La caccia ai capri espiatori
La caccia (di Arthur Penn) uscì nelle sale cinematografiche americane il 17 febbraio del 1966 e in quelle italiane il 21 settembre di quell’anno. Non ebbe un successo proporzionato ai suoi meriti artistici e ai suoi costi di produzione [1]. Divenne un cult, sì, ma un “cult maledetto”. Infatti, a cinquantacinque anni di distanza quel film non ha perso un grammo del suo peso di opera scomoda. Continua ad essere lo specchio di qualcosa di orribilmente vero non soltanto negli USA, e in particolare negli Stati del Sud, ma in tutto quello che normalmente viene chiamato l’Occidente. Italia inclusa. Anzi, oggi, Italia più che mai.
Tre capri espiatori perfetti cui dare la caccia
Il film di Arthur Penn è suscettibile di essere guardato con molteplici chiavi di lettura. Una di quelle più immediate riguarda il tema del capro espiatorio. Il capro espiatorio cui gli abitanti di Tarl, una piccola città del Texas, danno la caccia è indubbiamente il giovane evaso Bubber Reeves (Robert Redford). Ma altri due capri espiatori emergono nello sviluppo della vicenda e finiscono in qualche modo sacrificati.
La caccia inizia, in effetti, con la fuga di Bubber Reeves dal carcere – insieme ad un compagno, che uccide un automobilista e poi si dilegua. Ma nel corso del film scopriamo che la sua carriera di deviante dentro e fuori gli istituti di pena è iniziata con un errore giudiziario. Nessuno, allora, credette alla sua innocenza neppure sua madre [2]. Non era stato lui a commettere il furto che lo spedì in riformatorio, ma un suo compagno, Edwin (interpretato da Robert Duvall).
Bubber Reeves, colui che fa paura a chi la ha coscienza sporca
Costui, un dipendente di Val Rogers, il petroliere, magante e sovrano di fatto della regione, è tormentato dal timore che Bubber possa avere intenzioni vendicative. Come lui lo è il suo datore di lavoro. Val Rogers, infatti, ha imposto al suo unico figlio Jack (James Fox) di sposarsi con una ragazza della sua stessa classe, ma il giovane gli ha obbedito solo in apparenza, continuando ad amare e frequentare la ragazza della quale da sempre è innamorato, Anna (Jane Fonda). E suo padre, sapendolo, ne è atterrito, dato che Anna tempo prima aveva sposato il loro comune amico d’infanzia, Bubber. Questi, in realtà, non ha alcuna intenzione di tornare a regolare i conti con Edwin o con Jake Rogers. Se Val o Edwin si fossero presi la briga di parlarci e di ascoltarlo, senza essere condizionati dai loro programmi o dai loro timori, saprebbero che ben diverse sono le sue intenzioni [3].
Jack Rogers, colui che arrivando a pensare con la propria testa si espone ad un rischio mortale
Jack Rogers, ad esempio, che, invece, lo conosce non ha alcuna reale paura di Bubber. Come non ce l’ha Anna. Non solo perché un tempo Jack e Bubber erano amici, ma perché il primo conosce la natura non violenta e non vendicativa del secondo. La venuta di Bubber, anzi, aiuta Jack a fare davvero i conti con se stesso, con il profondo sentimento che lo lega ad Anna e con le scelte comode di conservazione dei privilegi, ma disastrose sul piano affettivo ed esistenziale, che ha compiuto fino ad allora. Inoltre, fa i conti con la propria soggezione ai voleri del padre e con la mancanza di dialogo vero nella relazione con lui. La sua sensibilità lo porta anche ad accettare il legame di profondo affetto che lega Anna a Bubber e a non cadere preda di quella gelosia nutrita da chi vede nel partner un oggetto da possedere, anziché un soggetto con cui rapportarsi paritariamente [4]. La sensibilità di Jack, quindi, gli fa prevenire il rischio di cercare all’esterno un nemico da incolpare per i propri fallimenti [5]. Ma inevitabilmente la sua consapevolezza finisce con l’isolarlo dai suoi simili (l’upperclass locale, in primis, ma anche gli altri abitanti di Tarl). Capaci solo di guardare alle persone per come appaiono o per quello che, in termini di denaro e potere, possiedono, essi vedono in Jack null’altro che un privilegiato viziato, che se la spassa con la moglie di un evaso [6].
Calder, ovvero il rappresentante istituzionale odiato per la sua intelligenza e la sua non furbizia
Il terzo outcast è lo sceriffo Calder (Marlon Brando). È l’uomo nel mezzo. Il rappresentante della legge, il garante istituzionale della pace sociale, che si sforza di tutelare la sicurezza individuale e collettiva con buon senso, umanità e onestà. E perciò sta sul gozzo agli abitanti di Tarl. Opportunisti e frustrati, ignoranti e intolleranti, quali sono, lo odiano perché in lui vedono un alieno. La sua intelligenza e il suo equilibrio, non avendo alcuna parentela con la loro furbizia, sono mal tollerati da tutti. Perché lo portano a rifiutare le loro richieste di favoritismi e i loro piccoli tentativi di manipolarlo e corromperlo, a contrastare il loro razzismo brutale e a svelare il loro perbenismo di facciata. È divenuto sceriffo di Tarl grazie anche all’appoggio del petroliere Val Rogers, il quale, pur stimandolo, cerca inconsciamente di corromperlo [7]. Calder, invece, si sforza vincolare la propria condotta soltanto alla legge e alla coscienza, respingendo la logica dello scambio sottobanco [8]. Così, profondamente a disagio in mezzo a tanta ignoranza, presunzione e intolleranza, risulta inviso a tutti. Ai ricchi, ai borghesi e ai poveri. Non è uno di noi, pensano i suoi concittadini, che non si fidano di lui e gli sono intimamente ostili. Più che altro temono e odiano ciò che rappresenta: il senso della comunità e il rispetto per l’altro come premessa del rispetto della legge. E, per non fare i conti con la sua onestà, che rispecchia la loro corruzione, si convincono che, in fondo, anche lui, come tutti gli altri, non può che essere un corrotto, cioè una marionetta manovrata dal potente Val Rogers.
Una comunità di forti con i deboli con i forti
La comunità composta dagli abitanti di questa città di provincia, infatti, è popolata in gran parte da gente dalla mentalità chiusa e dall’animo opportunista. Fatti salvi i suddetti capri espiatori, gli altri personaggi rappresentati sono dei moralisti reazionari in pubblico, la cui immoralità è talmente prepotente da esplodere apertamente, senza che neppure se ne preoccupino. Rigidamente aderenti alla netta divisione in classi, la patiscono, ma non si ribellano, né cercano di rimediarvi. Quelli del ceto medio sfogano la frustrazione personale e sociale, umiliando e maltrattando chi si trova ai livelli più bassi. Mentre si limitano a spettegolare su chi sta sopra di loro nella gerarchia sociale. Nell’high society il posto al vertice è occupato dal petroliere Val Rogers (interpretato da E. G. Marshall). Potentissimo, rispettato pubblicamente, detestato e invidiato privatamente tanto dai membri della casta quanto da quelli del ceto medio [9]. Né una figura migliore fanno i poveracci. Come la madre di Bubber: talmente ottusa da non capire che l’unico di cui può fidarsi è proprio lo sceriffo Calder.
Una comunità da incubo
La caccia propone, dunque, una vicenda corale di odio sociale che a mezzo secolo di distanza ci riporta alla nostra attualità. È, quindi, una pellicola scottante e sconvolgente più di quanto potrebbe essere un film a noi contemporaneo. Ci rivela fino a che punto una società può regredire a livelli che, un tempo, avremmo giudicato con il disgusto e il sollievo di chi vive in un altro modo e in un altro mondo. Cioè, di chi non respira un clima sociale in cui tutti sono contro tutti, le relazioni sociali sono all’insegna dello sfruttamento del più debole, nessuno si fida dell’altro e men che meno delle istituzioni, ma tutti sono accomunati da una rabbia violenta. Da una frustrazione che genera prima la caccia e, poi, l’olocausto dei capri espiatori.
Il problema è che le persone intelligenti sono piene di dubbi, mentre quelle stupide sono piene di sicurezze (Charles Bukowski)
I tre capri espiatori citati – Bubber (l’evaso innocente), Jack (il ricco rampollo con un cuore e dei valori che non sapeva di possedere) e Calder (lo sceriffo assennato) -, quindi, sono intrinsecamente estranei, stranieri in patria. E sui tre spicca Calder. Quello più odiato dagli abitanti di Tarl. Perché a coloro che gli ricordano che sono loro «a pagargli lo stipendio» ribatte che la legge non è quella del più forte, né quella della caccia al diverso o del sacrificio rituale. Riflettendo, con la sua razionalità dubbiosa, l’arroganza della follia reazionaria che lo circonda, il suo semplice esistere costituisce una critica per la distorsione dei loro comportamenti e della vacuità delle loro autogiustificazioni.
«Hanno il cervello vuoto e non hanno mai letto un libro»
«Hanno il cervello vuoto e non hanno mai letto un libro», osserva ad un cero punto Calder, parlando con sua moglie Rubie (Angie Dickinson).
È questo un commento quanto mai efficace nel sintetizzare, tanto la sua sensazione di isolamento in una città in cui sembrano tutti impazziti, quanto la sua consapevolezza che una comunità simile può improvvisamente deflagrare nella violenza omicida. Egli riconosce che, quella in cui vive e che deve governare, è una comunità il cui deficit di civiltà nutre sia il razzismo diffuso, sia l’odio e il sospetto verso chiunque rispetti l’umanità altrui e sia altruista. Più e meglio di Jack e di Bubber, che come lui non sono assimilabili in questa città in piena deriva civile, lo sceriffo sa vedere la violenza strisciante e sa prevederne l’esplosione irrazionale. Per questo, il regista dedica tanto spazio alla scena del pestaggio che gli viene inflitto e all’esito che questo ha sulla sua vista. Si cerca non soltanto di punirlo e umiliarlo per la sua sobria rettitudine e di impedirgli di opporsi all’escalation violenta prevista in danno di Bubber e del suo amico nero Lem, ma anche di levargli la sua capacità di vedere e di smascherare.
Il flop economico di La caccia
Il film, pur vantando un cast notevole (Marlon Brando, Jane Fonda, Robert Redford, Angie Dickinson, James Fox, Robert Duvall, E. G. Marshall, Janice Rule, Richard Bradford, Miriam Hopkins, Henry Hull, Jocelyn Brando, Clifton James, Martha Hyer, Bruce Cabot, Steve Ihnat) una fotografia splendida in Cinemascope (di Joseph La Shelle) e pregi registici notevoli, tali da renderlo un potenzialmente redditizio blockbuster sociale all-star, fu invece un tonfo economico. Eppure il produttore era l’esperto e coraggioso Sam Spiegel [10]. Perché il pubblico non corse a vederlo?
Una spiegazione possibile potrebbe essere costituita propria dalla sua natura di commento schietto sul mondo contemporaneo e sulle varie miserie (anche affettive) che lo desertificano. All’epoca, però, la critica francese e quella italiana, a differenza di quella americana, apprezzarono La caccia. Pur non giudicandolo un film perfetto, ne lodarono la forza polemica e la bravura di tutto il cast, Marlon Brando, Jane Fonda, James Fox e Robert Redford in testa.
Chissà se oggi La caccia susciterebbe da noi reazioni simili a quelle della critica americana Pauline Keel, la quale deplorava il suo essere un atto di accusa senza riserve ai bianchi del Sud?
Alberto Quattrocolo
[1] Prodotto da Sam Spiegel, produttore di talento e dal fiuto infallibile, La caccia era, sulla carta, assolutamente in linea con i gusti del pubblico. Scritto a più mani, a partire da un’opera di Horton Foote, era basato su una sceneggiatura cui aveva lavorato per dieci anni Micheal Wilson, sceneggiatore di sinistra finito vittima della “caccia alle streghe” anti-comunista della fine degli anni Quaranta, imprigionato e poi emarginato, ma sostenuto proprio da Spiegel, che gli commissionò la sceneggiatura di Il ponte sul fiume Kway (1957, di David Lean). La caccia era poi stato sceneggiato anche da Lillian Hellman, anch’essa perseguitata dalla Commissione per le attività anti-americane, e dallo stesso Horton Foote. Vantava un cast impressionante, in cui, accanto alla superstar Marlon Brando, figuravano gli emergenti Jane Fonda e Robert Redford, la già affermata e celeberrima Angie Dickinson e uno dei più noti rappresentanti del nuovo cinema inglese, James Fox. E tutti costoro, attentamente diretti da Arthur Penn, fornivano delle interpretazioni notevolissime. Marlon Brando sapeva modulare attentamente le sfumature di un uomo sensibile, dubbioso e introverso, costretto a confrontarsi continuamente con l’arroganza e la violenza e a reprimere il disgusto e la rabbia che quelle gli suscitano. Redford risultava toccante per il modo sobrio in cui rappresentava l’emarginato, braccato, che non sa spiegarsi come la vita lo scaraventi sempre nei guai. Jane Fonda amministrava con molta intelligenza i diversi registri emotivi che delineavano il suo personaggio: rabbia, impotenza, senso di colpa, tenerezza, paura. James Fox riusciva particolarmente credibile nel dare spessore alle ambivalenze di Jack, “il principe ereditario” del “re del petrolio” Val Rogers, che scopre di avere dei valori e degli ideali. Angie Dickinson conferiva uno spessore non scontato al suo personaggio, di moglie dello sceriffo, di cui condivide i principi e alla cui solitudine partecipa con tenerezza riflessiva. E. G. Marshall dava al personaggio del petroliere risvolti umani tali da prevenire il rischio di trasformarlo nella maschera del cattivo. Così come Richard Bradford, Janice Rule e Robert Duvall, nella parte dei borghesi corrotti, sapevano recare ai loro personaggi tocchi di autenticità utili a non far deragliare il film in un’opera a tesi.
[2] Interpretata mirabilmente da Miriam Hopkins, splendida attrice affermatasi negli anni Trenta.
[3] È fuggito, infatti, soltanto perché si è ribellato alle angherie di un guardiano, ma, salito su un treno merci che riteneva sarebbe andato in Messico, scopre troppo tardi che era invece diretto a nord e fatalmente finisce con il fare ritorno nella sua città natale.
[4] Anzi, egli si sente e si dichiara innamorato di Anna proprio per la capacità di amare disinteressatamente e per l’onestà e la schiettezza di cui è dotata.
[5] Lo obbliga, infine, ad agire lealmente, seguendo ciò che detta il sentimento dell’amicizia, anziché perseguire un mero tornaconto personale.
[6] La sua diversità, pertanto, lo candida involontariamente ad essere guardato con sospetto dai suoi concittadini, che nel loro cinismo non possono immaginare che egli sia l’uomo che in realtà è. In parte, tale ottusità avrà esiti nefasti su Jake, trasformandolo in vittima di una violenza bestiale quanto gratuita.
[7] Val Rogers ammira le qualità di Calder vede in lui una sorta di figlio. Ma tanto forte è la sua inclinazione ad usare il denaro e il potere in tutte le relazioni, anche in quelle affettive, da agire in questi termini anche nei confronti dello sceriffo Calder.
[8] Calder è costantemente a cavallo del fossato tra le classi sociali, tentando di non esserne condizionato. Da un lato, deve avere a che fare con le pressioni, amichevoli inizialmente poi via via più dure, di Val Rogers e della sua combriccola. Dall’altro deve vedersela con la palese sfiducia della maggioranza piccolo-borghese. Una maggioranza nutrita di invidia sociale verso i più potenti e di rabbia e disgusto verso i poveracci. In primo luogo, verso la popolazione nera e, poi, verso qualche bianco dropout come Bubber.
[9] È l’uomo ai cui progetti tutti aderiscono, senza neppure comprenderli, ai cui principi e desideri tutti si conformano, ma solo a parole, senza ascoltarlo come essere umano né riconoscerlo come figura autorevole. Così, pronti ad obbedirgli ad ogni suo cenno, in quanto interessati soltanto ai suoi favori, sono proprio i suoi lacchè a inavvertitamente sfuggire al suo controllo, a disobbedirgli, assecondandolo Anzi, nel violento sfogo delle loro frustrazioni, finiscono con l’ammazzargli involontariamente il figlio.
[10] Sam Spiegel, ebreo polacco, rifugiatosi negli USA per sottrarsi alla persecuzione nazista, fin dall’inizio della sua carriera mostrò un talento indiscutibile come produttore di opera controcorrente ma capaci di raggiungere un vasto pubblico, senza farsi condizionare dal crescente anticomunismo dell’epoca. Anzi, fin dall’inizio non esitò a produrre opere di registi finiti nel ciclone dell’isteria crescente (tra questi: Lo straniero, 1946, di Orson Welles che era alquanto inviso alla commissione senatoriale di inchiesta sulle attività dei presunti comunisti; Stanotte sorgerà il sole, 1949, di John Huston, interpretato da John Garfield, che sospettato fin dal ’47 di essere filocomunista morirà d’infarto poco prima di essere interrogato dalla commissione senatoriale; Sciacalli nell’ombra, di Jospeh Losey che fu costretto ad emigrare, prima, in Italia e, poi, in Inghilterra per evitare il carcere in quanto sospetto comunista). Prima de La caccia, Sam Spiegel aveva inanellato una corposa serie di grandissime soddisfazioni, producendo pluripremiati successi mondiali di pubblico e di critica, come La regina d’Africa (1951, di John Huston, un Oscar a Humphrey Bogart come miglior attore), Da qui all’eternità (1953, di Fred Zinneman, 8 Oscar), Fronte del porto (1954, di Elia Kazan, 8 Oscar), Il ponte sul fiume Kway (1957, di David Lean, 7 Oscar), Improvvisamente l’estate scorsa (1959, di Joseph Lee Mankiewicz), Lawrence d’Arabia (1962, di D. Lean, 7 Oscar). Con La caccia, invece, gli andò storto. Per renderlo più “commerciale” Spiegel sottopose la pellicola a numerosi tagli, eliminando alcune parti che riteneva rallentassero troppo il ritmo e dilatassero eccessivamente la durata e che fossero sacrificabili, poiché la loro eliminazione non riduceva la carica drammatica né la vis polemica de La caccia. Fu così eliminata l’ampia descrizione della vita della popolazione afroamericana del Sud degli States, che prevista come “controcanto” alla società bianca. Inoltre venne ridimensionato parecchio pure lo spazio narrativo previsto per diversi personaggi, su tutti quello interpretato da Angie Dickinson.
Fonti
La recente (ri)visione de La Caccia
Fernaldo di Giammatteo, Dizionario del cinema americano, Editori Riuniti, Roma, 1996
Luca Malvasi, Il cinema di Arthur Penn, Le Mani, 2008
Giuliana Muscio, Robert Redford, Gremese Editore, Roma, 1997
www.quinlan.it
Lascia un Commento
Vuoi partecipare alla discussione?Sentitevi liberi di contribuire!