La “modestia” del mediatore e la sua formazione
Perché si dovrebbero tirare in ballo la modestia del mediatore e la sua formazione in un post di questa rubrica?
La modestia del mediatore come atteggiamento in sede operativa
Vi sono un paio di risorse che il mediatore dei conflitti (quindi il mediatore familiare, il mediatore penale, il mediatore civile e commerciale di cui al D.lgs. 21/2010, nonché coloro che operano come mediatori in altri ambiti, quali quello sanitario, quello organizzativo-lavorativo, ecc.) dovrebbe avere ed esercitare: la prima – la più ovvia – è quella di sapere ascoltare; la seconda, connessa alla prima, è la “modestia”.
Con tale termine – modestia – non si intende un tratto caratteriale o una qualità morale, ma un atteggiamento connaturato alla peculiarità della posizione di chi si presenta come terzo neutrale e privo di potere tra gli attori del conflitto.
Il mediatore, infatti, è co-protagonista – cioè deuteragonista o tritagonista, a seconda dei casi -, in quanto incontra un altro essere umano e condivide con questi la scena dell’incontro (ed è, ovviamente, protagonista dell’esperienza dal proprio punto di vista), ma deve (dovrebbe) tendere a proporsi come lo sfondo da cui far emergere e risaltare con la massima nitidezza possibile la figura del mediante o dei medianti.
Il mediatore sullo sfondo
Non si tratta di un compito facile. Proporsi come sfondo, significa riuscire contemporaneamente ad essere presenti e a mettersi da parte [1]. Si tratta di dar vita ad un equilibrio instabile, tanto delicato quanto difficile, poiché implica trovarsi per tutto il tempo dell’incontro nella posizione di chi segue la narrazione altrui, e in un certo senso la rivive, ma senza potere intervenire su di essa. Il mediatore si pone accanto al mediante o ai medianti, assiste al prodursi, o riprodursi, concreto e drammatico del conflitto, si lascia condurre nel conflitto, cioè nelle sue valenze emotive e affettive, però, ne resta spettatore neutrale. Uno spettatore sui generis, poiché, in realtà, egli c’è e comunica la sua presenza testimoniando le sue sensazioni. Le sue sensazioni, tuttavia, non sono le “sue”: sono i vissuti che egli avverte nei medianti. Soltanto questo è quanto egli testimonia ai protagonisti. Le emozioni “veramente sue”, i suoi sentimenti e le sue opinioni, non possono essere comunicate alle parti. Le deve silenziare. Diversamente non potrebbe porsi come facilitatore di racconti e confronti i cui narratori e protagonisti sono altri.
La modestia del mediatore come sapere di non sapere
La modestia, quindi, intesa in senso lato (o vago), c’entra. E c’entra anche perché il mediatore deve avere quel minimo d’umiltà – e di prudenza – necessaria a ricordare costantemente che le sue parole – ad esempio, quelle usate nel suo specchiare le emozioni e i sentimenti altrui – non sono mai “vere”. Egli dice, non dichiara, poiché, in fondo, il suo rispecchiare resta una testimonianza che egli propone di quanto ricevuto dall’altro in se stesso. Di ciò che avverte dell’altro, dunque, ma sempre dentro di sé. Occorre, pertanto, che abbia quel tanto di modestia sufficiente a rammentarsi che, come quella presentata da ogni testimone, la sua è una verità squisitamente soggettiva. In quanto tale, dunque, suscettibile di contraddizione.
Quel vedere l’altro che significa entrare dentro di sé
Inoltre, dovrebbe rendersi conto che in questo testimoniare egli espone se stesso. Si affaccia sulla scena ed è più o meno nudo agli occhi del mediante. Quest’ultimo per lo più è troppo preso dai propri guai e tormenti per soffermarsi su tale nudità. Tuttavia, nel corso d’incontri in cui il mediatore invariabilmente ascolta narrazioni nelle quali è facile ritrovare pezzi di sé ed echi della propria storia, questo presentare la propria sensibilità, attraverso l’ascolto empatico, costituisce inevitabilmente l’apertura di una finestra sul proprio mondo interiore. Una finestra attraverso la quale il mediante non ha normalmente il tempo di guardare, ma il mediatore, contestualmente e/o successivamente, sì. Non sarebbe male, perciò, se quella visione fugace che egli ha durante l’incontro con il mediante, fosse non troppo sorprendente per lui. Il rischio, infatti, è che un eventuale, repentino, spiazzamento lo induca a soffermarsi su di sé, su tale panorama interiore, o lo porti a chiudere repentinamente le imposte e magari anche gli occhi e le orecchie, allontanandolo, in entrambi i casi, emotivamente e cognitivamente dall’altro.
Sembra opportuno, allora, che il mediatore abbia trascorso un po’ di tempo in compagnia di se stesso e abbia raggiunto una certa familiarità con le sue parti. Non tutte, per carità. Alcune sì, però. Quel tanto che basta per non fare sistematicamente confusione tra gli elementi propri e altrui.
La formazione sul piano emotivo
Per queste ragioni, nel corso della formazione, sono (dovrebbero essere) così numerose le attività in cui si chiede ai partecipanti di riconoscere le emozioni e i sentimenti percepiti nell’altro e di distinguerli da quelli avvertiti dentro di sé. Accorgersi di ciò che si pensa e si prova e “dimenticarsene” in ogni istante per consentire al protagonista di emergere come figura tendente alla nitidezza e alla pienezza, presuppone il possesso di una certa dimestichezza con la propria, sempre limitata, capacità di sostenere il dolore, l’angoscia e la rabbia altrui e di sospendere il giudizio.
Sperimentarsi, nella formazione, come mediatori è utile e necessario, ma farlo come protagonisti del conflitto è illuminante, oltre che prezioso.
Una buona palestra per l’acquisizione e l’affinamento di queste competenze, credo, sono le situazioni (ad esempio, in ambito formativo) in cui il mediatore assume la posizione di attore del conflitto. Riflettere su queste esperienze, sui vissuti che ne derivano, sui comportamenti che pone in atto e che registra presso il proprio antagonista, costituisce un’occasione per incrementare la duttilità e la solidità delle proprie competenze di mediatore, per rivedere criticamente le prestazioni compiute e sottoporre ad una qualche verifica la propria teoria del conflitto.
Alberto Quattrcolo
Rielaborazione da A. Quattrocolo (2005) La mediazione trasformativa. Un modo d’intendere e di praticare la mediazione dei conflitti. Quaderni di Mediazione, n1. settembre 2005, Punto di Fuga Editore, pp29-37.
[1] Che il mediatore debba porsi come sfondo lo si è già sostenuto in un altro post di questa rubrica.
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