L’uso fascista dell’ odio religioso in Africa
L’ odio religioso fu un’arma che di cui si servì spietatamente Italia fascista nella sua opera di sottomissione del popolo libico, prima, e di quello dell’Etiopia, poi. In quest’ultima l’idea dei vertici militari italiani e di Mussolini era quella di impiegare, soprattutto come macellai furibondi, animati da un odio coltivato per anni, e non soltanto come impavidi combattenti, i libici musulmani. Questi, inseriti nella Divisione Libia, nel corso della lunghissima e sanguinosa occupazione italiana di quel Paese, avevano diversi motivi per nutrire un odio religioso, e non solo, nei confronti dei cristiani copti etiopici. Infatti, l’odio religioso era già stato utilizzato da parte del governo Mussolini e dei suoi vertici militari, nella repressione della resistenza libica all’occupazione italiana. Qui, infatti, gli strateghi italiani si erano serviti di cristiani eritrei dell’altopiano di Amhara, arruolati nelle truppe coloniali, per massacrare i rivoltosi libici [1].
La strumentalizzazione dell’ odio religioso tra cristiani e musulmani in Libia
In Libia, prima, in Etiopia, poi, il ricorso all’ odio religioso tra cristiani e musulmani fu deciso per rimediare agli insuccessi, alle lentezze o alle frustrazioni di conquiste che stentavano a compiersi a dispetto della superiorità negli armamenti e della totale violazione di ogni norma di diritto bellico da parte italiana.
Abbiamo già ricordato su questa rubrica, Corsi e Ricorsi, che l’Italia aveva invaso la Libia nel 1911, portandovi orrore e morte. Ma l’impresa si era rivelata più complessa e incerta di quanto fosse stato previsto dal governo Giolitti, che aveva avviato questa conquista coloniale a spese dell’Impero ottomano (si veda anche il post: 18 ottobre 1912: l’armistizio e il macello “umanitario e sentimentale” in Libia). Le truppe italiane, infatti, erano state messe in serissima difficoltà dalla resistenza dei libici [2].
Massacri e deportazioni dei libici ai tempi di Giolitti
Giolitti stesso aveva ordinato dall’Italia di fucilare e deportare senza risparmio (si veda questo post). Così vennero massacrati sul posto migliaia di persone, e migliaia di altre furono deportate in strutture di detenzione in Italia (alle Tremiti, a Caserta, a Gaeta, a Favignana e su Ustica), molte delle quali arrestate a caso, anziani e bambini inclusi. In questi luoghi di detenzione i deportati morivano come le mosche [3]. Poiché questi comportamenti inutilmente crudeli alimentavano l’odio della popolazione, il controllo italiano del territorio libico si era ridotto alla sola fascia costiera, dove le truppe italiane si erano ritirate e venivano continuamente attaccate. Finita la Prima Guerra Mondiale, veniva avviata la riconquista della Libia, una sanguinaria impresa che si protraeva lungo tutti gli anni Venti e la cui conduzione, dalla fine di ottobre del 1922, passava nelle mani del governo Mussolini [4].
La ferocia della riconquista fascista della Libia
Per soffocare la resistenza ancora attiva in Cirenaica, il generale Graziani, nel 1930, fece deportare l’intera popolazione dell’altopiano del Gebel in campi di concentramento collocati sulla costa del golfo della Sirte: su 100.000 abitanti dell’altopiano cirenaico, morirono di violenze, stenti e malattie 60 000 persone, soprattutto donne e bambini. Un numero imprecisato morì durante le rappresaglie e l’operazione di deportazione.
L’uso dell’odio religioso delle truppe cristiano copte eritree nei confronti dei musulmani libici
Il governo Mussolini, però, aveva avuto anche l’idea di sfruttare a proprio vantaggio l’odio religioso. In particolare, aveva trasferito in Libia un contingente di ascari eritrei (l’Eritrea, di cui un terzo della popolazione era di religione cristiana copta, era una colonia italiana dagli anni 80 del XIX secolo, e gli ascari erano militari eritrei che facevano parte dei Regi Corpi Truppe Coloniali, le forze coloniali italiane in Africa), che erano cristiani copti, per utilizzarli contro i ribelli musulmani. Incaricati di mantenere l’ordine e di reprimere la ribellione libica, lo fecero spietatamente. L’ odio religioso nutrito dagli ascari eritrei nei confronti dei libici, di religione islamica, non soltanto rese ancor più dura la dominazione italiana in Libia, ma rimase impressa anche in quei libici che collaborarono con le forze di occupazione italiane.
Libici musulmani nell’occupazione dell’Etiopia cristiano-copta
I battaglioni amhara-eritrei, infatti, non risparmiarono alcuna energia nell’eseguire gli ordini dei loro comandanti italiani. E le sofferenze da essi inflitte al popolo libico erano ben note a quei libici che facevano parte del Regio Corpo Truppe Coloniali della Libia, quando, nel 1935, furono inseriti nei reggimenti di fanteria della “Divisione Libia”, sotto il comando del generale Guglielmo Nasi e di ufficiali italiani, in preparazione della guerra d’Etiopia [5]. Questo odio religioso si manifestava fin dal primo momento sul fronte meridionale dove il gen. Rodolfo Graziani tentava di portare a successo l’invasione dell’Impero etiope partendo dalla colonia della Somalia italiana [6].
15 aprile 1936 le truppe libiche contro le forze etiopi
Il 15 aprile del 1936, la divisione Libia veniva impiegata contro l’esercito etiopico, che, fin dall’ottobre del ’35, al momento dell’aggressione da parte dell’Italia (si veda il post Quando l’Italia portò l’orrore in Etiopia), teneva testa all’invasore italiano, nonostante questo potesse contare su armi e mezzi di gran lunga superiori e facesse ampio e crudele ricorso all’uso dei gas contro i combattenti e contro i civili (lo abbiamo ricordato qui). Lo scontro più cruento in quella battaglia si ebbe lungo il fiume Corràc, sul fronte meridionale, dove gli etiopici si erano fortificati e resistevano con accanimento, nonostante il ricorso degli italiani all’uso dei lanciafiamme e soprattutto dei mitragliamenti e dei bombardamenti aerei e dell’artiglieria, che non lesinavano neanche nell’uso dell’arsine (un gas infiammabile ed altamente tossico composto da arsenico ed idrogeno). Ma per battere gli etiopici e costringerli alla ritirata furono fondamentali i libici del I e del VII battaglione della Divisione Libia. Guadato il fiume ingrossato dalle piogge, tagliarono la via di fuga degli avversari. E li massacrarono.
«Prigionieri pochi, secondo il costume delle truppe libiche» (Rodolfo Graziani)
Le truppe libiche fecero letteralmente scempio degli etiopici in rotta. La battaglia era costata loro 700 morti. Così sul terreno lasciarono 3000 cadaveri etiopici.
«Prigionieri pochi, secondo il costume delle truppe libiche», scriveva in un telegramma il generale Rodolfo Graziani al ministro delle Colonie Alessandro Lessona e a Pietro Badoglio comandante del corpo di spedizione in Etiopia.
100 lire per arginare l ’odio religioso
Il generale Nasi, per tentare di fermare il massacro, prometteva 100 lire agli ascari libici per ogni prigioniero etiopico che avessero consegnato vivo. Ma era troppo tardi per poter contenere l’ odio religioso scatenato. Infatti, il massacro continuava. E proseguì anche a guerra finita, quando vennero condotte le operazioni di grande polizia coloniale contro i resti dell’esercito etiopico.
L’auto-assoluzione italiana rispetto all’uso dell’ odio religioso tra musulmani libici e cristiani etiopici
Il generale Nasi, che già aveva condotto all’assalto in Libia i battaglioni amhara-eritrei contro i mujaheddin musulmani, scrisse:
«Si tenga conto che gli ascari libici avevano dei vecchi conti da regolare contro gli etiopici, che in Libia con i battaglioni misti (amhara-eritrei), lasciarono nella popolazione un tremendo ricordo».
Parrebbe un “mea culpa” o almeno un “nostra culpa”, quello di Nasi, ma non lo è. Infatti, prosegue con un’argomentazione spudoratamente razzista che, almeno, nelle sue intenzioni, esonera da responsabilità gli italiani e la loro condotta cinica e crudele.
«Le truppe indigene, anche regolari, non fanno prigionieri, ma passano per le armi chi comunque è catturato, senza eccezione neanche per i feriti, perché non hanno quel sentimento dei popoli civili per i quali il ferito è sacro». Nasi evidentemente aveva rimosso i massacri di fattura italiana commessi in Libia e in Etiopia [7].
In realtà, Graziani aveva lucidamente stabilito di sfruttare l’ odio religioso nei confronti dei cristiani etiopi da parte degli islamici.
La manipolazione dell’ odio religioso dei musulmani Oromo contri i cristiani copti etiopici
L’Etiopia, uno degli Stati più antichi al mondo e l’unico dell’Africa subsahariana nel quale la religione cristiana era riuscita a resistere alla diffusione dell’Islam, la cui Chiesa era stata la prima a svilupparsi e a diffondere il messaggio cristiano ben prima che arrivassero i missionari europea, essendo sorta ben prima di tante cristianità ‘occidentali’, aveva al suo interno anche una minoranza musulmana. E su questa minoranza il governo fascista italiano contava non poco, sapendo che avrebbe potuto facilmente approfittare dell’odio religioso, alimentandolo se necessario[8]. Del resto, contro l’esercito etiope (cristiano) si era già efficacemente servito di interi battaglioni di musulmani Oromo.
Il tentativo di Graziani di ingraziarsi i musulmani per liquidare tutti i cristiani etiopici
L’11 ottobre 1936, nel frattempo divenuto Viceré, Graziani, già famoso per la crudeltà riversata sui libici islamici, promise ai musulmani etiopici la costruzione di una nuova moschea ad Adis Abeba, l’apertura di scuole e centri culturali islamici ovunque fosse presente una popolazione musulmana, e la trasformazione di Harar, città sacra dei musulmani d’Etiopia, in un grande centro per lo studio della civiltà islamica e del Corano [9]. Ovviamente, non si trattava di un tentativo di contenimento dell’ odio religioso ed etnico tra la minoranza musulmana e la maggioranza cristiano copta, dato che Graziani con un telegramma raccomandava al governo Mussolini di
«Perseguire sempre più decisamente politica musulmana mettendo gradatamente fuori causa et nelle condizioni di andarsene spontaneamente tutti elementi abissini ancora rimasti nel territorio».
Mussolini, il Protettore dell’Islam
Il 18 marzo del ’37, Mussolini, in visita in Libia, durante una cerimonia accuratamente preparata, ricevuta la Spada dell’Islam, in qualità di Protettore dell’Islam, dalle mani del capo berbero Jusuf Kerbisch, grandi sostenitori dell’alleanza con gli italiani, disse solennemente:
«L’Italia fascista intende assicurare alle popolazioni musulmane della Libia e dell’Etiopia la pace, la giustizia, il benessere, il rispetto alle leggi del Profeta e vuole inoltre dimostrare la sua simpatia all’Islam e ai Musulmani del mondo intero».
Quanto fosse autentica questa amicizia, oltre che pensando al sangue libico versato dai fascisti italiani, lo si può apprezzare, ponendo mente a quel che nell’aprile del ’37, il Graziani scriveva al generale Pietro Maletti. Definiti i cristiani copti come «infidi», e i musulmani come elementi «di sicura fede» verso l’Italia fascista, aggiungeva:
«I mussulmani in tutto Impero debbono rappresentare nostra riserva di fronte qualsiasi movimento insurrezionale dello elemento copto. (…) Occorre perciò fin da ora curare l’elemento mussulmano et poi, se proprio occorra, impiegarlo anche in situazione attuale costituendo bande et battaglioni di sicuro rendimento».
Va ricordato che l’imperatore etiope Hailé Selassié, quando poté tornare in Etiopia, ordinò al suo popolo di non vendicarsi sugli italiani per le atrocità subite:
«In modo particolare vi raccomando di rispettare la vita dei bambini, delle donne e dei vecchi. Non saccheggiate i beni altrui, anche se appartengono al nemico. Non bruciate case…».
Il vecchio imperatore sollecitava i suoi sudditi a non fare agli italiani quel che gli italiani, per ordine di Mussolini e, spesso, spontaneamente, ma con la sua approvazione, avevano fatto agli etiopici (si vedano ancora i post La strage di Adis Abeba: una vergogna tutta italiana e Il massacro, tutto italiano, dei cantastorie etiopi).
Alberto Quattrocolo
[1]L’Eritrea fu la prima colonia che l’Italia acquisì in Africa.
[2] La violenza feroce dispiegata dagli italiani non era servita a sottomettere i libici, i quali, del resto, visti i propositi dell’invasore, non potevano accoglierli come liberatori dalla dominazione turca. I beduini, poi, erano corsi ad arruolarsi nelle file dei ribelli per vendicare i parenti e gli amici assassinati dagli italiani con fucilazioni, impiccagioni e massacri vari. La successiva reazione del governo liberale italiano era stata all’insegna della rappresaglia più spietata.
[3] Ad Ustica, ad esempio, il colera uccise nelle prime settimane 500 deportati. Non migliore sorte ebbero coloro che furono deportati altrove. Si consideri che soltanto tra il 25 e 30 ottobre 1911 almeno quattromila furono rinchiusi alle Tremiti.
[4] Il governatore Pietro Badoglio tra il 1930 ed il 1931, affidava il comando delle truppe al generale Rodolfo Graziani, che si avvaleva della cavalleria indigena e dei meharisti integrati nelle “colonne mobili” e riportava importanti conquiste, sicché restavano soltanto da sterminare i ribelli della Cirenaica.
[5] Alle dipendenze di Nasi erano stati posti, infatti, un reggimento di fanteria d’Africa, formato da italiani, e due reggimenti di fanteria libica, formati da battaglioni del Regio Corpo Truppe Coloniali della Libia, quindi con truppa libica e ufficiali italiani
[6] La loro ostilità, infatti, non era indirizzata verso gli italiani, che si erano serviti delle truppe amhara eritree per sottometterli, ma verso i cristiani copti abissini. Del resto, i libici erano arruolati dagli italiani e da questi erano pagati, sicché la loro sete di vendetta si volgeva verso quei cristiani copti provenienti dall’Africa Orientale che tante violenze avevano commesso nei confronti delle loro famiglie.
[7] Come abbiamo visto in altri post su Corsi e Ricorsi, mai gli italiani nel corso delle loro invasioni della Libia e dell’Etiopia avevano dato prova di alcun sentimento dei popoli civili, visto che non si erano fatti scrupoli nel massacrare con qualsiasi mezzo uomini e donne, anziani e bambini, oltre che coloro che si opponevano con le armi alla loro invasione, feriti inclusi.
[8] I musulmani dell’Impero etiopico, in effetti, avevano visto nell’invasione fascista un’occasione di riscatto dal giogo degli Amhara cristiani.
[9] Graziani dichiarò che aveva imparato a conoscere e apprezzare la ‘razza’ araba durante i quattordici anni trascorsi in Libia.
Fonti
Angelo Del Boca, I gas di Mussolini. Il fascismo e la guerra d’Etiopia, Editori riuniti, Roma, 1996
Angelo Del Boca, Gli italiani in Libia, Mondadori, Milano 1997
Angelo Del Boca, Italiani, brava gente?, Neri Pozza, Vicenza, 2005,
Alberto Elli, Storia della Chiesa ortodossa Tawahedo d’Etiopia, Edizioni Terra Santa, 2017
Nicola La Banca, La guerra italiana per la Libia 1911-1931, Il Mulino, Bologna, 2011
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