L’umanità scomoda di Totò
Subito dopo aver realizzato Guardie e Ladri, 1951 (di cui abbiamo parlato qui), Totò proseguì la sua collaborazione con la coppia di registi composta Steno e Mario Monicelli, finché due anni dopo interpretò Totò e Carolina, del solo Monicelli. Uno dei film italiani più censurati di sempre [1]. Il 22 febbraio del 1954 il giudizio della Commissione Censura, nel respingere l’autorizzazione richiesta per la sua distribuzione nelle sale cinematografiche, valutava il film come:
«offensivo della morale, del buon costume, della pubblica decenza, nonché del decoro e prestigio delle forze di Polizia».
Girato tra l’ottobre del ’53 e il gennaio del ’54, Totò e Carolina aveva suscitato l’indignazione anche del ministro degli Interni, Mario Scelba.
L’umanità sovversiva di Totò e Carolina
In Totò e Carolina, dopo aver interpretato il ladruncolo in Guardie e ladri, toccò a Totò la parte della guardia (l’agente Caccavallo). Anche in tal caso una guardia che finisce con lo sviluppare un rapporto umano con un soggetto deviante [2]. Infatti, dopo aver arrestato per errore, durante una retata della buon costume, una giovane donna, Carolina (Anna Maria Ferrero), che in realtà stava tentando il suicidio, l’agente è incaricato di ricondurla al suo paese e di trovare lì qualcuno cui affidarla. Poiché, però, Carolina è incinta nessuno vuol saperne di accoglierla in casa, neppure i suoi parenti. Il questurino, che è vedovo, finirà per riportare a la ragazza a Roma, proponendole di andare a vivere con lui, il figlio e l’anziano padre.
Oltre gli stereotipi e al di qua del rancore e dell’odio sociale
L’agente interpretato da Totò, come quello di Aldo Fabrizi in Guardie e ladri, aveva in sé qualcosa di “sovversivo”. Non soltanto non si lasciava abbruttire dal disagio sociale che vive, ma restava capace di rapportarsi agli altri per come sono e non per come le società le etichettava. Così si svincolava dalla mentalità dominante, che imponeva a ciascuno di sfogare le proprie frustrazioni de-umanizzando e criminalizzando chi era ancora più povero ed emarginato. Anche Caccavallo, infatti, viveva in un misero tugurio e stentava a mantenere la famiglia. Tanto che il suo anziano padre si trovava costretto a rubare i calzini sulla terrazza [3].
L’anti-eroe di Totò
Il personaggio interpretato da Totò, però, non è privo di ombre. Anzi, è un poliziotto il cui interesse per l’avanzamento di grado non ha nulla a che fare con il desiderio fornire un contributo più incisivo alla lotta contro il crimine. Né è motivato dalla ricerca di una realizzazione personale. Ingenuo ma accondiscendente verso il suo superiore, spera di ingraziarselo costruendogli un busto con le molliche di pane, che perciò sottrae al padre. In realtà, gli interessa solo avere uno stipendio più consistente alla fine del mese, dato che vive in una casupola e stenta a mantenere la famiglia [4].
…con un cuore
Inoltre, la sua empatia verso Carolina emerge poco a poco, essendo preceduta da una certa ostilità nei suoi confronti poggiata su istanze puramente egoistiche. Il poliziotto, infatti, teme che la ragazza possa tentare di uccidersi ancora mentre è sotto la sua responsabilità, cacciandolo nei guai. Perciò, in un primo momento, quell’ansia lo rende particolarmente duro, scontroso e intransigente con lei. Poi, però, diventa sempre più comprensivo. Vedendo come essa venga rifiutata dai “buoni paesani”, finisce con l’essere disgustato dal loro perbenismo opportunista e ipocrita. Perciò, smettendo di pensare prima a se stesso, decide, infine, di portarla a casa di un «fesso», cioè a casa sua [5].
L’accanimento della censura
Proprio gli aspetti che rendevano il poliziotto interpretato da Totò una persona capace di restare umana, rendevano il film inammissibile per l’organo statale di censura. Più, in generale, a rendere inammissibile il visto della censura era il fatto che in quell’opera venissero messi in discussione pregiudizi e stereotipi diffusi nella mentalità dominante, nonché l’ipocrisia e l’ottusità della gente cosiddetta “perbene”.
L’inammissibile smascheramento della “violenza simbolica” propria dell’ottusità moralista
In aggiunta a tutto quanto più avanti spiegato, ciò che costituiva un autentico vulnus per la commissione censoria era l’esplicita, per quanto non didascalica, denuncia di ciò che Pierre Bourdieu definiva “violenza simbolica” (ne abbiamo parlato qui in occasione del diciassettesimo anniversario della sua morte). Quella esercitata semplicemente dall’ordine delle cose e il cui effetto su chi la subisce «è di essere messo nella condizione di pensare che non sta subendo alcuna violenza». Carolina, infatti, sapendosi giudicata colpevole dalla società, che non accetta lei e mai accetterà suo figlio, soffre ma non pare conscia fino in fondo delle ingiustizie inflittele.
L’inammissibile denuncia della violenza maschilista e reazionaria
Certo Carolina non prova sentimenti amichevoli per i parenti e i compaesani che la sfuggono come se fosse un’appestata, però pensa di farla finita. In altre parole, immagazzina dentro di sé la violenza morale di cui è fatta oggetto e tenta di tradurla in fatto. Respinta nel buio da una comunità, che cinica, maschilista e priva di umanità, la colpevolizza, cerca di fare ciò che essi inconfessabilmente vorrebbero: sprofondare nelle tenebre.
Manifestanti comunisti dai risvolti umani
Non era concepibile, inoltre, per l’organo di censura che i comunisti fossero presentati come dei bonaccioni. Del resto, i comunisti proprio non potevano essere portati sullo schermo (se non nella serie di Don Camillo). Così la censura intervenne pesantemente sulla scena in cui i manifestanti accalcati su di un camion aiutano Totò a spingere la sua jeep in panne. Monicelli, in seguito, ricordò:
«quando il film uscì non si capiva più chi era quel gruppo d’imbecilli con le bandiere su un camion, né cosa facessero!».
Niente “bandiera rossa”
Infatti, nella stesura originale i manifestanti cantavano “bandiera rossa“, ma nella versione censurata il canto diventava “di qua, di là dal Piave” [6]. Venne anche cambiata la scena in cui un vecchio, incaricato da Totò di sorvegliare Carolina (mentre lui e gli altri manifestanti spingono la jeep del poliziotto), dopo aver chiesto alla ragazza se è comunista e aver udito la sua riposta affermativa, grida «Abbasso i padroni» (nella versione censurata la frase diventa «Viva l’amore»).
Dialoghi scandalosi
Un’altra battuta censurata era quella di Carolina:
«il suicidio è un lusso, i poveri non hanno nemmeno la libertà di uccidersi».
Nella versione censurata tali parole furono coperte dalla colonna sonora.
«Scusi, Eccellenza»
Tra le scene tagliate, ve n’è una all’inizio del film, che proprio non andava giù alla censura. In occasione della retata a Villa Borghese volta a catturare prostitute e clienti, si vedeva un agente che apriva la portiera di un auto ma subito si scusava con l’occupante, dicendo:
«Scusi, Eccellenza».
«Il personaggio interpretato da Totò in questo film appartiene al mondo…»
Gli interventi censori alla fine esitarono in 31 tagli e 23 battute modificate. Alla fine il film uscì nelle sale solo nell’aprile del 1955, quasi un anno dopo. Degli iniziali 2595 metri di pellicola, dopo i tagli, se ne salvarono 2386. Osservò Mario Monicelli che «restava solo la storiella del questurino che alla fine si portava a casa la ragazza, magari con un’aria un po’ equivoca» [7]. Non paga di ciò la Commissione censoria sovrappose all’inizio del film la seguente schermata:
«Il personaggio interpretato da Totò in questo film appartiene al mondo della pura fantasia. Il fatto stesso che la vicenda è vissuta da Totò trasporta tutto in un mondo e su un piano particolare. Gli eventuali riflessi nella realtà non hanno riferimenti precisi e sono sempre riscattati dal quel clima dell’irreale che non intacca minimamente la riconoscenza ed il rispetto che ogni cittadino deve alle forze della Polizia».
I facili moralismi e i pregiudizi ottusi che nel film venivano svelati, trovarono così una ulteriore conferma istituzionale, seppure involontaria, dopo quella già contenuta nel giudizio della commissione del 22 febbraio ’54.
Altro che mondo della pura fantasia!
In realtà, il film di Monicelli, su un soggetto di Flaiano e sceneggiato da Age, Furio Scarpelli, Rodolfo Sonego, Suso Cecchi d’Amico e lo stesso Monicelli, pur stravolto dalla censura, conservava ancora un forte impianto realistico. E a ciò concorreva in modo determinante la performance degli attori, Totò e Anna Maria Ferreo in testa. Per quanto riguarda la capacità del primo di dare spessore umano, basta rivedere la scena in cui interagisce con crescente disgusto con la bigotta e ossequiosa famiglia Barozzoli, scoprendone la profonda ottusità e corruzione.
L’opera restaurata e la sua proiezione nel Festival del CinemaINstrada
Nel 1999 grazie ad alcuni ritrovamenti in varie cineteche il film fu restaurato e in parte reintegrato nelle parti mancanti. In particolare, tra le proiezioni in pubblico vale la pena ricordare quella realizzata nel 2005, a seguito di un lavoro di video interviste e di inchiesta sul campo coinvolgente gli abitanti del quartiere ad alta densità migratoria, Barriera di Milano, a Torino. La versione restaurata e reintegrata delle parti mancanti di Totò e Carolina, infatti, fu proiettata in italiano e con sottotitoli in italiano, nell’ambito della seconda edizione del festival CinemaINStrada. Un’iniziativa culturale tra le cui particolarità vi era quella di far precedere le proiezioni da un’attività di coinvolgimento e video-interviste dei residenti, italiani e stranieri, con i quali scegliere le loro pellicole “del cuore”. Ideato e sviluppato dall’Associazione i313, quel progetto culturale, che ebbe ben 9 edizioni, si fondava sull’idea che il cinema, con la sua capacità di suscitare emozioni e di permettere di scoprire l’umanità dell’altro, fosse un’ottima risorsa per permettere a persone con culture, nazionalità ed esperienze diverse di conoscersi e riconoscersi. Se nella prima edizione la scelta del film italiano era caduta su Guardie e ladri, nella seconda l’opera italiana della rassegna fu Totò e Carolina. Come gli altri titoli indicati dagli abitanti intervistati (pellicole prodotte nei diverse Paesi d’origine degli abitanti), era un’opera capace di suscitare identificazione in tutti gli spettatori, a prescindere dalla cultura di appartenenza.
Fa riflettere il fatto che appena una manciata di anni fa, gli abitanti di Barriera di Milano scelsero come opera italiana da proiettare in piazza un film tanto poco indulgente su ciò che, a qualsiasi latitudine, può intossicare una comunità: la chiusura mentale, il bigottismo, l’opportunismo, l’ignoranza, l’arroganza e il rifiuto dei più disagiati. Ed è ancora toccante ricordare, quell’8 luglio del 2005, le espressioni sui volti del pubblico alla fine del film rispetto alla sobria commozione di una solidarietà tra esseri umani, Totò e Carolina, mitigata dall’ironia.
Alberto Quattrocolo
[1] Totò, Monicelli e Steno realizzarono altri tre film, tra il ’52 e il ‘53, Totò e i re di Roma, Totò a colori e Totò e le donne. Totò a colori risultò firmato dal solo Steno, mentre Totò e le donne, realizzato da Steno, fu co-firmato anche da Monicelli per pure ragioni contrattuali. Nel post su Guardie e ladri (L’umanità da non perdere) abbiamo ricordato come il film, presentato alla Commissione di Revisione Cinematografica presieduta da Giulio Andreotti il 19 luglio 1951, venne respinto il 2 agosto e ottenne poi il visto di censura n. 10.313 del 23 ottobre 1951. Anche Totò cerca casa (Steno e Monicelli, 1949), precedente a Guardie e ladri, aveva avuto qualche piccola difficoltà con la censura. Infatti, i produttori, all’insaputa dei due registi, avevano fatto leggere i copioni dei loro film all’addetto alla censura Annibale Scicluna Sorge, prima che iniziassero le riprese. Costui diede alcuni “consigli” ai produttori sulle scene non dovevano essere girate. Anche nel caso di Guardie e ladri il rapporto con Scicluna Sorge fu a dir poco conflittuale. Infatti, si svolsero delle sedute al Ministero dello spettacolo per convincere Scicluna Sorge che con quel film registi e sceneggiatori non intendevano minare le basi della società italiana. Per il censore, però, la fraternizzazione fra guardia e ladro era un attacco alle istituzioni. I due registi, perciò, dovettero modificare e tagliare alcune scene e battute, che erano state considerate da Scicluna Sorge “sovversive”. Come dichiarò Monicelli, nel film «non c’era niente di censurabile, se non l’idea in sé». Comunque, accontentata la commissione con alcune modifiche ai dialoghi, i registi ottennero infine il via libera. A differenza di Guardia e ladri, i successivi Totò a colori e Totò e le donne non procurarono a Totò e agli autori particolari problemi con la censura. Qualcuno ne ebbe, invece, Totò e i re di Roma. Il titolo inizialmente previsto per Totò e i re di Roma era E poi dice che uno…, con riferimento a una frase pronunciata spesso da Totò durante il film: «E poi dice che uno si butta a sinistra…!». Ma la censura non lo permise. Inoltre, nella scena dell’interrogazione, quando Alberto Sordi chiede a Totò il nome di un pachiderma, si sente la risposta doppiata con voce diversa, che risponde: «Bartali!». Leggendo il labiale di Totò, invece, si può capire che pronuncia «De Gasperi!». Inoltre, fu tagliata una intera pagina di dialogo del colloquio finale tra Totò e Dio, ritenuta troppo irrispettosa nei confronti della religione. Analogamente fu giudicato inaccettabile che il protagonista ricorresse al suicidio per salvare la famiglia. Per correggere tale “provocazione”, fu introdotta una voce fuori campo a fine film, così da trasformare il senso del finale, rendendolo una sorta di sogno. Per la stessa ragione fu tagliata la battuta con cui Totò, preparandosi a morire, chiedeva di vedere per l’ultima volta le sue cinque figlie: era un’allusione troppo esplicita al suicidio. Più tormentata ancora fu la successiva vicenda censoria di Totò e Carolina.
[2] La reazione della censura democristiana dell’epoca, involontariamente, permette di evidenziare un aspetto che accomuna Guardie e ladri e Totò e Carolina. Nel primo, infatti, Aldo Fabrizi interpretava un poliziotto che finiva con lo sviluppare un rapporto umano con un delinquente (Totò) e la sua famiglia, al punto che il ladro si faceva portare in prigione proprio per aiutare la guardia.
[3] Ma Totò non scarica tali patemi e sofferenze su quelli più disgraziati di lui. Nel suo ruolo di uomo d’ordine, anzi, si scopre indisponibile ad esercitare un potere in cui in egli per primo non si riconosce, rifiutandosi, in particolare, di continuare a fare il forte con i deboli e il debole con i forti.
[4] Del resto, come previsto nella sceneggiatura originale, gioca al lotto.
[5] E non si tratta di una decisione opportunistica, ma del naturale sviluppo di un legame all’insegna di una vera e propria solidarietà fra esseri umani vilipesi, umiliati e trascurati dalla società.
[6] Inoltre, un altro camion con a bordo un gruppo di boy scout canta “Noi vogliam Dio…”, ma in realtà si tratta di una sovrapposizione di voci fuori campo, perché tutti i ragazzi hanno la bocca chiusa.
[7] Analogamente a quanto accadeva negli Stati Uniti – dove, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, la montante paranoia anti-comunista aveva portato addirittura all’istituzione di una Commissione senatoriale d’indagine sulle attività anti-americane, cioè una caccia ai comunisti o presunti tali, che si era interessata anche e molto dell’industria dell’intrattenimento a partire da quella cinematografica -, si suppose che esistesse anche in Italia una lista con i nomi dei registi comunisti italiani e che fosse in mano della Commissione di censura. Per quanto Monicelli non fosse iscritto al P.C.I., ma fosse, invece, un elettore del P.S.I., decise di farsi sentire: «In tal caso è chiaro che basta pochissimo oggi per essere giudicato comunista. Basterebbe, oggi, rifare Ladri di biciclette (1948, di Vittorio De Sica) per vedersi negare il visto di censura».
Fonti
La visione di Totò e Carolina
Alberto Anile, Totò proibito, Lindau, 2005
Gian Piero Brunetta, Guida alla storia del cinema italiano (1905-2003), Einaudi, Torino, 2003
Orio Caldiron, Totò, Roma, Gremese, 2001
Tatti Sanguineti. Totò e Carolina, Transeuropa, Bologna, 1999
Aldo Viganò, Commedia italiana in cento film, Le Mani, Recco, 1999.
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