Il 21 settembre 1990 la mafia assassinava il giudice Rosario Livatino
Era un uomo riservato e gentile. Ed era uno “sgobbone”
Era un venerdì il 21 settembre 1990, e sulla statale 640, che da Canicattì porta ad Agrigento, a bordo della sua Ford Fiesta di colore rosso amaranto, Rosario Livatino stava andando, come tutte le mattine, in tribunale. Doveva prendere parte ad un’udienza sulle misure di prevenzione nei confronti di quindici presunti esponenti esponenti della mafia di Palma di Montechiaro.
A quattro chilometri da Agrigento, però, dei killer mafiosi, quattro, due su una Fiat uno turbo diesel e due su di una moto enduro, lo fermano. Per sempre.
Era un magistrato, aveva quasi 38 anni (era nato il 3 ottobre 1952) ma ne dimostrava di meno, un po’ per il corpo minuto e un po’ per il viso quasi da adolescente, e viveva a Canicattì, in viale Regina Margherita 168, con la madre Rosalia di 65 anni e il padre Vincenzo, settantacinquenne.
Era una persona riservata, il dott. Livatino. Gentile con tutti, ma un pochino schivo, secondo il ricordo di quanti lo conoscevano. Era talmente riservato che i suoi genitori non soltanto non avevano alcuna conoscenza delle vicende di cui si occupava, ma erano anche stati tenuti da lui all’oscuro dei rischi che era consapevole di correre. Del resto, aveva anche rifiutato la scorta per non mettere a repentaglio altre vite oltre alla sua.
Era anche uno “sgobbone”, Rosario Livatino. Diplomato al liceo classico Ugo Foscolo di Canicattì, dove si era impegnato nell’Azione Cattolica, si era poi iscritto alla Facoltà di Giurisprudenza dell’università di Palermo – come decenni prima aveva fatto suo padre, ormai in pensione – e si era laureato nell’anno accademico 1974-‘75, a ventidue anni. La sua tesi di laurea era di 90 pagine e trattava il tema del concorso di persone, a diverso titolo di partecipazione, nella commissione di un reato. Il titolo era “L’autore mediato”. Aveva ottenuto 110 e lode.
Poi, si era iscritto a Scienze Politiche, conseguendo, così, una seconda laurea. Nel frattempo aveva partecipato anche a vari concorsi pubblici e, soprattutto, aveva studiato per quello in magistratura. Aveva vinto il concorso per vicedirettore in prova presso la sede dell’Ufficio del Registro di Agrigento. Vi era rimasto dal 1° dicembre 1977 al 17 luglio 1978, per poi rinunciarvi avendo superato anche, un altro concorso, quello a cui teneva di più.
Nominato uditore giudiziario a Caltanissetta, nella primavera del ‘79 era stato nominato sostituto procuratore presso la procura del tribunale di Agrigento.
Livatino, però, non si era stabilito ad Agrigento. Era rimasto a vivere a Canicattì, con i suoi genitori, preferendo fare avanti e indietro da Viale Regina Margherita al Palazzo di Giustizia di Agrigento.
Le indagini come Sostituto Procuratore
Come Sostituto Procuratore della Repubblica si occupò fin dagli anni Ottanta di indagare non soltanto su fatti di criminalità comune ma anche di tangenti e corruzione, oltre che di mafia.
Nell’82 indagò sulle cooperative giovanili di Porto Empedocle, in particolare sui criteri con cui erano finanziate dalla Regione Sicilia. Inoltre, in base ad una sua intuizione, la Procura di Agrigento aprì un’indagine sulle fatture false dei cavalieri del lavoro catanesi. Ne emersero non soltanto decine di miliardi di lire di fondi neri, ma anche la collaborazione tra imprese e mafiosi. Per competenza l’indagine passò, poi, a Catania e a Trapani.
Livatino, colpito dalla portata dei personaggi e degli interessi in gioco emergenti nell’inchiesta da lui avviata, chiese per la prima e unica volta misure di protezione per la sua persona, rinunciandovi poi circa un anno dopo.
A Trapani ad occuparsi dell’indagine fu Carlo Palermo, che emise mandati di cattura per i cavalieri catanesi. Tali provvedimenti furono confermati dal Tribunale della libertà, ma revocati in Cassazione da Corrado Carnevale. Vale la pena ricordare che Carlo Palermo sopravvisse all’esplosione di una bomba telecomandata, che, però, massacrò una giovane mamma e i suoi due figli.
Nell’83 Livatino indagò sull’Ospedale civile di Agrigento e nell’84 sul traffico d’armi svolto da Giusepe Milazzo.
Nell’85 condusse un’indagine, insieme con l’ufficio istruzione, su quella che poi negli anni ’90 venne chiamata la “Tangentopoli siciliana”. Il 7 gennaio, affiancando il procuratore della repubblica Elio Spallitta, interrogò, come testimone, un deputato democristiano di Agrigento, l’avv. Angelo Bonfiglio: oggetto della testimonianza: le conoscenze e i rapporti dell’onorevole con esponenti mafiosi della provincia di Agrigento. Il 9 gennaio, insieme al Sostituto Procuratore Salvatore Cardinale interrogò l’ottantenne Gaetano Di Leo, per diverse legislature deputato democristiano.
Fu, inoltre, proprio Rosario Livatino, assieme ad altri colleghi, ad interrogare per primo un ministro dello Stato, Calogero Mannino.
Livatino indagava, infatti, su quelle trame e quei rapporti che rivelavano luce gli interessi economici e gli affari della mafia e di chi stabiliva rapporti con essa. Si era occupato della guerra di mafia a Palma di Montechiaro, quindi, e dell’intreccio tra mafia e affari, illuminando il “sistema della corruzione” su cui quell’intreccio si fondava e che a sua volta alimentava.
Nella sentenza di condanna dei suoi assassini si legge:
«perseguiva le cosche mafiose impedendone l’attività criminale, laddove si sarebbe preteso un trattamento lassista, cioè una gestione giudiziaria se non compiacente, almeno, pur inconsapevolmente, debole, che è poi quella non rara che ha consentito la proliferazione, il rafforzamento e l’espansione della mafia».
Le sue idee sul ruolo del magistrato
«Non ci si verrà a chiedere se siamo stati credenti, ma credibili», aveva sostenuto Livatino.
Il 20 settembre 2018, durante l’incontro “Rosario Livatino, tra fede e giustizia”, promosso dal Comune di Agrigento, oltre al Sindaco Lillo Fioretto vi erano l’ex presidente di Corte d’Appello, Salvatore Cardinale, l’attuale presidente del tribunale di Agrigento, Pietro Maria Falcone, e padre Giuseppe Livatino, postulatore della causa di canonizzazione del giudice. Il presidente del tribunale ha spiegato il senso di quella frase:
«è una diretta espressione della profonda fede che ha sempre caratterizzato, Livatino, anche se esprime un valore assoluto. Essere credibili significa essere disposti a sostenere i valori a cui si crede ad ogni costo».
Questo tenere la schiena dritta importava necessariamente rompere una regola non scritta che imponeva di negare che la mafia esistesse. Ha spiegato Carnavale che si trattava di «una negazione intellettuale che anche le alte gerarchie ecclesiastiche sostenevano», aggiungendo che, mancando una legislazione adeguata «i processi si concludevano per mancanza di prove o venivano trasferirti per legittimo sospetto». Tutto ciò in un «clima di connivenza, anzi, di vera e propria collaborazione di politica e amministrazione dello Stato con la mafia. Gli esponenti politici cercavano i mafiosi per essere eletti e c’era, e c’è ancora, una commistione tra mafia e massoneria».
Ricordiamo che sono gli anni in cui si scopre l’esistenza della Loggia P2, del suo piano di “Rinascita”, delle sue relazioni con la mafia, dell’appartenenza ad essa di uomini dei servizi, di magistrati, imprenditori, professionisti, giornalisti, ecc.
A questo riguardo la posizione di Livatino era cristallina.
«Se sono già serie le ragioni di perplessità sull’adesione del Giudice ad un partito politico, queste ragioni appaiono centuplicate nella partecipazione ad organizzazioni di fatto più o meno riservate o, comunque, non facilmente accessibili al controllo dell’opinione pubblica, i cui aderenti risultano legati fra loro da vincoli della cui intensità e natura nessuno è in grado di giudicare e valutare. Qui bisognerà proclamare, con assoluta chiarezza, che la norma dell’art.212 TU.L.P.S., che sancisce l’immediata destituzione per tutti gli impiegati pubblici che appartengono ad associazioni i cui soci sono vincolati dal segreto, si applica anche ai magistrati, che ne sono anzi, logicamente, insieme ai militari, i destinatari più diretti».
“La trasparenza della condotta” del magistrato “anche fuori delle mura del suo ufficio”
Livatino, però, aveva delle idee che risultavano, a dir poco, scomode non soltanto per i mafiosi e gli appartenenti alla P2. Era fermamente convinto che i magistrati non potessero fare politica e poi riprendere ad esercitare la funzione giudiziaria ed era anche contrario agli incarichi extragiudiziari.
L’indipendenza del Giudice, asseriva, «non è solo nella propria coscienza, nella incessante libertà morale, nella fedeltà ai principi, nella sua capacità di sacrifizio, nella sua conoscenza tecnica, nella sua esperienza, nella chiarezza e linearità delle sue decisioni, ma anche nella sua moralità, nella trasparenza della sua condotta anche fuori delle mura del suo ufficio, nella normalità delle sue relazioni e delle sue manifestazioni nella vita sociale, nella scelta delle sue amicizie, nella sua indisponibilità ad iniziative ed affari, tuttoché consentiti ma rischiosi, nella rinunzia ad ogni desiderio di incarichi e prebende, specie in settori che, per loro natura o per le implicazioni che comportano, possono produrre il germe della contaminazione ed il pericolo dell’interferenza».
La fede e il ruolo di magistrato
Ha scritto Silvia Bortoletto sul sito Cosa Vostra:
Integrità, indipendenza e senso del dovere sono affiancati da una fede profonda. Convivono nella figura del giudice canicattinese senza contraddizione alcuna ma semmai rafforzandosi e traendo reciprocamente alimento. La direzione morale tracciata dalla fede non può collidere od esentare dalla necessità di rispettare e proteggere la legge e la sua funzione. “Non vi sarà chiesto se siete stati credenti ma se siete stati credibili” è il lascito più semplice ed umile del giudice Livatino. La rettitudine e la coerenza nonostante tutto, prima ancora che la rigorosa professione di una religione, saranno i veri parametri di giudizio dell’operato di un individuo.
Si può qui intendere come Livatino guardi alla sua professione di magistrato, a sua volta quindi incaricato di giudicare altri, come ad un ruolo quasi “divino” che, visto proprio in questa luce, assume un significato ed un’importanza drammatici.
È un uomo di ragione, che vede nella religione una guida morale e nella legge una misura di tutele e codici, entrambe necessarie per il buon funzionamento di una società. Per il suo attaccamento alla fede cattolica – è impegnato sin dalla giovane età in Azione Cattolica-, la figura di Livatino viene ampiamente celebrata dalla Chiesa che ha iniziato il processo di beatificazione nel 2011.
Sul sito Centro Studi Rosario Livatino si legge un’altra dichiarazione di Livatino.
«Cristo non ha mai detto che soprattutto bisogna essere ‘giusti’, anche se in molteplici occasioni ha esaltato la virtù della giustizia. Egli ha, invece, elevato il comandamento della carità a norma obbligatoria di condotta perché è proprio questo salto di qualità che connota il cristiano».
Sul rapporto tra il ruolo di magistrato e la fede Livatino aveva sostenuto:
«Il compito del magistrato è quello di decidere. Orbene, decidere è scegliere e, a volte, tra numerose cose o strade o soluzioni. E scegliere è una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare. Ed è proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio. Un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio. Un rapporto indiretto per il tramite dell’amore verso la persona giudicata».
L’agguato e il testimone che non chiude gli occhi e non tira innanzi per la sua strada
Dal 1989 Livatino era diventato giudice a latere e assolveva tale funzione quando fu assassinato da quattro killer. Speronata dall’auto degli assassini , che già gli avevano sparato addosso diversi colpi per 90 secondi, ferendolo ad una spalla, la sua Ford Fiesta si fermò contro il guardrail. Il magistrato, ingranò la retromarcia, ma poi uscì dal lato destro della macchina, scavalcando il guardrail e correndo giù per il vallone tra sassi e sterpi bruciati dal sole, ma fu inseguito dai killer, che scavalcarono anch’essi il guardrail e lo inseguirono prendendo la mira. Impiegarono altri tre minuti circa per finirlo. Dopo averlo colpito, due di loro, raggiunsero il suo corpo abbattuto nel letto essiccato di un torrente e gli tirarono ancora dei colpi di pistola, a distanza ravvicinata.
Testimone oculare del delitto fu Pietro Nava, che rese subito testimonianza alla polizia. Questo ex agente di commercio bergamasco, rappresentante di un’impresa astigiana di porte blindate, fu costretto all’oblìo, a sparire, a rinunciare tutto, o quasi tutto, cioò che aveva costruito nella sua vita, per sottrarsi alla rappresaglia, alla vendetta mafiosa. Disse a Giuseppe D’Avanzo:
«Non mi sento un eroe, sono un cittadino che crede nello Stato come ci credeva Rosario Livatino. E lo Stato non è un’entità astratta. Lo Stato siamo noi. Siamo noi che facciamo lo Stato. Giorno per giorno. Con i nostri comportamenti, la nostra responsabilità, le nostre scelte. Con la nostra dignità. Che avrei dovuto fare? Chiudere gli occhi? Tirare innanzi per la mia strada? No, non sono stato educato a questo modo. Mi sono comportato come mi hanno educato. E non rinnego nulla. Se potessi tornare indietro, lo rifarei. Alzerei ancora quel telefono…».
“Giudice ragazzino”
Il titolo del libro che Nando dalla Chiesa gli dedicò era Il giudice ragazzino (e a tale testo si è qui largamente attinto). La ragione di quel titolo risiede nel fatto che otto mesi dopo la morte del giudice, l’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga definì «giudici ragazzini» una serie di magistrati impegnati nella lotta alla mafia:
«Possiamo continuare con questo tabù, che poi significa che ogni ragazzino che ha vinto il concorso ritiene di dover esercitare l’azione penale a diritto e a rovescio, come gli pare e gli piace, senza rispondere a nessuno…? Non è possibile che si creda che un ragazzino, solo perché ha fatto il concorso di diritto romano, sia in grado di condurre indagini complesse contro la mafia e il traffico di droga. Questa è un’autentica sciocchezza! A questo ragazzino io non gli affiderei nemm eno l’amministrazione di una casa terrena, come si dice in Sardegna, una casa a un piano con una sola finestra, che è anche la porta».
«Il mio ragazzo, Rosario Angelo Livatino, è un eroe»
Nel 2002 in una lettera aperta pubblicata dal Giornale di Sicilia e indirizzata ai genitori del giudice, Cossiga smentì che quelle parole fossero riferite a Rosario Livatino, che, invece, definì “eroe” e “santo”.
Il padre Vincenzo, subito dopo l’omicidio, parlando di suo figlio con i cronisti al presente, come se fosse stato ancora vivo, disse:
«Rosario è un uomo probo, fa il suo dovere. Non è un eroe, è un buon figlio e un buon siciliano.Però, se oggi, in Sicilia e in Italia, fare il proprio dovere per lo Stato significa essere un eroe, allora sì, che lo scrivano, che lo dica Cossiga: il mio ragazzo, Rosario Angelo Livatino, è un eroe»
La causa di beatificazione
Nel 1993 il vescovo di Agrigento, Carmelo Ferraro, incaricò l’ex insegnante di Livatino, Ida Abate di raccogliere testimonianze per la causa di beatificazione. E il 19 luglio del 2011 l’arcivescovo di Agrigento, Francesco Montenegro, firmò il decreto per l’avvio del processo diocesano di beatificazione.
Sono state raccolte 45 testimonianze sulla vita e la santità del giudice, tra le quali quella Gaetano Puzzangaro, uno dei quattro killer. Il 6 settembre 2018 è stata comunicata la chiusura del processo diocesano. Dopo la celebrazione del 3 ottobre nella Chiesa di Sant’Alfonso ad Agrigento, la documentazione di circa 4 mila pagine è stata affida all’esame dalla Congregazione delle Cause dei Santi.
Alberto Quattrocolo
Fonti
Nando dalla Chiesa (1992), Il giudice ragazzino, Einaudi, Torino
www.centrostudilivatino.it/rosario-livatino
www.cosavostra.it
www.famigliacristiana.it/articolo/storia-di-rosario-livatino-il-giudice-ragazzino.aspx
www.repubblica.it/cronaca/2016/09/21/news/omicidio_livatino_testimone_chiave_in_commissione_antimafia-148260333
Giuseppe D’Avanzo, Così paga chi aiuta lo Stato, La Repubblica, 8 aprile 1992
Marco Imarisio, Livatino, parla il testimone “Lo Stato per difendermi mi ha dato soldi e pistole”, Corriere della Sera, 12 ottobre 1998
https://it.wikipedia.org
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