3 dicembre: la violenza fascista ottiene i pieni poteri
Possono bastare 33 giorni alla violenza fascista per ottenere i pieni poteri?
Possono bastare 33 giorni per sostituire lo stato di diritto, la separazione dei poteri e le libertà fondamentali con la violenza fascista? Possono bastare 33 giorni per far diventare la violenza fascista il principale criterio e il fondamentale metodo di governo di una nazione? Possono bastare 33 giorni perché si eclissino principi e valori che parevano acquisiti definitivamente? Possono bastare 33 giorni perché ottenga i pieni poteri una forza politica radicalmente antitetica a quelle che per almeno sessant’anni avevano governato un Paese?
Sì, visto che è quanto accaduto proprio da noi, tra il 31 ottobre, con la formazione di un governo di violenti, e il 3 dicembre, con la concessione ad esso, da parte del Parlamento, dei pieni poteri. Trentatré giorni, anche se il processo ha avuto radici ben più profonde e un lunghissimo sviluppo.
L’Italia, uscita malridotta da una catastrofe mondiale, non riusciva a risolvere quelle ingiustizie sociali che sempre di più affliggevano la gran parte della popolazione. La disoccupazione dilagante e l’emigrazione crescente costituivano solo la punta dell’iceberg di una crisi spaventosa, che investiva anche le finanze dello Stato. Essendo il bilancio statale gravato da un debito impressionante, gli stessi margini di manovra a disposizione dei governi, infatti, erano piuttosto contenuti; ristretti ulteriormente da una fitta rete di veti incrociati e di richieste, reciprocamente incompatibili, provenienti da diverse parti della società. Così, l’onda nazionalista, che la memoria del passato avrebbe dovuto indurre a guardare con sospetto, se non con angoscia e repulsione, cresceva rapidamente. E non veniva seriamente contrastata dai governi che si susseguivano, espressione di quello che si potrebbe chiamare “establishment”. Anche al loro interno c’era chi credeva possibile cavalcare tale onda così da conservare il potere.
Avevano perso credibilità e lo sapevano, almeno in parte. Però, forse, venendo a patti con quel nazionalismo, s’illudevano di poterla recuperare presso una parte consistente dei loro elettori tradizionali. Costoro, però, scontenti della loro azione, si lasciavano sedurre da una propaganda, fatta di slogan, intrisa di un viscerale antipartitismo e di un violento antiparlamentarismo.
Il nazionalismo a squarciagola anestetizzava un plurisecolare e diffuso sentimento di inferiorità rispetto ad altri popoli e nazioni d’Europa. L’antipartitismo e l’antiparlamentarismo offrivano la facile soluzione di un nemico da odiare e a cui attribuire tutte le colpe delle antiche e delle crescenti frustrazioni, delle irrisolte ingiustizie e delle profonde sofferenze. Gli slogan, per quanto rozzi, avevano una formidabile efficacia nell’incantare e nell’appannare il senso critico di un popolo stanco e amareggiato, spaventato dal futuro e incatenato dall’immobilismo sociale, dalla povertà e dall’ignoranza.
Il tramonto di un’epoca
Il sistema e lo stesso orizzonte culturale e politico che aveva sorretto il Paese per sessant’anni erano giunti al tramonto. Un’intera epoca, in realtà, stava tramontando, e la violenza fascista (quella del linguaggio e quella degli scontri di piazza e delle spedizioni punitive) stava per entrare nel cuore delle istituzioni. Stava per diventare una componente fondamentale della politica di governo, così com’era stata un ingrediente indispensabile del movimento. Del resto, la violenza fascista non suscitava troppe riserve neppure in coloro che vedevano di buon occhio l’affermarsi di «un’associazione di tipo nuovo, l’antipartito, formato da spiriti liberi di militanti politici che rifiutavano i vincoli dottrinari e organizzativi di un partito», cioè di quei tanti che, delusi e frustrati, erano più che sensibili ai richiami dell’antiparlamentarismo.
Gli ultimi rantoli dell’epoca liberale
Alla fine di giugno del 1919, quando Francesco Saverio Nitti ricevette l’incarico dal Re di formare un nuovo governo l’epoca liberale aveva i minuti contati [1]. Nitti conscio della gravità assoluta del momento, non perse tempo e procedette subito alla smobilitazione militare e ad un tentativo di risanamento del bilancio statale, afflitto dagli enormi debiti di guerra. Il suo proposito, ovvero la necessità del Paese, era passare da un’economia di guerra ad un’economia di pace. Ciò, però, collideva con i programmi espansionistici dell’industria bellica (resa ancora più agguerrita per la decisione del governo di bloccare una spedizione militare in Georgia) e con l’irredentismo nazionalista di Gabriele D’Annunzio, Alfredo Rocco e Benito Mussolini, che si erano coalizzati in una campagna diffamatoria contro Nitti, accusandolo di avere rinunciato alla difesa degli interessi nazionali [2]. Nitti ne risultò così fortemente indebolito che, complice la batosta presa dai liberali alle elezioni del ’19, i quali per la prima volta erano finiti in minoranza, pur essendo riuscito a ricostituire il governo, a giugno dovette dimettersi, per essere sostituito dall’anziano Giolitti [3].
Quella conflittualità interna ai liberali e tra le altre forze democratiche e di sinistra che favorì i fascisti
Giovanni Giolitti e Francesco Saverio Nitti erano diventati nemici, nemici giurati [4]. Ed entrambi, intenti ad odiarsi e a contrastarsi, caddero negli stessi fatali errori: non compresero che quella violenza era violenza fascista, cioè un elemento caratterizzante e ineliminabile di quel movimento; stimarono eccessivamente la loro capacità di gestire la crisi politica e sociale; guardarono ai partiti di massa (il PPI, il partito socialista e quello fascista) come ad entità che si sarebbero potuto controllare e strumentalizzare. E non seppero capire l’enorme potere attrattivo, in tutti gli strati sociali, della proposta di una “terza via”. Terza, cioè, perché coloro che la sostenevano si proponevano come né di sinistra né di destra, rivendicando la facoltà di poter essere:
«aristocratici e democratici, conservatori e progressisti, reazionari e rivoluzionari, legalisti e illegalisti, a seconda delle circostanze di tempo, di luogo e di ambiente».
La speranza di Nitti di formare un governo con il sostegno di socialisti, popolari e fascisti
Infatti, nell’estate del ’22, pochi mesi prima della marcia su Roma, Nitti, sconfitto alle elezioni del ’21, aveva esplorato personalmente la possibilità di un governo da lui presieduto col sostegno dei tre partiti di massa: socialisti, popolari e fascisti. In seguito alla dichiarata disponibilità di Mussolini, che pareva accontentarsi di un ministero e di due sottosegretariati, Nitti aveva consultato, quindi, Sturzo. Costui, nelle memorie nittiane, aveva accettato la proposta, ritenendo che un tale governo avrebbe potuto «evitare più grandi danni». Con serio dispiacere di Nitti, invece, i socialisti si erano opposti fermamente. Nitti, però, non aveva desistito del tutto: mentre, il primo agosto, si svolgeva lo sciopero generale, proclamato dall’Alleanza del lavoro per protesta contro le violenze fasciste, aveva pensato di agganciare il movimento fascista, tramite D’Annunzio. Riteneva possibile sia la trasformazione del fascismo in forza politica pacifica che la sua integrazione nello Stato liberale. Poiché prima dell’appuntamento D’Annunzio era caduto dalla finestra, l’incontro era saltato.
L’illusione, comune a Giolitti e a Nitti, di poter manovrare il fascismo per conservare il regime liberale e mantenere l’ordine
Mussolini, in realtà, trattava contemporaneamente anche con Giolitti. Il quale, alla pari di Nitti, pensava di essere il solo a negoziare con il capo del movimento fascista. Costui, in realtà, non aveva alcuna intenzione di entrare in un governo a guida liberale, gli interessava prendere il potere, tutto il potere. E per arrivarci gli occorrevano le elezioni anticipate. Anzi aveva bisogno che fossero i due esponenti liberali a richiederle[5].
Costoro, come la gran parte della classe dirigente liberale, vedevano i fascisti come strumenti più o meno manovrabili, utili, anzi a garantire l’egemonia liberale, la quale sapeva che a volte occorreva collocarsi un po’ a sinistra e altre volte un po’ di più a destra. La violenza fascista, quindi, invece di essere vista con sgomento e indignazione, era considerata una forma estrema, sì, ma necessaria, per la restaurazione dell’ordine. Un ordine, in realtà, che si temeva minacciato nelle sue fondamenta dal bolscevismo.
Una decisione suicida
Il 31 ottobre era sorto il governo di Benito Mussolini. Di fronte all’incalzare dello squadrismo fascista, che vedeva il suo apogeo nella mezza fallita marcia su Roma (visto che vi presero parte non più di 26.000 fascisti, invece dei 200.000 annunciati o dei 300.000 dichiarati poi dalla propaganda del regime), Vittorio Emanuele III di Savoia, ignorando i suggerimenti del Presidente del Consiglio dei ministri in carica, Luigi Facta, che gli chiedeva di firmare il decreto di proclamazione dello stato d’assedio, aveva deciso di affidare l’incarico di Presidente del Consiglio a Mussolini, sebbene, in quel momento, in Parlamento non sedessero più di 35 deputati fascisti (eletti nel 1921).
Avrebbe potuto finire lì, in forma di farsa. Invece, proseguì e divenne tragedia
Se il re avesse aderito alla richiesta di Facta, il fascismo e il suo capo avrebbero perso, verosimilmente, ogni credibilità[6]. Ma il re optò per un’altra soluzione e, così, per la formazione del governo Mussolini, formalmente, venne seguita la procedura costituzionale.
Affidando a Mussolini l’incarico di dirigere il governo il re, i grandi interessi privati e la borghesia nel suo complesso non intendevano sostituire il regime esistente con una dittatura del partito unico con al vertice un capo onnipotente, come accadde nell’arco di pochi anni (abbiamo ricordato, su questa rubrica, diversi passaggi di questa involuzione: dal delitto Matteotti, alla repressione successiva al fallito attentato di Tito Zaniboni, dalle prime “leggi fascistissime”, all’imposizione del giuramento di fedeltà al fascismo per i docenti)[7]. Se per le classi dirigenti tradizionali il conferimento dei pieni poteri doveva essere limitato al tempo necessario al risanamento dell’Italia, per Mussolini, invece, l’alleanza tra fascismo e classi dirigenti serviva a dare modo e tempo alla nuova élite in camicia nera di occupare i posti-chiave e prendere il controllo dello Stato.
Mentre Nitti, ritiratosi dalla politica attiva, si concentrava nella produzione di saggi divenuti fondamentali (un’attività che gli guadagnò una proposta di candidatura al Nobel per la Pace), l’Italia entrava, dunque, nel più buio dei suoi periodi neri: il cosiddetto “Ventennio fascista”.
La dittatura legale e i pieni poteri
Il 19 novembre del 1922, la Camera votò con larga maggioranza la fiducia al Governo Mussolini. Fra coloro che votarono a favore vi furono: Facta, Bonomi, Giolitti, Orlando, Salandra, Gronchi (futuro presidente della Repubblica Italiana nel dopoguerra), Alcide De Gasperi, il presidente della Camera dei Deputati Enrico De Nicola (che sarà poi il primo Presidente della neonata Repubblica Italiana). Poi, dopo che anche il Senato ebbe votato la fiducia, Mussolini, il 24 novembre, chiese ed ottenne dal Parlamento i pieni poteri per un anno.
I pieni poteri, il Gran Consiglio del Fascismo e la Milizia Volontaria di Sicurezza Nazionale
La legge 3 dicembre 1922, n.1601, garantì appunto a Mussolini i pieni poteri per tutto il 1923. E con i primi decreti legge elargì compensi agli industriali e ai ricchi possidenti terrieri che ne avevano favorito l’ascesa al potere.
In particolare, abolì la nominatività dei titoli azionari, procedette alle privatizzazioni, eliminò la tassa di successione familiare, ridusse l’imposta sugli immobili e sulla ricchezza mobile (estesa anche agli stipendi dei lavoratori pubblici e parastatali), sbloccò i fitti e interruppe i progetti di riforma agraria.
Preoccupato di non creare attriti irrisolvibili con la Chiesa, Mussolini si avvalse anche dei pieni poteri per ingraziarsi il Vaticano[8].
Mussolini provvide, però anche alla costituzione del Gran Consiglio del Fascismo (un organo che in teoria doveva discutere delle iniziative del governo e delle questioni interne al partito fascista, ma che di fatto si limitava a ratificare le decisioni del capo: ne abbiamo parlato qui), che il 14 gennaio 1923 formò la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale: in essa affluirono le fedeli camicie nere, che giuravano fedeltà a Mussolini ma non al re, anche se la M.V.S.N. sostituiva la Guardia Regia, che aveva avuto la funzione di prevenire e contrastare eventuali sommosse. Era un vero e proprio corpo paramilitare, incaricato di svolgere compiti di polizia territoriale, i cui membri, stipendiati dallo Stato, dovevano essere iscritti al Partito Nazionale Fascista. Coloro che, a capo delle squadre fasciste, avevano commesso i più svariati crimini ne divennero ufficiali, e primo console (un grado corrispondente a quello di colonnello) fu nominato Piero Brandimarte, che si era messo in triste evidenza a Torino come capo del Fascio[9]. Con la M.S.V.N. la difesa dello Stato (liberale) veniva assegnata ai fascisti.
L’onnipresenza di Mussolini e la seduzione del popolo
A pochi mesi dall’insediamento come presidente del Consiglio, Mussolini stava già diventando un mito per un gran numero di italiani. Non potendo contare sugli attuali mezzi di comunicazione, il capo fascista usava le piazze e il contatto diretto con la folla per conquistarsi il favore popolare. E se la sua retorica, la sua gestualità suscitava lo scherno della classe dirigente tradizionale, una larga parte del popolo minuto ne era, invece, sedotto.
Instancabile Mussolini era ovunque, teneva discorsi, inaugurava e parlava… E parlando, inviava alle folle dei riconoscimenti che esse troppo a lungo e vanamente avevano atteso dai precedenti governanti. Compativa a parole le miserie dei contadini del Sud o dei pastori sardi, chiamava camerati gli operai della FIAT e non trascurava alcuna occasione per esporre la sua appartenenza al popolo, per ostentare le sue origini contadine e proletarie.
Tutto ciò, lo sappiamo, funzionava. Il fatto che, grazie ai pieni poteri, avesse spazzato i progetti di riforma agraria non gli alienò in blocco, infatti, la simpatia della classe contadina, anche se egli aveva di fatto dimostrato quanto vuote erano state le precedenti promesse di dare la terra ai contadini. Analogamente i favori concessi ai vertici dell’industria, a discapito degli operai non diedero luogo ad una reazione compatta di dissenso da parte di questi. La propaganda instancabile si rivelava, perciò, anche sotto questo profilo, terribilmente redditizia.
L’ordine della violenza fascista
Mussolini, però, non si limitava a blandire la parte più povera della popolazione. Utilizzava anche le truppe e in particolare la Milizia, formata grazie ai pieni poteri, per tenere sotto pressione la maggioranza silenziosa del Paese e per intimidire gli avversari. Scatenava, inoltre, le organizzazioni fasciste provinciali contro centinaia di dirigenti locali di organizzazioni sindacali e politiche di sinistra, lasciando loro come unica via d’uscita dalla violenza fascista quella dell’esilio. Ad esempio, nel febbraio del ’23 le camicie nere aggredirono nel Palazzo di Giustizia il deputato socialista Modigliani e, a Torino, per ordine di Mussolini venne arrestato Piero Gobetti. Il giovane giornalista liberale, accusato di aver commesso un reato di opinione, fu scarcerato dopo pochi giorni, per le proteste che arrivarono a Palazzo Chigi, tra cui quelle di Benedetto Croce, ma in manette finirono Serrati, Pietro Nenni e tutta la redazione dell’Avanti.
Il tardivo sorgere dei dubbi nei moderati sulla reale volontà di Mussolini di “normalizzare” la situazione
Quei liberali, che, già nel precedente decennio, (anche) per “normalizzare” gli estremismi nazionalistici, avevano svolto una vergognosa, sanguinosa e fallimentare invasione della Libia (l’abbiamo ricordata qui, qui e qui) e avevano gettato l’Italia nell’orrendo massacro della Grande Guerra (ne abbiamo parlato qui, qui e qui), cominciavano a rendersi conto che la fase di “normalizzazione”, per instaurare la quale appoggiavano il governo di Benito Mussolini, approvando anche la sua legge per i pieni poteri, era soltanto un’altra illusione.
I moderati rimasti legati all’idea della democrazia liberale, all’inizio della primavera del ’23, realizzarono, pertanto, che Mussolini non era la cura, ma il male. Così Francesco Saverio Nitti prese posizione contro il fascismo su un giornale latino-americano, e analogamente agì Giovanni Amendola, direttore del quotidiano Il Mondo. Perfino Il Corriere della Sera espresse dure riserve sulla legalità fascista.
La rottura con i popolari
Al congresso di Torino del Partito Popolare Italiano, il suo segretario politico, don Luigi Sturzo riuscì, con mille difficoltà, a far approvare la decisione sulla prosecuzione del sostegno al governo di Mussolini. Ma venne anche adottata una dichiarazione con la quale il PPI si opponeva alla concezione fascista dello Stato e alla violenza fascista, quindi, rivedendo di fatto la bontà della legge sui pieni poteri, chiedeva il ripristino delle libertà politiche e della legalità costituzionale.
Mussolini, infuriato, chiese le dimissioni dei due ministri popolari del suo governo, mentre l’ala destra di quel partito se ne separava del tutto. Ma per togliersi dai piedi il fondatore del PPI, Mussolini moltiplicò i gesti di pacificazione verso il Vaticano e, contemporaneamente, ordinò l’uso del manganello e dell’olio di ricino verso i più ostili rappresentanti del PPI e verso singoli preti sospettati di antifascismo. L’uso del bastone e della carota funzionò: Il Corriere d’Italia pubblicava un articolo ispirato dalla Santa Sede in cui Sturzo era rimproverato di creare difficoltà alla Chiesa e l’Osservatore Romano, l’11 luglio, commentava le dimissioni di Don Sturzo dalla carica di segretario del partito come un contributo alla «pacificazione degli spiriti in Italia»
La legge Acerbo
I Popolari avevano chiesto che nella nuova legge elettorale il premio di maggioranza fosse concesso alla lista che otteneva il 40% dei voti, ma la legge proposta da Giacomo Acerbo prevedeva che quella che raggiungeva il 25% avesse i due terzi dei seggi e che l’altro terzo fosse distribuito tra le liste minoritarie con criterio proporzionale. La legge Acerbo fu discussa mentre la M.V.S.N. pattugliava le vie di Roma e Mussolini sul suo giornale minacciava l’opposizione di «dare libero sfogo alla rivoluzione» fascista in caso di bocciatura. La legge passò alla Camera con una maggioranza risicata il 23 luglio del ’23 e a novembre fu approvata dal Senato. Il Parlamento aveva, così, approvato la propria condanna. E Mussolini lo sapeva, visto che quello era stato il suo fine. Tanto che non chiedeva la proroga dei pieni poteri, certo com’era di vincere le elezioni.
Il listone e la frammentazione degli antifascisti
Il presidente del Consiglio, per garantirsi la perpetuazione del suo potere, però, non esitò a formare una lista – Lista nazionale del Fascio littorio – che includesse anche candidati non fascisti. Respinse, quindi, l’alleanza con i vecchi partiti che avevano fin lì sostenuto il suo governo, ma accolse nel suo «listone» personalità come De Nicola, Salandra e Orlando, nonché degli ex popolari di destra e alcuni professori universitari conservatori. Tra coloro che entrarono nel listone non vi furono Giolitti, che rifiutò le proposte di Mussolini, né i democratici sociali e i popolari. Queste tre liste, però, furono di fatto gli alleati dei fascisti nella battaglia elettorale. L’opposizione costituzionale, venne così ad essere interpretata soltanto da Amendola e Bonomi. Separatamente concorrevano i socialisti e i comunisti, che, non avendo formato un’unica lista, offrivano una ulteriore chance di vittoria al listone, il quale poteva contare sul sostegno, anche finanziario, della Confindustria (con la quale Mussolini aveva concluso un accordo), nonché sull’azione terroristica svolta in tutta Italia dai Fasci.
Novembre – dicembre ’23: una nuova ondata di violenza fascista
La violenza fascista, infatti, non aveva atteso l’apertura ufficiale della campagna elettorale per dispiegarsi. Già il 30 novembre, come abbiamo ricordato, diverse centinaia di camice nere assaltarono l’abitazione di Francesco Saverio Nitti, in via Alessandro Farnese, e la saccheggiarono. Poi, indisturbati, sfilarono lungo il corso. Nessun agente delle forze dell’ordine tentò di fermarli, né ci furono arresti o incriminazioni poi. In effetti, sarebbe stato alquanto bizzarro se la polizia fosse intervenuta, visto che l’assalto era stato organizzato dal capo della polizia Emilio De Bono, uno dei quadrumviri della marcia su Roma, su ordine diretto di Mussolini [10].
Il giorno di Santo Stefano ad essere oggetto di un agguato fu Giovanni Amendola, il capo dell’opposizione liberale. Assalito da un gruppetto di camice nere vicino a casa sua, fu violentemente bastonato.
Nelle settimane successive, con l’apertura della campagna elettorale, la violenza fascista si scatenò ferocissima verso i candidati di tutte le forze di opposizione e, com’è noto, insieme ai brogli, fu determinante nell’attribuire al listone la vittoria (oltre il 66%, cioè 4.305.000 voti). Le opposizioni ottennero 3 milioni di voti e si divisero un terzo dei seggi secondo il criterio proporzionale.
Mussolini era riuscito ad associare un centinaio tra conservatori e liberali allo zoccolo duro fascista (i fascisti avevano da soli 275 seggi, cioè la maggioranza assoluta). In tal modo poteva servirsene per rinforzare il suo potere, dando luogo alla dittatura, così come prima aveva saputo sfruttare le prudenze, i timori e i tatticismi dei moderati, per raggiungere il potere.
Alberto Quattrocolo
Fonti
Renzo De Felice, Breve storia del Fascismo, Mondadori, Milano, 2002
Emilio Gentile, Fascismo storia e interpretazione, Editori Laterza, Roma, 2007
S. Luzzatto e V. De Grazia (a cura di), Dizionario del fascismo, Einaudi, Torino, 2005
P. Milza, Mussolini, Carocci, Roma, 2000
G. Pisanò, Storia del Fascismo, Pizeta, Milano, 1990
Angelo Tasca, La nascita del fascismo, Bollati Boringhieri editore, Torino, 2006.
http://www.tuttostoria.net/
https://it.wikipedia.org/
[1] Nitti era entrato in Parlamento, come deputato, a trentasei anni, nel 1904, aderendo al raggruppamento radicale di opposizione al governo Giolitti, nei confronti del quale, però, Nitti, seppe conservare un atteggiamento di rispetto. Già docente universitario, avvocato, pubblicista e membro del Consiglio superiore della Pubblica Istruzione, era una figura nota sulla scena intellettuale e politica. Proveniente da una famiglia lucana, che si era contraddistinta per la sua opposizione al regime borbonico prima del 1860, sarebbe stato il primo “meridionalista” a diventare presidente del Consiglio dei Ministri. Ma, prima di ricevere quell’incarico del re, nell’immediato, primo, dopoguerra, era già stato nominato da Giolitti Ministro dell’agricoltura, industria e commercio nel suo quarto governo (1911-1914), ottenendo, tra gli altri risultati, la costituzione dell’Istituto Nazionale delle Assicurazioni (INA). Poi lasciato fuori dal governo Salandra, era stato “richiamato” al ruolo di ministro, del Tesoro, nel 1917, dopo la sconfitta militare di Caporetto, all’interno del governo di Unità Nazionale presieduto da Vittorio Emanuele Orlando. Due anni dopo, visto anche l’insuccesso diplomatico della Conferenza di Parigi, Orlando diede le dimissioni, e il Re si rivolse a Nitti.
[2] Lo slogan dannunziano della «vittoria mutilata» e la spedizione di volontari e di militari ammutinati che occuparono Fiume e ne proclamarono l’annessione al Regno d’Italia indebolirono notevolmente il governo Nitti, già traballante nei consensi per via di quella sequenza di lotte e rivendicazioni sociali che venne denominata il biennio rosso, essendo alimentata dalla radicalizzazione politica successiva alla rivoluzione bolscevica. L’opposizione allo Stato liberale, rappresentata dai cattolici, raggruppati da don Luigi Sturzo nel Partito popolare italiano (PPI), e dai socialisti, ormai lontani dal riformismo di Filippo Turati e orientati su posizioni massimaliste e rivoluzionarie, alle elezioni politiche del novembre del 1919, svolte con il nuovo sistema proporzionale, vide il tradizionale equilibrio politico frantumarsi: il PSI ottenne il 32,6% dei voti, il PPI arrivò al 20,6% e per la prima volta i liberali finirono in minoranza, passando dai 200 deputati eletti nel 1913 a 90.
[3] La sua decisione di abolire il prezzo politico del pane (che proprio lui aveva in precedenza introdotto), misura presa per contenere il disavanzo statale, gli scatenò contro non soltanto le opposizioni ma anche una parte della sua maggioranza.
[4] A tal punto era giunto il livello di scontro che due decenni dopo, avendo trascorso quei vent’anni in esilio a causa del fascismo, Nitti scrisse: «Ho sempre considerato Mussolini come un avversario e Giolitti come un nemico»
[5] Nitti, infatti, il 19 ottobre, meno di dieci giorni prima della marcia su Roma, quando le violenza fasciste stavano insanguinando l’Italia, in un discorso a Lauria disse: «Noi dobbiamo utilizzare tutte le forze vive per raccogliere dal Fascismo la parte ideale, che è stata la causa del suo sviluppo, dobbiamo utilizzare insieme le forze più sane e più operose che vengono dalle masse popolari, incanalandole nelle forme legalitarie delle nostre istituzioni… Il solo modo di avere un Governo forte è consultare il Paese. Ogni ritardo può essere un danno»
[6] Il consenso popolare verso i fascisti in quella fase era davvero contenuto e, se lo Stato avesse deciso finalmente di applicare la legge, l’avventura politica di Mussolini e dei suoi sarebbe, probabilmente, finita prima nei tribunali e poi nel dimenticatoio, rivelandosi per quel bluff, quella farsa, che, in effetti, sotto molti aspetti, era.
[7] L’obiettivo era quello di uno smantellamento totale delle organizzazioni contadine e operaie, per tre quarti già devastate dalla violenza squadrista, e di un rafforzamento dei poteri del governo per impedire qualsiasi disegno rivoluzionario.
[8] Rispetto al Vaticano operò salvando il Banco di Roma a spese degli italiani, introducendo la presenza obbligatoria del crocifisso in tutti gli edifici e uffici statali, aumentando le rendite per i parroci e i vescovi ed esentando i seminaristi e sacerdoti dagli obblighi militari
[9] Fra il 18 ed il 22 dicembre 1922 a causa dell’uccisione di un fascista, vennero assassinati 22 attivisti di sinistra Anche Gennaro Gramsci, scambiato per suo fratello Antonio Gramsci, venne bastonato. A Torino furono incendiati la locale Camera del Lavoro, il circolo dei ferrovieri e altri centri di organizzazioni di sinistra, e del movimento operaio. Anche nelle altre città i fascisti somministravano bastonate ed olio di ricino. Tra i pochi in Parlamento a denunciare tali oscene violenze vi era il deputato socialista Giacomo Matteotti, mentre nel Paese tra il 1° novembre 1922 ed il 31 marzo 1923 i fascisti uccidevano più di 100 persone senza subire alcuna conseguenza legale.
[10] L’ex presidente del Consiglio che, già, per puro caso era scampato ad un’aggressione presso la sua villa da parte di un gruppo fascista, grazie all’intervento di alcuni amici intervenuti in sua difesa, fu il primo, tra gli antifascisti, ad andare in esilio all’estero. Si rifugiò dapprima in Svizzera e poi a Parigi. Qui, per 20 anni, si dedicò all’attività antifascista e la sua casa divenne di riferimento per diversi oppositori del regime: Pietro Nenni, Filippo Turati, Carlo Rosselli, Gaetano Salvemini, Sturzo, Modigliani, Treves e Chiesa.
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