La caccia alle streghe
“La caccia alle streghe è la ricerca di persone o di prove di stregoneria, spesso legate a superstizione o isteria di massa.
Storicamente in Europa e in America riguarda il periodo che va dal 1450 al 1750 e comprende l’era della Riforma protestante, della Controriforma e della Guerra dei trent’anni. ( …) Metaforicamente con caccia alle streghe si intende un’indagine pubblica condotta per scoprire supposte attività sovversive.” (Fonte:Wikipedia) [1].
In questi giorni difficili, nei quali sono state modificate le nostre abitudini quotidiane, ci è stato proibito il contatto umano, giorni nei quali l’unico modo per esternare il nostro disappunto, il nostro malessere, la nostra frustrazione, è l’utilizzo dei social, si osserva il ritorno prepotente del fenomeno che ho citato sopra e dal quale ho preso spunto per scrivere queste mie riflessioni, ossia il ritorno della Caccia alle streghe.
Ma chi sono queste streghe e chi sono i cacciatori?
Potenzialmente lo siamo tutti, perché, a mio avviso, sono due ruoli intercambiabili, in base alla posizione che ci troviamo ad occupare in un determinato momento e in uno specifico contesto.
Provo a spiegare meglio la mia osservazione.
Non più tardi di ieri, girovagando, senza meta precisa, su facebook, mi sono imbattuta in lungo post, nel quale l’autore descriveva, con minuzia di particolari, una scena che aveva visto dal balcone di casa, casa dove lo scrivente riteneva di essere “recluso”, poiché ligio alle regole imposte dall’ordinanza nazionale, mentre le persone che stava osservando se ne andavano, tranquillamente, a zonzo, noncuranti dei divieti, fatto poi salvo scoprire che questi ultimi erano in giro per motivi di necessità.
Bene, direte voi, favola a lieto fine …
No, dico io, non proprio.
Il “cacciatore di streghe” in questione non si è accontentato della spiegazione che “le streghe” gli hanno fornito (ebbene sì, le streghe si sono sentite in dovere di giustificare il loro pellegrinaggio sotto casa del cacciatore, poiché intimoriti dallo sguardo inquisitore di quest’ultimo!), ma ha messo il “carico da novanta” contestando il fatto che fossero in numero esagerato (due genitori ed un figlio piccolo) rispetto alla “comprovata necessità” che stavano andando ad espletare.
Questa è solo una delle tante cose che sto leggendo in questi giorni, giorni dove la “reclusione forzata” incomincia a farsi sentire e dove il bisogno di tacciare l’altro di qualcosa, sta diventando abbastanza comune e non controllabile.
L’ho portato ad esempio, perché mi è balzato agli occhi, come in un attimo, si possa diventare (magari inconsapevolmente) giudici supremi, dove, in momenti di crisi come quello che stiamo vivendo, il nostro ruolo di cittadini, che hanno come “unico” compito quello di attenersi alle regole dettate dallo Stato, si sovverta e diventi quello di “poliziotto di quartiere” pronto a bacchettare il prossimo che non rispetta, a differenza sua, le regole.
Quello che mi sto chiedendo da giorni è: spetta davvero a noi quel ruolo?
Siamo davvero sicuri di poterci fregiare del marchio di “cacciatore” senza pensare che potremmo essere noi, a nostra volta, le streghe, cioè i cacciati?
Io stessa, nel momento in cui sto scrivendo queste righe, non starò, a mia volta, assumendo il ruolo di cacciatrice di streghe , verso coloro che cercano le loro streghe da cacciare?
Tutte domande, queste, che mi riportano con prepotenza al mio lavoro di mediatrice di conflitti.
A tal proposito, facciamo un passo indietro e andiamo a vedere cosa succede se proviamo a fare un parallelismo con quelle che sono le dinamiche che, noi mediatori, vediamo nei percorsi di ascolto e mediazione dei conflitti.
Il confliggente, la maggior parte delle volte, vede nell’altro il nemico, colui che gli sta rovinando la vita, la persona che sta dall’altra parte della barricata, il nemico da battere appunto e, in quanto tale, non degno di umana pietas, di essere accolto nei suoi bisogni e, tanto meno, di essere capito.
Ed è, esattamente, quello che emerge dai post come quello sopracitato, dove l’altro diventa, necessariamente, un nemico pericoloso, colui che, non attenendosi alle regole, diventa diverso da noi (che siamo, invece, ligi al dovere) e, pertanto, potenzialmente pericoloso per gli altri perché ipotetico “untore”.
Anche durante gli ascolti dell’utente, nei percorsi di mediazione dei conflitti, si attuano vere e proprie “caccia alle streghe”, la persona che sta dall’altra parte del conflitto, viene spersonalizzata e non viene vista come essere umano con bisogni, esigenze e sentimenti, ma come “la cosa” che mette in pericolo la nostra incolumità psico-fisica, che disallinea il nostro equilibrio e che, quindi, va fermata ad ogni costo.
Il compito del mediatore è proprio quello di provare, attraverso l’ascolto empatico e non giudicante, ad accogliere e rispecchiare i sentimenti che vengono portati, così da permettere a chi li prova di “vederli” attraverso un terzo(il professionista, per l’appunto), con l’auspicabile speranza che egli possa riconoscere l’altro come simile a se e non come soggetto deumanizzato.
Ma da dove passa il riconoscimento dell’altro?
Passa, anche, attraverso il dialogo ed è proprio uno dei compiti del mediatore quello di provare a creare un ponte di congiunzione tra i confliggenti che non si parlano più o se lo fanno, di sicuro, non si capiscono perché non si stanno ascoltando, aiutandoli a riaprire la comunicazione; esattamente come sta succedendo in questo momento storico, che definirei apocalittico, nel quale, troppo spesso, leggiamo, sentiamo, guardiamo quello che l’altro sta facendo, ma non lo capiamo, non lo ascoltiamo non lo vediamo e lo percepiamo non per quello che è realmente, ma per quello che ci fa più comodo che sia.
Forse, traendo spunto dall’insegnamento che la mediazione dei conflitti ci può offrire, quello che mi sento di suggerire (a me stessa, in primis, come umana) è di provare a rispecchiarci nell’altro, sospendendo il giudizio e provando ad ascoltarlo come persona e non come “elemento di disturbo o pericolo”.
Per concludere, mi sovviene alla mente una famosa canzone di Umberto Tozzi e di Raf del 1991 “Gli altri siamo noi” e, considerando il comune sentore di questo periodo, mi sono permessa di cambiarne il titolo:
“Gli altri siamo noi, sì, ma loro un po’ meno…”
Daniela Meistro Prandi
[1] Sulla caccia alle streghe, soprattutto ma non solo su quella scatenatasi negli USA dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, sono stati pubblicati molti post su questo sito, in particolare nelle rubriche Corsi e Ricorsi e Politica e Conflitto. In particolare: Quei Rosenberg fatti sedere sulla sedia elettrica per niente; A cavallo della paranoia; La fine della caccia alle streghe moderna: il maccartismo; L’8 novembre la fiaccola passò a John Kennedy, «un idealista senza illusioni»; Robert Kennedy: «Non abbiamo bisogno di odio»; La guerra in casa dei cambogiani e degli americani. Diversi post, parlando di singole personalità cinematografiche o di particolari film, hanno proposto dei contenuti sulle logiche e sulle ricadute della caccia alle streghe nella principale industria culturale e di intrattenimento, il cinema: L’umanità di Spencer Tracy, il fascismo e l’America First; La vita spericolata di Sterling Hayden; John Garfield “eroe proletario” distrutto dalla paranoia dominante.; Con te, Marlene Dietrich; Richard Widmark, il cattivo “buonista” di Hollywood; Paul Newman, un uomo oggi; John Wayne, il divo più amato e odiato di tutti i tempi; Quel volto nella folla che rispecchia un’orribile realtà; La caccia ai capri espiatori; Ricordando Sal Mineo: lassù qualcuno lo ama. Inoltre il tema è emerso, sempre nei post di Corsi e Ricorsi, nei post Darwin e la libertà d’insegnamento e 23 agosto 1927: esecuzione di Sacco e Vanzetti. Su Politica e Conflitto se ne fa cenno nel post “L’ascolto politico” come possibile ponte tra la testa e la pancia dei cittadini e della politica.
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