“La verità è nell’occhio di chi guarda” e di chi commenta.
«Esiste una verità che abbia meno di due facce? », si chiede uno dei personaggi di un grande, e un po’ sui generis, western diretto da Henry Hathaway nel 1954, Il prigioniero della miniera (Garden of Evil). Mentre il titolo del post rinvia ad una celebre battuta pronunciata da Kevin Spacey in Mezzanotte nel giardino del bene e del male (Midnight in the Garden of Good and Evil, 1997), di Clint Eastwood.
Lunedì 20 marzo la Sindaca Virginia Raggi ha scritto sulla sua pagina Facebook che avendo voluto dare seguito ai consigli dei medici ha deciso «di staccare un po’ dopo sette mesi di lavoro senza pausa». Aggiunge anche di aver visto pubblicate delle foto «rubate» di lei e suo figlio in viaggio, allo scopo di fare sciacallaggio, cioè per puro spirito polemico.
Molti commenti sono all’insegna della solidarietà e del sostegno, altri, invece, critici, accusatori e polemici, tendono a deridere, schernire, minimizzare, canzonare.
Riguardo all’indicazione medica rivolta alla Raggi, forse correlata con il malore avuto il 24 febbraio, mi viene in mente quanto scritto quel giorno sul blog de L’Espresso da Mauro Munafò sulla «solita immondizia travestita da battaglia politica: battute sulla “donna che non regge la pressione”, teorie più o meno ironiche sul tentativo della prima cittadina di evitare l’incontro, sospetti sul fatto che sia una scusa come quella dello studente che non vuole andare a scuola. Tra le cose che più mi danno fastidio nel “dibattito” politico ci sono le insinuazioni e le costruzioni sulla salute altrui.»
Su l’imbeccata.it Franco Bechis il 15 febbraio ha dedicato un commento a quanto accaduto a Luigi di Maio dal titolo #Siamotutticolpevoli sul caso Di Maio. Che insegna molto. Tra le altre cose, scrive: «Nei confronti del M5s c’è una ostilità di fondo, e si vede che non si aspettava altro che cogliere al balzo quel moncone di sms di Di Maio per puntarglielo addosso».
Credo che in questo passaggio Bechis abbia messo in evidenza un aspetto terribilmente ricorrente nell’escalation del conflitto e non solo di quello che si propone in ambito politico.
Nell’esperienza ormai quindicinale dei nostri Servizi gratuiti di Ascolto e Mediazione dei Conflitti, così come nella realizzazione dei progetti e servizi di mediazione familiare, penale, sanitaria, ecc., ci è stato possibile constatare come l’escalation del conflitto porti proprio ad esiti di questo tipo in ordine alla lettura che le parti reciprocamente danno, e propongono ai terzi, delle caratteristiche, dei comportamenti e degli atteggiamenti altrui. Già in un altro post su questo blog mi ero soffermato sull’errore fondamentale di attribuzione (Ross, L., 1977) e sull’errore definitivo di attribuzione (Pettigrew, T. F., 1979), ma qui in particolare sembra non meno pertinente evidenziare un altro aspetto dell’escalation conflittuale: il fatto che, mentre le parti tendono a polarizzarsi in maniera sempre più rigida e definitiva, modificano anche pesantemente la percezione dell’altro, non considerandolo più come un individuo con caratteristiche simili alle proprie, ma come una pura minaccia. L’escalation, quindi può portare gli attori a de-umanizzarsi reciprocamente: l’avversario è perfino percepito e giudicato come membro di un gruppo portatore di valori negativi e pericolosi, che costituiscono una potenziale aggressione e, comunque, una minaccia per la propria individualità e per la propria serenità o per i propri principi. Cioè, ci si distanzia in maniera crescente dall’altro reale, fino a idealizzarlo come “l’immagine del nemico” (Arielli E., Scotto G., 1998).
Ciò contribuisce a spiegare come possa accadere che, anche allorché le parti sono convinte, parlando con altri, di essere assolutamente aderenti alla verità obiettiva, in realtà, per lo più stanno proponendo i fatti per come loro li hanno visti, percepiti e interpretati.
Così, ad esempio rispetto al voto sulla decadenza del senatore Augusto Minzolini, i commenti più facilmente rinvenibili sul web sono all’insegna del “palese” complotto tra Forza Italia e PD, cioè di un “voto di scambio” all’insegna del:” tu mi salvi Lotti e io ti salvo Minzolini”. Non tutti, però, Enrico Mentana sulla sua pagina Facebook il 17 marzo ha scritto «C’è una cosa però che mi sento di escludere: la partecipazione di molti di quei senatori (tra cui quelli che conosco come miei colleghi sciaguratamente consegnati alla politica) a un disegno di “voto di scambio” rispetto alla votazione del giorno prima su Lotti, o di prova tecnica di un’alleanza con Forza Italia. Sarebbe facilissimo esporli al pubblico ludibrio per raccogliere un applauso o un like: ma non sarebbe onesto da parte mia, perché so che non è così. Capita che qualcuno ragioni e poi scelga secondo coscienza, magari in modo opposto a noi. Non per questo va linciato. Resta la questione di fondo, che è la stessa di 25 anni fa: quando non c’è la politica prevalgono le pulsioni» (il grassetto, ovviamente, è mio, anche più avanti). Alle sue parole, pochi minuti dopo, ha fatto seguito un commento all’insegna del più totale scetticismo, il cui autore si diceva assolutamente certo del contrario di quanto affermato da Mentana e proponeva la sua verità come qualcosa di evidente a tutti e che, pertanto, avrebbe dovuto essere evidente anche per il direttore.
Seguono una replica di Mentana, un’altra risposta dello stesso cittadino, che conclude, parrebbe con tono amareggiato, «prendiamo atto che uno dei giornalisti più stimati e stimabili di questo paese “sente” di dover escludere l’evidenza dei fatti». Ancora Mentana: «Conosco Massimo Mucchetti, conosco Rosaria Capacchione e altri di quei senatori. L’ultima cosa che farebbero è giocarsi la reputazione per un “voto di scambio”. La Capacchione vive scortata da dieci anni per la sua attività di cronista antimafia. Voi che dal vostro pc o smartphone pretendete di conoscere la verità come me lo spiegate? ».
Dal punto di vista che ha senso prendere in considerazione su questo blog, Mentana si è misurato con quanto si evidenziava più sopra. Nel momento in cui questo o quel soggetto (individuo o gruppo) è per me un nemico, qualsiasi cosa faccia, gli attribuisco sempre le peggiori intenzioni. E nulla riesce a farmi cambiare idea. Anzi, se qualcuno ci prova, tale tentativo mi risuona come una provocazione, come una sfida al senso comune (“com’è possibile che qualcuno non veda ciò che è spettacolarmente chiaro?”, mi chiedo, sconcertato o irritato), un insulto alla mai intelligenza o come una messa in discussione della mia capacità di vedere e dire la verità, quando non mi fa sorgere il dubbio o la certezza che qualcuno sia in realtà non imparziale come dichiara di essere, ma schierato con il mio nemico.
A questo riguardo propongo un esempio tratto dall’esperienza pratica, modificandone i dati in modo tale che nessuno, neppure gli interessati, possano individuare il caso concreto. Tempo fa, all’interno di uno dei servizi sopra citati, nell’ambito di un colloquio individuale (i nostri percorsi di Ascolto e Mediazione dei Conflitti, si articolano in diversi colloqui individuali, che possono precedere e seguire l’incontro o gli incontri di confronto tra gli attori del conflitto e che sono condotti da un team di professionisti), il signore che, con un collega, stavo ascoltando si diceva assolutamente certo della colpevolezza di un’altra persona, riguardo ad un evento tragico occorso ad un membro della sua famiglia. Il conflitto, infatti, scaturiva proprio dalle accuse che quello aveva rivolto al secondo, essendo convinto della sua responsabilità per il lutto insopportabile che lui e la sua famiglia stavano vivendo. In sede giurisdizionale, dopo un lungo iter, la colpa non era stata ravvisata, ma quell’uomo non solo era profondamente convinto che fosse indiscutibile la responsabilità colposa dell’altro, ma lo riteneva anche un pusillanime bugiardo, contento solo di averla fatta franca, grazie ad una giustizia ingiusta. Secondo lui, infatti, se colui che riteneva colpevole di omicidio colposo fosse stato in possesso della minima traccia di sentimento umano, avrebbe ammesso la propria colpa. A conferma di tale convinzione portava la prova della mancata partecipazione di quello al funerale della vittima. Nel secondo o terzo colloquio individuale disse inoltre quanto si sentisse dolorosamente tradito anche da quel membro della sua famiglia, che non aveva la sua stessa granitica certezza e che aveva prospettato l’ipotesi che la mancata partecipazione del presunto assassino al funerale non fosse da ascriversi al suo sapersi colpevole, ma ad una forma di riguardo nei loro confronti.
Quando ascoltammo colui che era stato accusato di aver provocato quella morte, ci raccontò che qualche mese prima si era recato in tribunale proprio per quella vicenda e che il suo accusatore, entrato in un ufficio qualche istante prima di lui, gli aveva tenuto la porta aperta. Quel gesto, ci disse, era stata la più sadica manifestazione di odio che gli fosse mai accaduto di patire. Non lo aveva interpretato come un gesto, magari automatico, di banale buona educazione, ma come espressione del desiderio di assicurarsi che egli entrasse nella gabbia dei leoni per poter assistere con gioia al momento in cui sarebbe stato sbranato. Per lui, il famigliare della vittima era un persecutore spietato. Dapprima aveva pensato che fosse incapace di accettare il lutto, poi aveva creduto che fosse tormentato da dei sensi di colpa per un rapporto non felice con la persona deceduta, scusandone ancora la collera, ma, infine, era giunto alla conclusione che costui non cercava soltanto un capro espiatorio su cui riversarli, ma che era sotto tutti gli aspetti un uomo profondamente malvagio, capace solo di proiettargli addosso tutto il marciume che si portava dentro la sua anima nera.
Il fatto che uno dei due fosse noto per le sue attività filantropiche lo rendeva agli occhi dell’altro ancor più detestabile, come fosse stata una prova della sua doppiezza, l’indizio di un’ipocrisia tanto inguaribile quanto insopportabile a vedersi.
Quando si incontrarono, dopo diversi colloqui individuali in cui diedero voce alla rabbia, al dolore e all’angoscia che li corrodevano, entrambi ebbero la possibilità di esprimere l’uno al cospetto dell’altro queste loro interpretazioni sui rispettivi comportamenti e caratteri: interpretazioni che essi ancora vivevano come certezze inossidabili.
Non si erano rivolti, infatti, ad uno dei nostri servizi per cercare una ricomposizione del loro conflitto, anzi la sola prospettiva li avrebbe fatti inorridire, offendere e indignare. Avevano deciso di avvalersene perché entrambi si sentivano terribilmente soli e avevano bisogno di poter parlare con qualcuno di esterno, di essere compresi e di non essere giudicati per i sentimenti ingombranti che provavano. Non a caso i nostri servizi sono denominati, proposti e declinati, in primo luogo, come di Ascolto e, in secondo luogo e solo eventualmente, di Mediazione (e tale termine, che nel linguaggio comune e in molto paradigmi teorici mediativi evoca i concetti di reciproche concessioni, di compromesso e di accordo, in realtà, nell’orientamento teorico cui l’Associazione si ispira e nella metodologia conseguentemente applicata potrebbe essere tranquillamente sostituito, per spiegarlo a fini didattici, dalla più neutra parola “confronto”).
Com’è facile intuire a questo punto, le loro letture sui moventi e i sentimenti dell’altro si rivelarono entrambe clamorosamente sbagliate. Ed entrambi, poco alla volta, se ne resero conto, perché, nel frattempo, tutti e due, sentendosi compresi da coloro (i mediatori) che li avevano ascoltati senza giudicarli, erano riusciti, a loro volta, a sentire e riconoscere l’umanità dell’altro. Si credettero, perché, pur essendosi già ripetutamente incontrati in passato, si guardarono davvero per la prima volta, e cadde loro dagli occhi lo spesso e scuro velo dell’odio. Per ciascuno dei due l’altro, infatti, non era più un nemico. Così, entrambi si tennero reciprocamente la porta aperta ai fini dell’accesso ad un’altra verità. Si dissero frasi come: “non sono più così sicuro che tu sia colpevole, ma sento che stai malissimo”, “sebbene sia stato dichiarato innocente, ancora non so se ho fatto davvero di tutto per evitare la morte del tuo caro ed è per questo senso di colpa che non sono venuto al funerale”.
Henry Wadsworth Longfellow disse: “Se potessimo leggere la storia segreta dei nostri nemici, noi troveremmo nella vita di ciascuno dispiaceri e sofferenze tali da disarmare tutta la nostra ostilità”. Questo fu ciò che avvenne tra quei due uomini. Certo non tutto il dolore fu superato, ma ad essi fu possibile piangere insieme la persona che non c’era più.
Razionalmente sarebbe facile osservare che, in fondo, questa capacità dell’essere umano si declina quotidianamente ed è ciò che ha fatto sì che, pur con tutti i nostri difetti e pulsioni distruttive, non ci siamo ancora massacrati tutti vicendevolmente.
In fondo, tornando al genere western da cui si è partiti, vi è una battuta pronunciata in un altro cult del filone, L’occhio caldo del cielo (The Last Sunset), di poco successivo al titolo menzionato all’inizio del post (è del 1961): “non si può continuare ad odiare a morte un uomo dopo averlo conosciuto”. A pronunciarla è lo sceriffo Stribling, interpretato da Rock Hudson, che accanitamente aveva inseguito l’omicida O’Malley (Kirk Douglas) per consegnarlo alla giustizia affinché non potesse “mai più fare del male ad una donna”. Lo riteneva colpevole della morte della sorella. Infatti, O’Malley era stato accusato di avere ucciso in un duello scorretto il marito di una donna che aveva sedotto, con ciò, secondo Stribling, cognato di quell’uomo, provocando anche la morte della moglie, “suicidatasi per amore”.
Non è peregrino osservare che il regista Robert Aldrich anche in altri celebri film si era soffermato sui temi del conflitto interpersonale e delle pulsioni distruttive (Che fine ha fatto Baby Jane, Piano piano, dolce Carlotta, ad esempio) e che la sceneggiatura era di Dalton Trumbo, il più celebrato e pagato sceneggiatore hollywoodiano fino alla metà degli anni ’40, poi inserito sulla lista nera di McCarthy per le sue pregresse simpatie comuniste: aveva provato sulla propria pelle, finendo anche in carcere, quanto l’escalation conflittuale in politica può indurre la gran parte di una comunità a sviluppare un odio e una paranoia persecutoria di portata così distruttiva da fare scempio anche dei valori che si vorrebbero difendere proprio attraverso le persecuzioni (si ricorderà che in quegli anni circa il 71% degli americani era favorevole a programmi di schedatura dei comunisti e ad altri provvedimenti ancora più drasticamente antidemocratici, tanto profondi e diffusi erano la paura e la rabbia per il “pericolo rosso”).
Tornando ai recenti fatti citati in apertura, non stupisce più di tanto quindi che, anche quando interviene un fatto (un provvedimento dell’autorità giudiziaria, ad esempio) che disconferma la visone negativa che si era formata e veicolata sui media di questo o di quell’avversario politico, a tale fatto non si presti la minima attenzione. E allorché proprio non si può evitare di farlo, spesso si proporre una frettolosa ammissione di errore, corredata subito, però, da nuove inappellabili condanne nei confronti di altri atti compiuti dal nemico. Perché, in fondo, si sa che il nemico ha sempre torto, anche quando, per caso o per sbaglio, ha ragione.
Se questo aspetto intrinseco alla dinamica conflittuale è di difficile, ma non impossibile, gestione nei rapporti tra esponenti politici (come sostenuto in un articolo sul blog dedicato agli spunti teorici), che non raramente hanno atteggiamenti programmaticamente strumentali, presi come sono dalla logica competitiva, non si dovrebbe trascurare però la possibilità che noi, cittadini comuni, si possa ogni tanto prendere fiato, contare fino a dieci e dirci: “Oggi faccio qualcosa di nuovo: parto dalla presunzione di buona fede nell’ascoltare gli argomenti della parte politica che non mi piace”.
Chissà, forse potremmo scoprire di aver avuto effettivamente ragione a pensare male e, in un certo senso di non aver fatto neanche peccato, oppure potremmo realizzare che, per fare un ultima citazione western – da Nessuna pietà per Ulzana (Ulzana’s Raid), cioè ancora un film di Robert Aldrich, ma più tardo, cioè del ’72 e a pronunciarla è Burt Lancaster – “la ragione non è mai tutta da una parte sola”.
Alberto Quattrocolo
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