La strage nazifascista al Passo del Turchino
In diciassette erano scampati alla strage della Benedicta (alla quale su questa rubrica, Corsi e Ricorsi di Me.Dia.Re. abbiamo dedicato un post). Finiti in prigione furono tra coloro che vennero prelevati dal carcere genovese di Marassi, caricati su dei camion e portati, oltre il passo del Turchino, giù per un paio di km nei prati del Bric Busa.
Erano le prime ore del mattino del 19 maggio del 1944. L’Italia del Nord era sotto il dominio della Repubblica Sociale Italiana ed occupata dalle truppe del Terzo Reich. A lottare contro i fascisti italiani e contro i tedeschi c’erano i partigiani.
Qualche giorno prima di quel 19 maggio ’44, vale a dire il 15, alle sette di sera uno di loro travestito da tenente tedesco era entrato nel cinema Odeon di Genova, requisito dal comando tedesco per essere destinato all’uso esclusivo dei soldati tedeschi. Il partigiano riuscì ad uccidere quattro marinai tedeschi e e a ferirne altri 16.
La rappresaglia terroristica fatta dai nazifascisti superò il rapporto di 10 a 1 previsto dal bando di Kesselring, già messo in atto nell’eccidio delle Fosse Ardeatine. Infatti, oltre ai diciasette di cui si è fatto cenno, altri quarantadue antifascisti furono prelevati dal carcere di Marassi. Cinquantanove in tutto. Di cui molti sotto i vent’anni.
Quel mattino del 19 maggio del 1944 furono spinti a gruppi di sei su delle tavole, allungate su una grande fossa, che il giorno prima un gruppo di ebrei era stato costretto a scavare, in modo tale che ognuno dei destinati all’esecuzione, prima di cadervi dentro dopo la scarica di mitra, potesse vedere i cadaveri dei suoi compagni.
Per la strage del Turchino, come per quella della Benedicta e per quelli di Portofino e di Cravasco, in cui i nazifascisti trucidarono complessivamente 246 persone, Siegfried Engel, capo delle SS a Genova, conosciuto come il «boia di Genova», fu condannato all’ergastolo in Italia, soltanto, nel 1999. Però, non scontò mai la pena in quanto la prassi diplomatica tedesca non accettava l’estradizione. Nel 2002, novantatreenne, Engel venne stato processato ad Amburgo, dove venne condannato a sette anni di reclusione per crimini di guerra. Non li scontò per via dell’età avanzata. Morì nel 2006, a 97 anni, senza aver fatto un giorno di carcere.
Quanto osservato a proposito della Benedicta vale anche per questa strage del passo del Turchino e per le tante altre commesse da fascisti e nazisti.
«Questa paradossale dilazione temporale, connessa a ragioni di politica internazionale e interna, ha inciso pesantemente sulla possibilità di pervenire a una più chiara disamina dell’occupazione tedesca e dei rapporti tra le sue strutture di comando e la RSI, e ha contribuito alla creazione di meccanismi degenerativi di rimozione o falsificazione della memoria, in gran parte impedendo l’operazione “pedagogica” consistente nell’evidenziazione degli orrori del nazifascismo attraverso le ricostruzioni processuali, e soprattutto mediante le narrazioni, in sede dibattimentale, dei testimoni, vittime di tali orrori.
La mancanza di un processo unitario per le stragi nazifasciste ha comportato la dispersione dell’attenzione processuale nei rivoli rappresentati da vicende giudiziarie slegate fra loro, frammentate nel tempo e nello spazio: mancò una visione d’insieme e uno sforzo interpretativo volto a dar conto in una chiave complessiva dell’intero fenomeno. Eppure, già all’epoca, da parte degli Alleati fu osservato che i vari eccidi perpetrati nella nostra penisola apparivano non già frutto di ideazioni fra loro slegate, né conseguenza di ordini provenienti da comandanti sadici o crudeli, ma erano invece riconducibili entro lo schema unitario della “machinery of reprisals” (rappresaglia), al fine di terrorizzare le popolazioni civili e indurle ad abbandonare ogni collaborazione con il movimento resistenziale.
[…] nella magistratura ordinaria o militare mancò qualsiasi segnale di “rottura” al momento del passaggio dal precedente regime al nuovo ordinamento costituzionale, e “l’amministrazione della giustizia si trovò ad affrontare i temi cruciali connessi alle immani e tragiche vicende del conflitto mondiale, della guerra civile […] e del crollo del regime in un contesto di sostanziale continuità con l’ordinamento giudiziario, le prassi di gestione e gli atteggiamenti culturali ereditati dal regime fascista”.
Paradossalmente, i processi celebrati dalla magistratura ordinaria nell’immediato dopoguerra a carico dei criminali nazifascisti risultarono di gran lunga inferiori rispetto a quelli concernenti i presunti illeciti commessi dai partigiani durante la lotta resistenziale.
Nel 1960 la Procura Generale presso il Tribunale Supremo Militare, al fine di dare una parvenza di legalità a una situazione di assoluto stallo investigativo, adottò provvedimenti abnormi di “archiviazione provvisoria”.
Tutti gli incartamenti relativi alle stragi naziste perpetrate nel nostro Paese vennero poi rinvenuti nel 1994 nel cosiddetto “armadio della vergogna”, posto in una stanza da anni vuota e inutilizzata, e le cui ante, quasi simbolicamente, erano rivolte contro il muro.
La mancata celebrazione di processi a carico dei criminali nazisti ebbe un ulteriore effetto perverso, in quanto contribuì a determinare nell’opinione pubblica il convincimento che in guerra ogni comportamento posto in essere dal nemico possa considerarsi pienamente legittimo e che le stragi dei civili costituiscano un portato inevitabile del conflitto, sottratto all’area di competenza della giustizia.
D’altro canto i parenti delle vittime, constatando che l’apparato giudiziario non si indirizzava contro gli autori delle stragi, spesso finirono per ritenere che la responsabilità degli eccidi dovesse essere sostanzialmente attribuita a coloro che, con le loro azioni di guerriglia, avevano determinato tali cruenti reazioni. In altre parole, come scrisse lo storico Giovanni Contini, poiché “quasi mai si erano processati e condannati i colpevoli, i superstiti furono incapaci di dimenticare, obbligati a ripensare ancora e ancora le azioni passate […] per comprendere perché la strage fosse avvenuta; crebbe così un racconto incessante, fatto di lunghe catene causali che venivano reiteratamente raccontate, con il quale si cercava di identificare il senso di quegli eventi terribili e che spesso individuò il colpevole, un capro espiatorio trovato di norma all’interno della comunità stessa. E non c’è dubbio che i partigiani, per colpire i quali spesso le stragi erano state compiute, si prestassero molto bene ad incarnare quel ruolo.”» (Silvia Boverini, La strage nazifascista della Benedicta, https://www.me-dia-re.it/la-strage-nazifascista-della-benedicta/)
Alberto Quattrocolo
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