Il bisogno di ascolto e mediazione nell’era del Coronavirus
Con il dilagare dell’epidemia, in mezzo al dolore e alla morte, si sviluppano anche nuove relazioni conflittuali e, probabilmente va presentandosi anche un nuovo, o almeno un maggiore, bisogno di ascolto e mediazione nell’era del Coronavirus.
Qualcosa (di enorme) è cambiato
L’espressione “era del Coronavirus” si collega alla constatazione un po’ ovvia che verosimilmente l’umanità potrebbe trovarsi davanti ad un cambiamento, epocale, di portata globale e dalle implicazioni ancora per lo più imprevedibili, ma presumibilmente profonde. Appare plausibile ritenere che non soltanto le nostre vite individuali, ma le nostre società saranno solcate da questa cesura: prima e dopo il Coronavirus.
Questa pandemia sembra, infatti, dare luogo a qualcosa che segnerà il futuro in maniera ancora indecifrabile ma potente. Ci sarà, appunto, un prima e un dopo. Come, limitando lo sguardo al Novecento, ci fu un prima e un dopo la Prima Guerra Mondiale, un primo e un dopo la Grande Depressione del 1929, un prima e un dopo la Seconda Guerra Mondiale, un prima e un dopo la Shoah, un prima e un dopo le detonazioni atomiche su Hiroshima e Nagasaki, un prima e un dopo la caduta del Muro di Berlino. Dopo ciascuna di queste svolte si è aperta una nuova epoca. Ad ogni svolta perdemmo alcune certezze e ne acquisimmo altre, prima impensate. Apprendemmo cose nuove, prima inesplorate, spesso atroci e terribili. Sotto certi profili, perdemmo una sorta d’innocenza, d’ingenuità o di ignoranza. Non è troppo audace pensare quindi che dopo il Coronavirus le cose non saranno più esattamente come prima, anche se non sappiamo ancora predire come saranno.
Ma per ora noi siamo ancora completamente avvolti dal presente e riguardo al futuro non abbiamo che un vissuto di incertezza, di preoccupazione, di inquietudine e di stentata pianificazione a breve termine. Se già la crisi economica del 2011 (ancor più di quella del 2008) ci aveva scaraventato nell’instabilità e nell’insicurezza, ancora più destabilizzante appare, al momento, l’era del Coronavirus, che ci proietta in un vortice di punti interrogativi e ci costringe alla conta (approssimativa) dei morti, degli ammalati e dei contagiati .
L’eccezionalità quotidiana
Tornando agli interrogativi sul presente, quindi, sappiamo tutti di trovarci in una situazione eccezionale. E tutti, o quasi, supponiamo che sia un’eccezionalità destinata a durare forse per mesi, forse per anni. Tutti, verosimilmente, in fondo, temiamo che sia un’eccezionalità suscettibile di diventare una nuova normalità.
Ma che si volga lo sguardo rivolto all’orizzonte o a pochi centimetri dal naso, ci tocca, comunque, fare i conti con le infinite implicazioni di quanto sta accadendo a noi e attorno a noi. E, a questo proposito, circoscrivendo l’orizzonte al campo relazionale è possibile intravvedere qualcosa di emergente sul piano della conflittualità. Qualcosa che, in termini un po’ superficiali e sbrigativi può definirsi, un bisogno di ascolto e mediazione nell’era del Coronavirus, che non è verosimilmente lo stesso di alcune settimane fa [1].
Non è detto che restare a casa sia uno spasso o un momento di ricreazione
Che questo supposto bisogno di ascolto e mediazione nell’era del Coronavirus possa non essere sovrapponibile a quello fino a ieri emerso, in verità, può collegarsi ad aspetti molto contingenti: ad esempio, i dissensi interni ad un nucleo famigliare circa la maggiore o la minore propensione, fin dall’inizio, a farsi delle illusioni circa la possibilità che le misure di distanziamento sociale potessero avere breve durata. Inoltre può legarsi alle diverse valutazioni interne ad un gruppo più o meno ampio di persone, circa l’eventualità che dal rispetto della regola di restare a casa possa derivare un prevalente risvolto positivo, sul piano soggettivo, per la vita della stragrande maggioranza dei cittadini.
A tal proposito, in termini generali, al di là delle frizioni interne alle famiglie relative ai modi di reagire ai divieti in corso, l’avverarsi dell’eventualità che il lato luminoso del restare chiusi in casa possa trionfare sugli altri aspetti, cioè quelli del disagio, ovviamente, dipende da una molteplicità di fattori. Ad esempio, il miglioramento derivante dall’avere un maggior tempo per se stessi (per stare con i propri cari, per stare con se stessi, per leggere, per guardare dei bei film, eccetera) può prodursi quando si ha la possibilità di scegliere se e per quanto tempo prendersi questa licenza sabbatica e, soprattutto, quando ci sono davvero le condizioni che permettono di fare di necessità virtù, sfruttando l’isolamento per prendersi maggiormente cura di sé. Non è tanto facile, invece, che ciò accada quando si è costretti a restare a casa e, a maggior ragione, quando le condizioni sono ulteriormente limitanti e disagevoli.
Infatti, banalmente: non tutti vivono in mezzo ai prati o hanno almeno un giardino o un cortile in cui pendere una boccata d’aria; non tutti hanno un terrazzo o un balcone per prendere qualche raggio di sole; non tutti hanno un appartamento di tot metri quadri e di tot stanze, così da poter avere una minima privacy e, soprattutto, così da non intralciarsi di continuo; non tutti hanno la possibilità di una connessione ad internet e non tutti hanno un computer; non tutti hanno una casa; non tutti scoppiano di salute, anche se non sono ammalati di Coronavirus; non tutti sono immuni dalla depressione o da altre cause di sofferenza psicologica; non tutti finora hanno felicemente convissuto sotto lo stesso tetto; non tutti hanno la fortuna di non avere partner o famigliari violenti e maltrattanti.
In generale, poi, l’irruzione dell’emergenza epidemica nella nostra quotidianità ha assai più che sconvolto le nostre abitudini. È andata ad intaccare alcuni aspetti fondamentali della nostra vita. Ha limitato, restringendone vertiginosamente le possibilità di esercizio, i nostri principali diritti di libertà: quelli garantiti in tutte le democrazie degne di questo nome e che nel nostro Paese e nelle altre democrazie liberali, fin dalla fine della Seconda Guerra Mondiale e dalla sconfitta del nazifascismo, non erano più stata messe in discussione. Mi riferisco a diritti come le libertà di movimento, di circolazione, di riunione, di manifestare pubblicamente le proprie idee e la propria fede, di comprare e di vendere, d’impresa, tanto per citarne solo alcuni. Altro che aperitivi e aperi-cene!
Questo maledetto Coronavirus ci toglie i diritti fondamentali e perfino i “pre-diritti”
Ma questo maledetto virus ci toglie qualcosa di più, qualcosa che sta prima dei diritti, qualcosa che non ha neppure mai avuto bisogno di essere garantito da un’apposita norma: infatti, si tratta di qualcosa che non è descritto né garantito esplicitamente dalla nostra Costituzione, come non lo è dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948 (se non, forse, in qualche modo indiretto, nell’art.12). È probabilmente qualcosa di pre-giuridico, una sorta di “pre-diritto”: non mi riferisco al diritto alla vita, che è, invece, legalmente previsto; mi riferisco al “diritto” (tra virgolette) di dire ciao da vicino, di stringere una mano, di abbracciare o baciare, perfino di far visita o di accogliere nella propria casa le persone a cui si vuole bene. Figli, madri, padri, mariti e mogli, sorelle e fratelli, zii e nipoti, ecc., amici, sono costretti a restare separati, se non vivono sotto lo stesso tetto. L’epidemia ha posto un veto all’espressione della nostra natura di animali sociali, ha quasi annullato la possibilità delle più naturali manifestazioni affettive e ha fortemente condizionato la spontaneità nei rapporti umani.
Non possiamo neppure esercitare molti diritti-doveri, come quello di lavorare. Siamo costretti a restare in casa. E questo comportamento è l’adempimento di un dovere civico supremo. È il principale e prevalente modo in cui ciascuno di noi può dare attuazione ai propri doveri di solidarietà sociale, politica ed economica previsti dall’art. 2 della nostra Costituzione (ne abbiamo parlato nel post La campana della solidarietà sociale). Mentre chi il diritto-dovere di lavorare è tenuto ad esercitarlo ancora, lo fa a rischio della propria salute e di quella dei propri cari.
Non siamo in guerra, ma siamo immersi in un conflitto strano e in diversi conflitti intrecciati tra di loro
Parliamoci chiaro: non è una guerra quella che stiamo vivendo. Le guerre sono quelle che si svolgono tutt’ora in troppi Paesi e che in queste settimane sono quasi del tutto sparite dai nostri notiziari. Come sono pressoché evaporate le notizie sulle condizioni di profughi e migranti, a partire dai bambini, dalle donne e dagli uomini vittime di una disumanità continentale imperdonabile nei campi di Moria e di Lesbo .
Però, guardando le cose dal vertice osservativo di chi, come questa Associazione, si occupa anche e soprattutto di mediazione e, in generale, di gestione dei conflitti, be’, sì, siamo in conflitto e siamo in una situazione potenzialmente generativa di nuovi conflitti e di acutizzazione di quelli preesistenti.
Si tratta di un conflitto strano, nel quale ad agire sono prevalentemente i lavoratori della sanità e quelli di pochi altri settori (cosiddetti essenziali). Per tutti gli altri c’è un’inazione che sembra immergerci in atmosfere di tensione impalpabile e sfibrante, di inquietudine passiva come quelle evocate nei racconti e nei romanzi di Joseph Conrad, come La linea d’ombra. Però, non mi risulta che sia mai stato scritto un racconto, un romanzo o una sceneggiatura esattamente sovrapponibile alla realtà di questa pandemia.
Come ha scritto Monica Checchin in un post che abbiamo pubblicato sulla rubrica Riflessioni, intitolato Conflitti virtuali e conflitti virtuosi, lo spiazzamento che ci procura questo conflitto è determinato anche dalla natura ambigua, ambivalente e contraddittoria delle sue implicazioni.
Questa minaccia, che espone tutti al pericolo e sfugge ad ogni possibile individuazione e controllo, ci obbliga ad interazioni solo a distanza e contemporaneamente ci pone, con sfacciato paradosso ed evidente contraddizione, nella costrizione di “convivenze forzate ventiquattr’ore su ventiquattro”. Cioè ci mette in condizioni che, se possono procurarci possibilità relazionali e di altra natura fino a poche settimane fa impedite o ridotte dai ritmi severi del tran-tran quotidiano, possono anche mettere a dura prova i nostri rapporti personali, inclusi quelli più consolidati.
In previsione della crescita di un maggiore bisogno di ascolto e mediazione nell’era del Coronavirus …
Da qui, dunque, l’impressione di un crescente, forse in larghissima misura ancora non consapevole, bisogno di ascolto e mediazione nell’era del Coronavirus (e, quindi, l’offerta del Pronto Soccorso Ascolto e Mediazione da parte dell’Associazione Me.Dia.Re.).
Perché, se alla crescente sensazione della presenza di una sorta di nemico tanto impercettibile quanto insidioso, aggiungiamo le ansie e le preoccupazioni per il presente e il futuro su aspetti fondamentali dell’esistenza (la salute fisica e mentale, i rapporti con i famigliari e con altre persone significative, il lavoro, il reddito, la scuola), si può facilmente comprendere come stress, paure e frustrazioni possano dare luogo a nuove (anche solo nel senso di aggiuntive) difficoltà di condivisione e di supporto reciproco, traducendosi in fattori emotivi favorenti l’assunzione di atteggiamenti o condotte conflittuali.
Quindi, se la costrizione alla permanenza in casa può produrre l’innesco di problemi di comunicazione, nei termini di un’esasperazione di dinamiche conflittuali preesistenti (per fare un solo facile esempio, si pensi alla coppia che aveva deciso di separarsi), oppure di una slatentizzazione di quelle fino a quel momento controllate, non è meno probabile l’avverarsi di incomprensioni e tensioni anche tra famigliari, i quali, non trovandosi nella stessa abitazione, proprio per l’impossibilità di incontrarsi e frequentarsi, sviluppano rilevanti difficoltà di dialogo [2].
Ancora più Ascolto nella Mediazione
Anche sul fronte della gestione dei conflitti, perciò, la realtà impone un cambiamento. E questo cambiamento non riguarderà solo l’aspetto tecnologico, ma anche molti altri. Ad esempio, è facile prevedere che anche la metodologia subirà nella pratica degli aggiustamenti. Naturalmente, per quanto riguarda Me.Dia.Re., ciò non significa che rinunceremo al significato e al valore più profondo dell’approccio empatico, che mira a far sentire ascoltate e comprese, quindi non giudicate ma riconosciute, le persone. Significa, invece, che, probabilmente, dovremo sforzarci di procurare la percezione della vicinanza, a dispetto della separazione fisica, dell’empatia appunto, superando il limite di una compresenza solo virtuale. Insomma, dovremo continuare a svolgere appunto nella nuova realtà un’attività che sappia corrispondere davvero al bisogno di ascolto e mediazione nell’era del Coronavirus.
In qualche modo, riuscire ad ascoltare empaticamente anche in tali mutate condizioni è una sfida. In verità, modesta, a ben vedere, se rapportata ad altre: cioè, non è neppure lontanamente confrontabile con quella affrontata dai professionisti della sanità, che da settimane si trovano, per così dire, a mani nude, a combattere contro il Coronavirus, dovendo gestire mille difficoltà, di ogni tipo, e dovendo sopportare costi personali incalcolabili, mentre si sforzano di garantire prossimità umana ai loro tanti, troppi, pazienti.
Alberto Quattrocolo
[1] Perciò, l’Associazione Me.Dia.Re., stando nel perimetro di ciò che le compete, ha attivato delle nuove forme gratuite di Ascolto e Mediazione dei Conflitti, pensandole, per ora, come eccezionali, ma cominciando anche a pensare che sia un’eccezionalità di durata indefinita. Naturalmente l’eccezionalità non è collegata al carattere gratuito di tale servizio. Perché in questo fatto non c’è alcuna straordinarietà, né in generale, né rispetto alla tradizione dell’Associazione, che fin dai suoi albori, circa vent’anni fa, ha sempre erogato prevalentemente forme di sostegno gratuite. E lo fa ancora: il Servizio SOS CRISI, i servizi di giustizia riparativa e di mediazione penale, i servizi di ascolto e sostegno per le vittime di reato e per le donne vittime di violenza, i servizi di sostegno psicologico per minori stranieri richiedenti asilo e rifugiati o non accompagnati e per richiedenti asilo e rifugiati adulti.
No, l’eccezionalità consiste nel duplice fatto che il servizio gratuito Pronto Soccorso Ascolto e Mediazione si configura come:
- un sostegno da remoto, cioè si declina mediante colloqui on line e/o telefonici;
- un’attività di Ascolto e Gestione dei Conflitti e di supporto e facilitazione della comunicazione interpersonale per le persone e/o le famiglie che, anche a causa delle misure di distanziamento sociale, si trovino a vivere delle difficoltà relazionali o delle condizioni di aperta conflittualità.
In altri termini, questo Servizio cerca di fronteggiare e – entro i limiti delle nostre possibilità e capacità – di anticipare la nuova realtà in cui tutti siamo immersi, rapportandosi ad alcuni dei bisogni emergenti da essa
[2] Infatti, tra le persone ascoltate finora nell’ambito del nuovo Pronto Soccorso Ascolto e Mediazione abbiamo già riscontrato una ricca gamma di situazioni riconducibili a quelle sopra esemplificate e ad alcune altre ancora. In queste ultime due settimane, infatti, ci sono arrivate molte richieste esplicite di supporto per difficoltà relazionali e di convivenza, ed è stato un fatto inizialmente sorprendente e un po’ spiazzante per noi di Me.Dia.Re., che non ci eravamo mai sognati di erogare da remoto dei servizi di mediazione (si trattasse di mediazione familiare, di mediazione penale, o di mediazione dei conflitti nei luoghi di lavoro, in ambito sanitario e in altri ambiti istituzionali, sociale e relazionali). Per carità, era capitato in alcune occasioni di ricorrere a Skype, per rimediare ad ostacoli insormontabili, ma si trattava di eccezioni rarissime, che confermavano la regola. La stessa che informava tutti gli altri servizi di supporto vittimologico e psicologico, tutte le attività di consulenza e di supervisione e tutti i corsi e tutte le formazioni.
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