Il Codice Hays e la moralità del cinema hollywoodiano
“Se noi, gente di cinema, aspiriamo ancora al titolo di artista, non dobbiamo mai dimenticare che esso implica il rispetto assoluto di questa regola: non c’è vera moralità che non comporti una resistenza accanita alla tirannia”. (Orson Welles)
Il 31 marzo 1930 fu adottato dagli studios hollywoodiani il cosiddetto Codice Hays, o Production Code, ovvero un complesso di linee guida per un’autoregolamentazione moralmente orientata della produzione cinematografica.
Tra la fine degli anni Venti e l’inizio dei Trenta, Hollywood aveva celebrato con gioia la sessualità liberata, l’emancipazione delle donne, l’essere queer. Era il cosiddetto cinema “Pre-Code”, che raccoglieva l’eredità dei Roaring Twenties, quel periodo che in America coincise con la prima rivoluzione sessuale, la conquista del suffragio delle donne e il proibizionismo, che alimentava il mito del divertimento e della festa. Ma, nello stesso periodo, il movimento delle associazioni cattoliche e protestanti che promuovevano la morigeratezza dei costumi aveva guadagnato un potere molto vasto, soprattutto sull’opinione pubblica. Il cinema suscitava timori, a causa del potere di suggestione che mostrava di possedere più di altri mass media; con l’idea che la libertà di giudizio e scelta dello spettatore, anche se adulto, dovesse essere protetta e comunque preventivamente limitata, insorsero istanze censorie, volte a contrastare la rappresentazione di atti contrari al buon costume e alla morale, presunte offese alle istituzioni, alle chiese, alle religioni o al prestigio nazionale, crudeltà nei confronti di uomini e animali, e in generale di tutti i temi suscettibili di turbare l’ordine pubblico e i rapporti internazionali.
Nel periodo di massimo splendore della cinematografia americana, negli USA la censura era gestita da una miriade di istituzioni locali e statali, senza un modello federale: solo nel 1948 la Corte Suprema affermerà espressamente che il cinema debba essere considerato sotto la tutela del primo Emendamento. La precarietà di questa situazione portò quindi, negli anni Trenta, all’adozione di una forma di autocensura controllata e gestita dall’associazione di categoria dell’industria cinematografica, la MPPDA (Motion Picture Producers and Distributors Association).
Le motivazioni alla base di tale scelta furono tuttavia alquanto pragmatiche: a fronte delle forti pressioni ricevute, i produttori cinematografici avevano cominciato a rendersi conto che una politica di autoregolamentazione e cautela nei contenuti dei film consentiva una circolazione più sicura dei loro prodotti, scongiurando i rilevanti danni causati da azioni giudiziarie contro film ritenuti immorali (ritiro delle copie in circolazione, interruzione nella programmazione, esecuzione di tagli o modifiche ai film, caduta di immagine presso il grande pubblico).
L’ambiente hollywoodiano era stato travolto da una serie di scandali, come le morti legate alla droga di Virginia Rappe (di cui fu accusato il popolare comico Fatty Arbuckle) e Wallace Reid e l’omicidio mai risolto di William Desmond Taylor; inoltre, l’avvento del sonoro acuiva il rischio di offendere la sensibilità degli spettatori nelle scene a cui, fino ad allora, le sole immagini avevano garantito un margine di velata allusività.
L’industria cinematografica aveva forti motivazioni economiche per volersi rifare un’immagine, in quanto doveva conformarsi agli standard auspicati da Wall Street (la cui entrata sulla scena imprenditoriale del cinema era stata massiccia quanto autorevole), in modo da finanziare le tecnologie del sonoro e l’espansione delle catene di sale.
Redatto nel 1930 e applicato in concreto dal 1933, il Codice Hays conteneva principi etici e indicazioni specifiche che regolavano ciò che si poteva far vedere, dire e raccontare sullo schermo; esso interveniva non a film finito, mediante tagli, bensì a livello di sceneggiatura, proponendo modi alternativi di racconto. Solo a partire dal 1968 il Codice sarà accantonato e in larga parte sostituito da una divisione del pubblico per fasce d’età (rating). Il testo comprendeva due sezioni: The Code (articolazione pragmatica del modello di autocensura) e The reasons (presentazione in chiave etico-sociologica).
Il Production Code elencava tre “Principi generali”:
1) Non sarà prodotto nessun film che abbassi gli standard morali degli spettatori. Per questo motivo la simpatia del pubblico non dovrà mai essere indirizzata verso il crimine, i comportamenti devianti, il male o il peccato.
2) Saranno presentati solo standard di vita corretti, con le sole limitazioni necessarie al dramma e all’intrattenimento.
3) La Legge, naturale, divina o umana, non sarà mai messa in ridicolo, né sarà mai sollecitata la simpatia dello spettatore per la sua violazione.
Crimine e sesso erano le aree più articolate, mentre la violenza non sembrava provocare grande allarme: la preoccupazione maggiore sembrava essere infatti quella di scongiurare l’emulazione; in particolare, rispetto ai film di gangster si proponeva la necessità di punire il criminale (moral compensation), facendolo morire tragicamente negli ultimi metri di pellicola, per dare una chiara indicazione di ordine sociale.
La regolamentazione della presentazione sullo schermo dei rapporti sessuali prescriveva:
“La santità dell’istituzione del matrimonio e della famiglia deve essere sostenuta. Il cinema non deve mostrare alcuna forma degradata di relazione sessuale come se fosse comunemente accettata.”.
Nel 1934 l’industria cinematografica istituì, sotto la direzione di Joe Breen, la Production Code Administration (PCA), chiamata a gestire l’applicazione del Codice: le compagnie appartenenti alla MPPDA (ovvero le otto maggiori case di produzione) non potevano distribuire film senza il sigillo di approvazione della PCA, perciò quelli che risultavano privi del visto di censura non potevano essere proiettati nel circuito di sale da loro controllato (cioè, la gran parte della prima visione). Fervente cattolico, membro della Catholic Legion of Decency, il “censore di Hollywood” Breen incrociò il suo destino con quello del nazismo: il console tedesco negli Stati Uniti cominciò a valutare ciascun film in uscita in America decidendo se minasse o meno il prestigio della Germania e Breen ne condivideva le simpatie antisemite, nonostante all’epoca sei delle otto case di produzione americane fossero gestite da personale ebraico.
La censura si scagliò in modo punitivo sulla rappresentazione delle donne: attrici come Marlene Dietrich e Norma Shearer, persino il cartone animato Betty Boop ne fecero le spese perché considerate troppo trasgressive e sensuali.
C’era la volontà di regolare la vita degli spettatori, in modo che assorbissero quei “Do & Don’t” anche nelle proprie vite: “I film sono un’importante forma di espressione artistica. L’arte entra nell’intimo delle vite degli uomini” e l’arte non deve imitare la vita, ma migliorarla, deve essere d’esempio.
Per molti anni non fu possibile raccontare l’amore tra persone dello stesso sesso: i personaggi omosessuali venivano dipinti come cattivi, sadici o pervertiti, oppure macchiette stereotipate, amici eccentrici della protagonista, spesso con funzioni comiche, se non ridicole.
Finché rimase in carica, Breen ebbe il potere di modificare gli script e le scene, togliendo spazio e libertà creativa ai produttori, agli sceneggiatori e ai registi; nel ‘54 vinse il Premio Oscar alla carriera per la sua “consapevole, aperta e nobile gestione del Motion Picture Production Code”, esercitando la quale, per esempio, si oppose a ogni riferimento esplicito, durante la lavorazione del film Casablanca (1942, di Micheal Curtiz), all’amore adultero tra Rick e Ilsa, determinando il finale con la celebre rinuncia di Rick. Autori come Otto Preminger, Orson Welles ed Erich von Stroheim tentarono di battersi contro il potere della censura americana, ma perlopiù, sino alla fine degli anni Cinquanta, autori e registi cercarono di aggirare il Production Code lavorando sul filo del rasoio, al limite della condanna, fermandosi un attimo prima del taglio di forbice.
Celebri alcuni escamotage, come la concessione di parole vietate nel caso in cui fossero già presenti nelle opere letterarie di origine, che sdoganò l’immortale “Frankly, I don’t give a damn” di Rhett Butler in Via col vento (1939, di Victor Fleming), oppure la lunghissima scena di bacio in Notorious (1946, di Alfred Hitchcock), per la quale il regista Hitchcock aggirò i divieti facendo alternare brevi baci a conversazioni o effusioni di altro tipo.
In ogni caso, il maggior successo ottenuto da W. H. Hays alla guida della MPPDA (divenuta nel frattempo Motion Picture Export Association of America) non si registrò tanto nella moralizzazione del cinema americano, quanto nella sua straordinaria espansione internazionale: Hays era convinto che, attraverso l’esportazione dei film, si realizzasse, al di là del profitto immediato e diretto dell’operazione, una viva presenza del Paese esportatore nei mercati esteri e dunque la più efficace propaganda a favore dell’american way of life.
A lui viene attribuito il famoso slogan “la merce segue il film”.
Hays aveva capito che il film può diventare il miglior ambasciatore del Paese ed esercitare un’efficacissima azione di propaganda indiretta a favore della sua civiltà, del suo modo di vivere, delle sue istituzioni e, infine, delle sue merci.
L’introduzione del Codice che prese il suo nome si rivelò pienamente coerente e funzionale rispetto al disegno di un’egemonia economico-commerciale del cinema USA nel mondo, giacché esso assicurava la presenza, in ciascun film americano, di quel “minimum etico” che gli permetteva di affermarsi in qualsiasi luogo, dall’Europa all’India, dai Paesi arabi al Giappone, dall’America Latina alla Cina, senza urtare la sensibilità o la suscettibilità di pubblici tanto diversi e senza incontrare grossi problemi con i vari tipi di censura esistenti nel mondo.
Silvia Boverini
Fonti:
www.it.wikipedia.org;
M. Argentieri, G. Muscio, “Censura” e “Motion Picture Association of America”, www.treccani.it;
P. Bafile, “Codice Hays”, www.lacomunicazione.it;
G. Manfredini, “Cinema e moralità, il Codice Hays”
https://medium.com; G. Guerra, “Negli anni Trenta Hollywood celebrava le donne e il sesso, poi è arrivata la Chiesa”
https://thevision.com
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