Il prezzo del conflitto: il mediatore familiare e “l’ostinazione” delle parti
Capita di frequente che il mediatore familiare si trovi davanti dei coniugi, che per giustificare il prezzo del conflitto che essi e i loro figli stanno pagando, si richiamano, esplicitamente ed implicitamente, ad alcuni principi (morali, religiosi o etici). E spesso lo fanno per spiegare la fondamentale correttezza e inevitabilità dei loro comportamenti.
Sul piano della relazione in corso in quel momento tra essi e il mediatore, non occorre particolare intuito per supporre che quei genitori, con le loro argomentazioni stiano cercando di ottenere da lui un’approvazione per le proprie azioni e per giustificare il prezzo del conflitto da quelle derivante.
Su un altro piano, però, le cose sono un po’ meno scontate. È il piano delle reazioni emotive, cognitive e comportamentali del mediatore di fronte alla concretezza di quel prezzo del conflitto che i due coniugi e i loro figli stanno sostenendo. Ciò apre, correlativamente, il discorso ai margini di manovra entro cui il mediatore si può muovere.
Prendiamo un caso concreto, gestito in uno dei nostri Servizi di Ascolto e Mediazione dei Conflitti oltre 15 anni fa. Dopo aver svolto dei colloqui individuali (su questa rubrica, Riflessioni, ne abbiamo parlato nel post La mediazione come ascolto e confronto), come previsto dalla metodologia applicata dall’Associazione Me.Dia.Re., entrambi i coniugi, in fase di separazione, avevano espresso l’intenzione di incontrarsi al tavolo della mediazione per confrontarsi sulle loro divergenze radicali.
Il richiamo ai principi, da parte dei coniugi in conflitto, per sostenere la loro condotta e contestare quelle dell’altro
In quella sede uno dei coniugi si impegnava con energia nello spiegare le ragioni della propria condotta severa verso i figli e dell’adozione da parte sua di uno «stile educativo orientato ad una spiccata moderazione nei consumi». Insisteva fermamente sul valore pedagogico del rifiuto di «una mentalità (e di una società) fondata sull’apparire e sull’avere invece che sull’essere». L’altro genitore, che si sentiva attaccato sul piano morale da queste affermazioni, replicò: «non bisogna essere tirchi con i propri figli». E aggiunse: «la difficoltà nel comprare regali e pensierini ai figli, anche al di fuori di feste e compleanni, riflette la difficoltà di dare amore».
Si potrebbe pensare che entrambe le riflessioni in astratto siano valide, purché le condotte ad esse ispirate non sconfinino nell’esagerazione. Il punto è che entrambi i genitori giudicavano la condotta altrui come un’estremizzazione di valori e principi teoricamente condivisibili. E ciascuno dei due rispondeva alle critiche dell’altro con argomentazioni che, a volerle giudicare in un’ottica razionale, sarebbero suonate a dir poco stravaganti.
Non meno bizzarri, però, sono gli innumerevoli esempi della storia anche recente assai di cui sono protagoniste persone delle quali non si è messo in alcun modo in dubbio né l’intelligenza né la capacità di governare i propri sentimenti.
I genitori in conflitto non hanno l’esclusiva dell’irrazionalità del conflitto
Infatti, se si volge lo sguardo ad un panorama più ampio, forse, possono suonare un po’ meno stupefacenti le argomentazioni proposte, con rabbiosa e dolorosa fermezza, da quei due genitori. Entrambi i quali, in definitiva, cercavano di scaricare sulla responsabilità dell’altro l’esorbitante prezzo del conflitto.
In altri termini, se paiono irrazionali i ragionamenti e le prese di posizione conflittuali di quei genitori, occorre anche rammentare che non si tratta di un’irrazionalità di cui hanno l’esclusiva. Pensiamo, infatti, a quanto la logica del conflitto sia capace portare dei governanti, la cui tenuta emotiva non viene messa in forse, ad accettare il rischio di far corrispondere il prezzo del conflitto politico, in cui sono avviluppati, a milioni di persone e ad intere generazioni.
Così, tanto per dire, Zbigniew Brzezinski, consigliere per la Sicurezza Nazionale del presidente Jimmy Carter, in un’intervista del 1998, ammise che era una menzogna la versione ufficiale secondo la quale gli USA avevano fornito aiuti militari all’opposizione afgana soltanto dopo l’invasione sovietica del ’79. Egli spiegò che gli aiuti statunitensi ai fondamentalisti islamici mujaheddin era iniziata sei mesi prima che l’esercito russo si muovesse e aveva proprio lo scopo preciso di favorire una decisione in tal senso da parte dell’URSS. Ebbene, quando a Brzezinski fu chiesto se rimpiangeva tale decisione, egli rispose:
«Rimpiangerla? Quell’operazione segreta fu un’idea eccellente. Ebbe l’effetto di trascinare i russi nella trappola afghana (…) Il giorno in cui i sovietici varcarono ufficialmente il confine scrissi al presidente Carter: “Abbiamo l’opportunità di dare ai russi la loro guerra del Vietnam”. In effetti Mosca ha dovuto portare avanti per quasi dieci anni una guerra che il governo non poteva sostenere, un conflitto che ha portato alla demoralizzazione e finalmente al crollo dell’impero sovietico» [1].
Se è opinabile che vi sia una connessione diretta tra la guerra condotta dai russi in Afghanistan e il crollo dell’URSS, è certo che quella guerra ha avuto dei costi impressionanti: un massacro di enormi proporzioni (oltre un milione di morti, 5 milioni di rifugiati e 3 milioni resi disabili); persone sottoposte a torture spaventose, incluse quelle commesse dai mujaheddin, che gli stessi funzionari americani definirono «orrori indescrivibili»; sofferenze inconcepibili procurate dal regime dei talebani. E sono certe la profondità e la durata delle conseguenze di quella guerra per quasi l’intero pianeta, visto che le rileviamo ancora oggi.
I genitori in conflitto non solo i soli ad anteporre le loro dinamiche conflittuali al benessere delle persone di cui devono prendersi cura
Se è naturale, a proposito della ricaduta negativa delle reciproche contrapposizioni tra i genitori sulla serenità dei figli, porre in luce come sia la loro mutua ostilità a determinare in concreto il prezzo del conflitto gravante sui loro bambini. Pensiamo a quanto accadde durante la trasmissione 60 Minutes del 12 maggio del 1996. In quell’occasione la giornalista Lesley Stahl, in relazione agli effetti delle sanzioni contro il regime di Saddam Hussein, aveva chiesto a Madeleine Albright, all’epoca ambasciatrice degli Stati uniti presso l’ONU, se la popolazione civile non stesse pagando un prezzo troppo alto. Era emerso infatti che quelle misure avevano causato la morte di mezzo milione di bambini iracheni e, quindi, più di quelli uccisi dalla bomba atomica sganciata su Hiroshima. La Albright rispose:
«Penso che sia una scelta molto difficile, ma il prezzo… noi riteniamo che il prezzo sia giusto».
Perché il prezzo del conflitto con Saddam Hussein era ritenuto giusto? Perché, secondo le previsioni, avrebbe consentito di acquisire determinati risultati: isolare politicamente ed economicamente il regime di un dittatore dalle mani fradice di sangue e ridurre la portata del consenso interno alla sua politica.
Le difficoltà del mediatore, consapevole del prezzo del conflitto, rispetto all’ostinazione delle parti
Tornando a quello specifico percorso di mediazione familiare, vale la pena ricordare che, una delle difficoltà incontrate da chi aveva il ruolo di mediare quel conflitto, consisteva proprio nel resistere alla tentazione di cercare di indurre i coniugi a rivedere criticamente il loro comportamento e i ragionamenti che vi erano sottesi. Il farlo, si sapeva, non sarebbe servito a nulla, se non a farli sentire giudicati e a determinare un probabile ulteriore irrigidimento (si veda il post La mediazione familiare non fa il processo ai genitori in conflitto). Il mediatore lo sapeva, ma era troppo forte la pressione, che gli cresceva dentro, di farli ragionare sul costosissimo prezzo del loro conflitto. Cedette. E fallì.
Infatti, nel momento in cui vi fu un, appena percettibile, cedimento da parte del mediatore a questa tentazione, il coniuge cui era indirizzata questa implicita e discreta sollecitazione, in quel contesto, si sentì giudicato. E lo comunicò apertamente. Mentre l’altro coniuge si sentì dapprima spiazzato da un intervento che pareva dargli ragione o almeno supporto argomentativo. Poi, cercò di cavalcare quel vantaggio.
«…è più che probabile che noi ci comportiamo non meno ostinatamente…» (John Locke)
Una riflessione celebre su questo aspetto era stata svolta da John Locke nel “Saggio sull’Intelletto Umano”, pubblicato per la prima volta nel 1690, nel capitolo Sul grado dell’assenso. Ne riportiamo alcuni passi:
« (…) per gli uomini l’abbandonare le loro precedenti opinioni o il rinunciarvi (di fronte ad un argomento cui non possono immediatamente rispondere o di cui non possono dimostrare subito l’insufficienza) porta con sé un’imputazione troppo grave di ignoranza, di leggerezza o di stupidità (…)».
La citazione delle parole di Locke non vale ad esortare a tenersi alla larga dalle discussioni, ma a sottolineare come all’interno di un percorso di mediazione il tentativo di correggere il pensiero altrui comporti la concreta possibilità che l’altro si senta giudicato. E non è una sensazione che favorisce il sorgere di un sentimento di fiducia, né, ancor prima, la sensazione di essere accettati e riconosciuti per come si è, né la disponibilità a mettersi in discussione.
Recuperare la fiducia di quei genitori circa l’imparzialità e l’avalutatività dell’atteggiamento del mediatore (ne abbiamo parlato in questo post) non fu semplicissimo. Dovette “rispecchiare” ad entrambi che si erano sentiti osservati e valutati. Fu soltanto quando tra il mediatore e i coniugi si riparò la fiducia compromessa che quella mediazione riprese a “funzionare”, favorendo in entrambi i genitori la sensazione di essere compresi dal terzo. Ciò permise il prodursi, in entrambi, di un ripensamento autentico delle rigidità della loro contrapposizione e l’assunzione delle responsabilità sul prezzo del conflitto che l’intera famiglia aveva sopportato fino ad allora.
Il mediatore ebbe la conferma che, in fondo, non aveva avuto torto Locke nell’affermare:
«Faremmo bene (…) a non trattar subito gli altri da ostinati e perversi solo per il fatto che non rinunciano alle loro opinioni per accettare le nostre, o almeno quelle che vorremmo imporre loro, quando è più che probabile che noi ci comportiamo non meno ostinatamente nel non accettare alcune delle loro».
Alberto Quattrocolo
[1] Blum W., Con la scusa della libertà, Marco Troppa Editore s.r.l., Milano, 2002
Rielaborazione da:
- Lezione di A. Quattrocolo svolta nelle lezioni della XIII edizione del Corso di Mediazione Penale, Lavorativa e Sanitaria
- Lezione di A. Quattrocolo svolta nella terza lezione della XII edizione del Corso di Mediazione Familiare
Lascia un Commento
Vuoi partecipare alla discussione?Sentitevi liberi di contribuire!