore utilizza … è quello del cd. “specchio”. Attraverso tale tecnica il mediatore avvia un lavoro che si basa sui sentimenti e che si fonda sull’empatia: egli in primo luogo ascolta il soggetto e successivamente si rivolge a lui cercando di rinviare ciò che, a livello di sentito, cioè di sentimenti, ha percepito. (…) Successivamente riparte proprio da quest’espressione, da ciò che ha ricevuto e percepito nuovamente attraverso la relazione empatica e rinvia altri sentiti, in un meccanismo di ‘rimbalzo’, di restituzione continua alla parte delle emozioni che emergono dalla sua narrazione, consentendo al soggetto di andare oltre, fino al centro e all’origine della sua sofferenza»[1].
Il modello di Ascolto e Mediazione fa ampiamente ricorso allo specchio emotivo e ciò costituisce uno dei suoi “meriti”. Anzi, pensiamo che ne abbia diversi. Altrimenti non lo impiegheremmo da ormai quasi vent’anni. Anche tale modello presenta, però, delle criticità.
Le criticità del modello Ascolto e Mediazione
La principale criticità, forse, consiste nell’assenza di certezze, di basi incrollabili, anche di tipo teorico, su cui appoggiarsi.
Uno dei pilastri su cui le pratiche di mediazione, compresa quella qui descritta, poggiano è, in effetti, la capacità naturale di mediare presente nelle persone. Non soltanto nella vita di tutti i giorni si presentano spesso situazioni in cui ci proponiamo come terzi mediatori, in modo informale e inconsapevole, ma vi sono mediazioni realizzate quotidianamente dal confliggente in assenza di mediatori formali o informali. Ciò che la Klein chiama “accesso alla posizione depressiva” (cioè la capacità di ognuno di uscire dallo schema difensivo e/o aggressivo in cui è, o si è, ingabbiato, per giungere a “sentire” l’altro) esiste indipendentemente dall’intervento di mediazione, anche se alcuni modelli si fondano proprio su tale potenzialità dell’essere umano.
Il modello Ascolto e Mediazione non ha inventato nulla
Si può quindi dubitare che il modello Ascolto e Mediazione, che di certo non ha scoperto l’ascolto, l’empatia, né lo specchio emotivo, abbia inventato alcunché ex novo. Tuttavia ha la peculiarità – il pregio, se si vuole – di saper amalgamare risorse e competenze particolari, da sempre esistenti nelle attitudini umane, e di applicarle nel delicato settore della gestione del conflitto. Dunque, certamente ha più di un debito verso molteplici discipline. Si pensi, ad esempio, alle riflessioni maturate in ambito criminologico e vittimologico, che sono sottese alla costruzione del paradigma della “Giustizia Riparativa” e, all’interno di questa, della mediazione penale. Si può ancora rinviare, però, ai richiami a teorie psicologiche dei più diversi orientamenti – incluso quello di Carl Rogers – e ancora agli spunti forniti dalla sociologia e dalla filosofia (e al riguardo rinvio ai contributi di Maurizio D’Alessandro su mediazione e “prassi” e ad alcuni post pubblicati su questa rubrica).
Proprio per via dell’eterogeneità di riferimenti, dunque, è difficile sostenere che tale modello di mediazione poggi il suo intervento su un complesso definito e organico di teorie sociali, o che si basi su una specifica e particolare teoria della personalità.
Un sapere esperienziale
Tuttavia ciò non significa che il mediatore che adotti il modello Ascolto e Mediazione si muova sospinto dall’improvvisazione. Evidentemente, hanno un‘indubbia rilevanza le conoscenze acquisite in sede formativa sul conflitto e sulle sue dinamiche, nonché le riflessioni elaborate sull’efficacia di particolari strumenti d’intervento, che sono stati modellati proprio sulle peculiarità delle interazioni conflittuali.
Ciononostante, il suo sapere, essendo essenzialmente frutto dell’esperienza propria e altrui, resta suscettibile di costanti smentite, proprio perché egli agisce nel multiforme, imprevedibile, caotico (in quanto regolato da un ordine che molto spesso non si comprende) campo della soggettività. Per questo deve essere disposto a rinunciare a molte garanzie e sicurezze, avendo solo la certezza che l’imprevisto è dietro l’angolo.
Un salto nel buio
Detto in altri termini, ogni incontro di mediazione – come ogni autentico incontro compiuto nel quotidiano con qualsiasi individuo – mette in gioco anche il mediatore, ne scardina il personale puzzle con cui compone il proprio mondo, e lo modifica, aumentandone la complessità. Ogni colloquio, dunque, significa per il mediatore non solo proporsi come specchio, ma anche porsi davanti ad uno specchio (uno specchio emotivo, soprattutto), che riflette la sua immagine in modo più o meno fedele[2]. E tale aspetto talora costituisce un salto nel buio.
Lo specchio emotivo e la formazione o supervisione del mediatore
Sotto quest’ultimo profilo, il training formativo dovrebbe costituire una sorte di paracadute: maggiore è la conoscenza che tale mediatore ha dei propri limiti, maggiore è stata in sede formativa (e nell’ambito della supervisione permanente prevista obbligatoriamente per i mediatori familiari) la sua disponibilità a mettersi in gioco, a lasciarsi attraversare da argomenti, comportamenti e situazioni potenzialmente ingombranti, e rifletterci su, minori sono i rischi di destabilizzazione – nonché quelli di compromettere il processo di mediazione.
Una formazione interattiva
Sono queste le ragioni essenziali per le quali è consigliabile un percorso formativo caratterizzato da una massiccia quantità di situazioni interattive, nelle quali siano sempre presenti stimoli emotivi di diversa intensità. Tuttavia, per la delicatezza dei temi affrontati, per il rispetto che merita la sensibilità di ciascuno dei partecipanti – lo stesso rispetto e considerazione che sono dovuti ai medianti in un intervento di mediazione -, il formatore deve in ogni momento avere presente il benessere dei suoi interlocutori e salvaguardarlo. Senza tali precauzioni è probabile che invece di rifornire il futuro mediatore di un paracadute, lo si spinga fuori dell’aereo senza neppure un ombrello.
La supervisione e lo specchio emotivo
Resta vero che anche una formazione ben condotta non costituisce una garanzia certa: in ogni colloquio preliminare, in ogni mediazione, cioè in ogni salto nel buio, il paracadute può non aprirsi. In tal caso lo schianto, ovviamente, non è fatale, ma può essere piuttosto doloroso.
Per tale ragione la supervisione costituisce una utilissima risorsa non soltanto per i mediatori familiari, ma anche per quelli penali e per quelli impegnati in altri ambiti. Certo, però, che sta al mediatore legittimarsi ad avvalersene in tutte le sue potenzialità e sta a lui avere la “forza” di farlo.
Molto si rimette in gioco, come nelle altre professioni
Vale la pena ancora ribadire che, comunque, in ogni colloquio come in ogni incontro di mediazione, se non tutto, molto si rimette in gioco: sotto il profilo tecnico e a livello personale.
Senza voler ridimensionare questi ultimi rilievi, né le già evidenziate criticità sulle debolezze del modello Ascolto e Mediazione, ma per banali esigenze di realismo, va fatta un’ultima puntualizzazione: questa mancanza di certezze circa l’efficacia degli strumenti adottati non è una dimensione propria soltanto del modello Ascolto e Mediazione, né, del resto, costituisce una caratteristica esclusiva della professione del mediatore, ma in maniera e in misura diverse interessa molte altre professioni.
Alberto Quattrocolo
Rielaborazione da A. Quattrocolo (2005) La mediazione trasformativa. Un modo d’intendere e di praticare la mediazione dei conflitti. Quaderni di Mediazione, n1. settembre 2005, Punto di Fuga Editore, pp29-37.
[1] Brunelli (1998), La tecnica di mediazione, in Ricotti L. (a cura di) La mediazione nel sistema penale minorile, Cedam, Padova, pp.277-280
[2] Con il termine “colloquio” si fa riferimento all’accoglienza delle singole parti separatamente. Nel modello di Ascolto e Mediazione il percorso inizia con dei colloqui individuali con ciascun attore del conflitto. Tali colloquia separati possono essere preliminari all’incontro di mediazione nel quale si incontrano per confrontarsi gli attori del conflitto. Quando, poi, come per lo più avviene, un solo incontro di mediazione non basta per soddisfare le esigenze di confronto tra i protagonisti del conflitto, data la complessità e la stratificazione di questo, allora, tra un incontro di mediazione e l’altro, si svolgono ulteriori colloqui individuali, cioè separati. L’intero ciclo si conclude con dei colloqui individuali post-mediazione, svolti a distanza di qualche settimana dall’ultimo incontro di mediazione.
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