L’empatia non è una passeggiata
L’empatia non è una passeggiata tra prati in fiore o sul lungomare, se è declinata all’indirizzo di persone in conflitto. In tal caso, infatti, la passeggiata empatica non si svolge in piano, attraversando luoghi ridenti e luminosi, ma su percorsi ripidi, accidentati, cioè, in mezzo a pensieri, sentimenti e stati emotivi spesso ingombranti, dolorosi e angoscianti.
Sull’empatia sono d’accordo tutti
Non si contano i contributi che sono stati scritti a proposito dell’empatia nell’attività di mediazione. Anche in questa rubrica, Riflessioni, abbiamo pubblicato numerosi post sull’empatia, e non meno numerosi sono le pubblicazioni di cui sono stati autori membri dell’Associazione Me.Dia.Re. che si soffermano su tale aspetto: sostanzialmente tutte. Altrettanta attenzione all’importanza dell’empatia nell’attività di mediazione è riscontrabile nelle tesi dei nostri corsisti pubblicate nella Tesi dei Corsi di Mediazione Familiare.
Del resto, non per caso i nostri servizi sono denominati e declinati come Servizi di Ascolto e Mediazione (familiare, penale, sanitaria, organizzativo-lavorativa…). Abbiamo affrontato questo tema già in altri post (ad esempio, Perché “Ascolto e Mediazione” e non soltanto “Mediazione”?, La mediazione come ascolto e confronto, L’ascolto empatico: un ingrediente irrinunciabile dei percorsi di mediazione dei conflitti, Si fa presto a dire “emozioni”: la paura nella mediazione, Il bisogno di ascolto e mediazione nell’era del Coronavirus) e non ci torniamo su.
Ma, in realtà, sostanzialmente tutte le scuole di pensiero e le relative metodologie nel campo della mediazione (da quella civile e commerciale a quella familiare, da quella penale a quella sociale o scolastica) condividono l’idea che l’empatia sia una risorsa fondamentale.
L’empatia, in effetti, è una risorsa nella vita di tutti i giorni; forse è quella capacità grazie alla quale non soltanto non ci sbraniamo l’uno con l’altro, ma soprattutto riusciamo a vivere in gruppi e a supportarci a vicenda.
Siamo tutti dotati di un’attitudine empatica di fondo, dunque, ma un conto è riuscire ad essere empatici con un conoscente, un amico, un partner, un famigliare, ecc., un altro è applicare tale disposizione per ragioni “di lavoro”, a beneficio di persone “che non abbiamo scelto”, e farlo con consapevolezza e determinazione. Non è che sia necessariamente una faccenda più difficile, è, però, un’altra cosa. Come ben sanno coloro che svolgono attività caratterizzate da un’importantissima componente relazionale (professionisti della salute, avvocati, assistenti sociali, educatori, insegnanti, ecc.).
L’empatia va comunicata
I mediatori, naturalmente, fanno parte di questa schiera di professionisti. Ne fanno parte a pieno titolo, perché tutti i loro “strumenti” e tutte le loro risorse sono di natura esclusivamente relazionale. E, come accade agli altri professionisti, anche ai mediatori diventa molto presto evidente che l’empatia non è una passeggiata.
Se medici e infermieri si misurano, in primo luogo, con emozioni e sentimenti profondi e, spesso, intensi (non raramente pesantissimi da sostenere), legati alla malattia e alle sue possibilità e modalità di cura, i mediatori familiari, penale, sociali, sanitari, ecc., si confrontano con stati d’animo legati al conflitto. Quelli che lo hanno generato o quelli che lo caratterizzano e influenzano nel suo sviluppo. Ed è per questo che i mediatori sperimentano prestissimo (auspicabilmente già e reiteratamente durante il loro percorso di formazione professionale) che l’empatia non è una passeggiata.
Ma l’empatia che dispiega il mediatore non è soltanto una dimensione interna, un comprendere la realtà emotiva e affettiva dei suoi interlocutori in conflitto tra di loro. Non basta che il mediatore familiare senta cosa provano i due genitori o che il mediatore penale riesca a riconoscere i vissuti della vittima e dell’autore del reato. Il mediatore non può limitarsi ad esercitare un’empatia silenziosa. Occorre anche che comunichi la propria comprensione e che tenga conto nel suo parlare con le parti, di ciò che ha avvertito in loro.
Ora, se per il mediatore non è troppo difficile sentire, definire e comunicare stati d’animo e sentimenti che sono in linea con possibilità di riconoscimento reciproco, di ripristino del dialogo o addirittura di immedesimazione vicendevole, quando, invece, si trova davanti i contrasti e i tormenti della contrapposizione, dell’ostilità, del risentimento, della sfiducia, la situazione si complica.
L’empatia è strettamente legata alla neutralità e alla sospensione del giudizio
La situazione si complica per tanti motivi. Alcuni riguardano gli aspetti, per così dire, più palesemente contro-transferali: ad esempio, può risultare difficile essere equi-prossimi, internamente, per molte ragioni e una di queste può riguardare, magari, la più evidente indisponibilità di uno dei protagonisti del conflitto ad abbassare le armi. Può essere complicato, cioè, sentire i vissuti e le ragioni della parte che resta pervicacemente avversa ad ogni prospettiva di de-escalation.
Tuttavia è noto che il mediatore non soltanto sospende il giudizio su torti e ragioni, ma anche (almeno finché non si superi o non sia già stato superato il limite della violenza) quello sull’esistenza di quel conflitto. In altri termini, il mediatore non giudica male le parti per il fatto che sono in conflitto. E non dovrebbe giudicarle negativamente per il fatto che dal conflitto non vogliono o faticano ad uscire (si è affrontato questo aspetto in diversi post incluso questo: La mediazione familiare è laica)
Tale sospensione del giudizio nella pratica esperienziale è quanto mai ardua di raggiungere e conservare, ma, come spiega ogni buon formatore dotato di adeguata esperienza mediativa, è possibile non farsi condizionare da tali difficoltà nel relazionarsi con gli attori del conflitto, se si fa ricorso, appunto, all’empatia. Infatti, è fondamentalmente grazie a questa che riusciamo a porci con atteggiamento neutrale e a-valutativo: perché sentiamo sentimenti, emozioni e ragioni di tutti gli attori del conflitto.
L’empatia non è una passeggiata ma non è detto che sia un viaggio (dentro di sé) orribile o poco istruttivo
Per concludere, il mediatore dovrebbe, quindi, accogliere e riconoscere anche i sentimenti delle parti che paiono chiudere le porte a delle possibilità di mediazione. Il non farlo, infatti, significherebbe prestare a quelle persone un’attenzione selettiva, guidata soltanto dai propri obiettivi o desideri. E potrebbe creare una relazione ambigua tra il mediatore e le parti: una relazione, cioè, nella quale, queste ravvisano o sospettano che il mediatore abbia un atteggiamento di superiorità (morale, intellettuale, psicologica). Il ché sarebbe quanto mai deleterio.
Il mediatore, infatti, non è più saggio dei mediati, non ha una maggiore conoscenza delle cose della vita, e l’unica differenza che lo “avvantaggia” – fatta salva “la preparazione tecnica” – è che il conflitto che si trova a gestire non gli appartiene. Ed è ciò che gli consente di relazionarsi in modo empatico con gli attori del conflitto. A condizione, però, che il conflitto davvero non gli appartenga, cioè che non si senta in conflitto con il loro essere in conflitto
Se questa eventualità dovesse darsi, allora, è bene realizzarlo. Empatizzare con se stessi, ascoltarsi, gestire quelle emozioni o quei sentimenti di rifiuto della conflittualità tra quei confliggenti e tornare a concentrarsi su di loro.
Alberto Quattrocolo
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