La violenza dei socialrazzisti
Meccanismi di autogiustificazione dei discorsi di odio e delle altre forme di violenza dei socialrazzisti
Nella disponibilità dei socialrazzisti (in un precedente post avevo definito socialrazzisti il comportamento e la mentalità di chi manifesta, anche o soprattutto sui social network, un violento odio per i migranti, percependoli come fonte di un costo che pregiudica il godimento dei diritti sociali da parte degli italiani e come una minaccia sul piano della sicurezza) ad offendere, denigrare, diffamare e calunniare i migranti si possono rinvenire quei meccanismi di autogiustificazione che psicologicamente servono a neutralizzazione la coscienza dell’autore di una violenza (sugli episodi di violenza razzista mi sono soffermato nel post La violenza razzista). Cioè, quelle dinamiche interne che azzerano il sentimento delle proprie responsabilità negli autori di reato, inclusi coloro che commettono crimini violenti (bulli, terroristi, ladri, maltrattanti, stupratori, ecc.). Tali meccanismi di neutralizzazione della coscienza sono:
– la colpevolizzazione della vittima. In virtù di tale meccanismo, l’autore della violenza ispirata da socialrazzismo si persuade di non aver fatto nulla di male poiché i migranti, bersaglio delle sue aggressioni, si meritano di essere insultati, offesi, maltrattati e andrebbero anzi scacciati e perfino perseguitati perché sono colpevoli;
– la negazione del fatto che la vittima sia una vittima. Ad esempio, lo stupratore o chi commette una molestia sessuale può arrivare a convincersi che la vittima non sia tale perché in realtà sta ricevendo proprio ciò che desidera;
– la spersonalizzazione e la deumanizzazione. I migranti non sono considerati dai socialrazzisti come persone, con storie, pensieri, sentimenti, esigenze, ma come una massa informe di entità astratte, prive di sensibilità, di sentimenti umani;
– la giustificazione morale. La verbalizzazione o la traduzione in aggressioni fisiche dell’odio verso il migrante, sorge, per i socialrazzisti, dall’adempiere al dovere morale di dover difendere la propria casa, la propria famiglia, la propria identità, i propri diritti e, perfino, la propria sopravvivenza fisica e spirituale;
– l’etichettamento eufemistico. I discorsi di odio come le violenze fisiche realizzate e auspicate o sollecitate (dall’invito a ricacciarli in mare, all’esultare per la morte di bambini o donne incinta) dai socialrazzisti sono da essi definiti alla stregua del banale parlare schietto;
– il confronto vantaggioso. I socialrazzisti rapportano l’entità del danno derivante dalla loro, ad altri fatti illeciti, giustificando, così, una sfilza di insulti e maledizioni verso la massa dei migranti, in base al paragone con un’azione criminale particolarmente grave commessa da uno straniero;
– la distorsione delle conseguenze. I socialrazzisti affermano che in realtà i discorsi di odio e la messa fisicamente in pratica del loro odio non danneggiano realmente nessuno, non fanno male né al corpo né allo spirito di coloro a danno dei quali sono indirizzati. L’idea di fondo, infatti, che qualifica i socialrazzisti come razzisti senza possibilità di dubbio, è che i migranti abbiano la pelle dura o che siano privi di quelle facoltà che consentono loro di accusare il colpo quando li si offende. «Se sopportano di vivere in certe condizioni, se accettano di morire annegati, se sono disposti a lasciare le loro famiglie è perché sono meno umani di noi». Questo è il ragionamento di fondo che permette di scrivere le peggiori atrocità credendo che non producano conseguenze lesive su di un altro soggetto.
Una sorta di neo-negazionismo dei socialrazzisti
Sullo sfondo del socialrazzismo vi è un atteggiamento mentale in qualche misura simile a quello negazionista relativo alla Shoà. Si tratta di un atteggiamento mentale indispensabile ai socialrazzisti per continuare a sentirsi delle persone dotate di umanità. In tal caso, però, i socialrazzisti negano alla radice che i migranti che sbarcano sulle nostre coste siano delle vittime in fuga dalla violenza e dall’ingiustizia. Tale negazione – qualcosa che probabilmente ha molto a che fare con l’omonimo meccanismo di difesa in ambito psicologico – costituisce di per sé una violenza ancora più profonda, che si potrebbe chiamare neo-negazionismo. Infatti, occorre considerare che il negare a tali persone, in massa, il loro riconoscimento come vittime di persecuzioni, arbitrii, disumanità, terrorismo e guerre, significa arrecare loro una ferita dolorosissima e ancora più traumatica, sotto molti aspetti, dei traumi in sé che hanno subito nella loro patria e durante il peroro migratorio. Ad esempio, il trattamento da schiavi, la sottoposizione a torture, abusi sessuali e stupri, le uccisioni di figli, coniugi e genitori, e le tantissime altre forme di abuso e sfruttamento, di discriminazione e persecuzione, sono considerati dai socialrazzisti dei fatti inconsistenti, immeritevoli di considerazione, addirittura mai avvenuti. Come spiegato da Simona Corrente nell’ambito del Convegno Stand by me, richiamando l’incubo ricorrente ricordato da molti sopravvissuti ai lager nazisti, vi è ben poco di peggio per una vittima del non essere creduta.
L’altro, per certi aspetti ancora più radicale, risvolto negazionista – che meriterebbe assai più attenzione da parte dei media e non solo degli addetti ai lavori, degli studiosi e dei ricercatori – è quello relativo al colonialismo. I socialrazzisti non tengono in alcun conto del fatto incontrovertibile che guerre e massacri, terrorismi, persecuzioni e dispotismi vari, carestie, miseria, malattie e povertà, sono in larghissima parte, direttamente collegato con il colonialismo di ieri e con quello di oggi.
Va da sé che anche questa forma di negazionismo è indispensabile al socialrazzismo. Permette ai socialrazzisti di sentirsi dalla parte della ragione, di definirsi vittime di un’ingiustizia, di nutrire e mostrare odio verso gli appartenenti ai popoli vittime del colonialismo passato e attuale, di disprezzarle e colpevolizzarle, deumanizzandole e riducendole a clandestini.
Alberto Quattrocolo
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