La mediazione familiare non fa il processo ai genitori in conflitto
Senza tanti giri di parole, è opportuno rammentare che la mediazione familiare nasce come forma di “supporto” ai genitori, anche, se non in primo luogo, per aiutarli a tutelare i loro figli dagli effetti del loro conflitto.
La conflittualità, specie quando è esasperata, può prendere la mano ai genitori e diventare una fonte di forte sofferenza per il figlio. Ad esempio, nelle situazioni in cui i genitori non riescono a fargli sentire che le incomprensioni e i conflitti che riguardano il loro rapporto di coppia sono “un problema loro”.
Il bambino nelle situazioni conflittuali più esacerbate arriva a sentirsi non soltanto smarrito e solo, ma, a volte, anche lacerato da, anche inconsapevoli, richieste di alleanza. Richieste che dentro di lui sono incompatibili con la sua rappresentazione di mamma e papà e del suo sentimento di lealtà verso ciascuno dei due. Coinvolto dentro un conflitto che non è il suo, spesso finisce per sentirsene responsabile. E, se uno dei due genitori se ne va di casa, può temere che anche l’altro genitore lo abbandoni. D’altra parte, la rottura stessa delle routine domestiche può costituire un fattore destabilizzante.
La mediazione familiare – che, è bene precisarlo, non può essere proposta nelle situazioni di violenza [1] – sorge per tentare di contenere e regolare queste situazioni, adottando una tipologia di intervento che, in alternativa al processo di delega delle decisioni sulle questioni controverse (affettive, economiche…) ad un soggetto terzo, in nome del principio di autodeterminazione, ne ri-attribuisce la competenza e la responsabilità ai diretti interessati. Sia chiaro, però che la mediazione familiare non dovrebbe mettere sul banco degli imputati i genitori per il dolore che il loro conflitto genera nel bambino: in fondo, la ragion d’essere della mediazione non è soltanto quella di ridurre il numero delle vittime di un conflitto e i danni da esse patiti, ma è anche quella di porsi accanto a degli adulti che vivono un’esperienza conflittuale – generalmente dolorosa, complessa e tormentata -, in termini di accompagnamento e aiuto, con approccio a-valutativo.
La duplice premessa della mediazione (non soltanto di quella familiare), infatti, è che il conflitto è un fatto naturale, di per sé né positivo né negativo, e che il mediatore non è un giudice.
Pertanto, il mediatore non dovrebbe relazionarsi con i coniugi come un giudice del loro conflitto, né come un soggetto investito della funzione di combattere questo loro conflitto.
Del resto, se ciò accadesse, verosimilmente la mediazione produrrebbe un ulteriore conflitto: quello tra il mediatore e i suoi clienti/utenti.
Alberto Quattrocolo
Tratto dall’intervento di A. Quattrocolo nell’Open Day della XVI edizione dei Corsi di Mediazione Familiare e di Mediazione Penale, Sanitaria e Lavorativa
[1] Naturalmente ciò pone non pochi problemi in capo al mediatore. Infatti, certamente non sta a lui indagare formalmente né certificare la presenza della violenza, ma egli dovrebbe svolgere la sua attività in modo tale da ridurre al minimo il rischio che, ove tale situazione vi sia, egli ne resti del tutto ignaro e che, perciò, il suo operato si riveli accrescitivo delle dinamiche (anche, ma non solo, relazionali) che permettono l’esercizio della violenza, nelle sue varie forme, tra le mura domestiche. Qui ci si limita ad accennare che è anche in considerazione di tale aspetto che Me.Dia.Re. prevede che il percorso di mediazione inizi con dei colloqui separati con i membri della coppia, che vi sia, nell’ambito di tali colloqui, una riflessione attenta con le singole parti sulla loro volontà di incontrarsi successivamente al tavolo della mediazione e che vi siano ulteriori colloqui individuali tra un incontro di mediazione e l’altro.
Ritengo opportuno che il mediatore che venga a conoscenza di fatti di violenza documenti di ogni genere non si barrichi dietro il silenzio e riservatezza ma sia spettatore attivo. Testimone di una violenza