Fair Play Goodbye
In occasione della recente vittoria (11 luglio 2021), nella finale del campionato europeo, degli azzurri contro la nazionale inglese a Wembley, è stato osservato che il proverbiale ossequio britannico al fair play è venuto meno: non per caso s’intitola “Inghilterra sconfitta, c’era una volta il fair play” l’articolo scritto da Enrico Franceschini su Repubblica, l’indomani della partita. E, di certo, non è stato Franceschini il solo a proporre questo rilievo.
La mediazione non si occupa della gestione di quelle particolari contese costituite dalle competizioni sportive (semmai dei conflitti extra-sportivi che da quelle sorgono), le quali sono sottoposte a specifiche regole e a sistemi di governo e di valutazione istituzionalizzate da ben prima che la mediazione diventasse una professione. Del resto, in campo vigono, appunto, norme e sanzioni e operano arbitri con il fine di garantire il rispetto di una soglia minima di fair play da parte degli attori in competizione: regole e sorveglianti, a ben vedere, che prevedono e perseguono in ogni caso un livello basico di riconoscimento reciproco.
Al di fuori del campo, invece, in quel più vasto campo di gioco che è la vita, il rispetto del fair play non trova un supporto altrettanto istituzionalizzato, pervasivo e vincolante. E, se ciò non è certamente un male, resta un aspetto da considerare con attenzione, soprattutto da parte di chi, per le più diverse ragioni, si propone di gestire un conflitto.
“L’ideale di combattere con onore per una causa che sia buona”
Ha scritto, anni fa, Johan Huizinga:
«È un ideale umano di ogni epoca quello di combattere con onore per una causa che sia buona. Questo ideale sin dall’inizio è violato nella sua cruda realtà. La volontà di vincere è sempre più forte dell’autodominio imposto dal senso d’onore. Per quanto la civiltà umana ponga dei limiti alla violenza a cui si sentono portati i gruppi, tuttavia la necessità di vincere domina a tal punto i combattenti che la malizia umana ottiene sempre libero gioco e si permette tutto ciò che può inventare l’intelletto» [1].
Ebbene, queste amare osservazioni relative alle condotte conflittuali di popoli o di gruppi ampi di persone, in realtà, possono essere estese con notevole frequenza anche ai conflitti inter-individuali o, comunque, tra gruppi più ristretti di persone.
In termini più prosaici, si potrebbe asserire, quando litighiamo, pur avendo consapevolezza dei vincoli costituiti dai doveri di correttezza, di lealtà, di adesione alla verità dei fatti, e dalla necessità di conservare, appunto, un certo fair play, la volontà di prevalere, o il connesso timore che a prevalere possa essere la nostra controparte, ci succede spesso che sia «più forte dell’autodominio imposto dal senso d’onore».
Lo screditamento e la denigrazione dell’avversario e altri colpi bassi di varia natura
Chiunque si occupi di gestione dei conflitti – ma, si potrebbe dire, chiunque si dia la briga di guardarsi attorno e magari anche un po’ dentro – sa bene come questi molto spesso siano caratterizzati da una progressione, la cosiddetta escalation, la quale, sul piano mentale, implica e, contestualmente stimola, una vicendevole rappresentazione astratta dell’altro. Costui diventa, infatti, agli occhi della mente della sua controparte, il nemico. Cessa di essere percepito e pensato come un essere umano in carne e ossa, per diventare una sorta di precipitato di malignità, un concentrato di vizi morali, capace di compiere le peggiori nefandezze. E come tale viene non soltanto pensato, ma anche descritto ai terzi, cioè: a coloro che, ancora tentennanti o già convinti, si cerca di persuadere a sposare la propria (giusta e perfino santa) causa o che si vuole fidelizzare ad essa, a coloro che si teme possano essere sedotti dalla perfida abilità oratoria dell’avversario e a coloro che, per ruolo, attitudine, scelta del momento o altro, si astengono dal parteggiare.
Tra questi ultimi, ovviamente, figurano sia coloro hanno un ruolo formale o informale di arbitro o di giudice, e quelli che svolgono una funzione di mediazione. Il tutto con buona pace dei principi e dei doveri di fair play, anche, anzi soprattutto, quando esplicitamente richiamati.
Anche i mediatori (familiari, penali, civili e commerciali, ecc.), quindi, hanno la frequentissima esperienza di imbattersi in narrazioni reciprocamente demonizzanti dei protagonisti del conflitto, impegnati a tratteggiarsi l’un l’altro a tinte fosche, non disdegnando di ricorrere ad ogni mezzo pur di screditare la controparte. Sicché i tentativi di levare ogni traccia di attendibilità alla versione dei fatti proposti dal nemico – giacché l’escalation del conflitto diventa una vera e propria opera di costruzione dell’immagine del nemico – si sostanziano anche in più o meno giuridicamente rilevanti comunicazioni diffamatorie.
In certi casi trova inveramento puntuale nelle dinamiche conflittuali afferenti la sfera dei rapporti privati (ad esempio, nei conflitti interni a gruppi di lavoro o in altre comunità ristrette) qualcosa di simile alla deplorevole moralmente e intrinsecamente antidemocratica opera di “character assassination” alla quale assistiamo nel conflitto politico tanto spesso e, forse, in misura crescente.
Le licenze dalla verità e la sospensione della sincerità
Infangare la controparte, poi, significa anche infischiarsene del rispetto per la verità. E anche qui il fair play va a farsi benedire.
L’abbandono della correttezza del comportamento, in ordine al mancato rispetto per la verità, cui ci si riferisce non riguarda il registro dell’obiettività. È chiaro, infatti, che se si è di parte (se si è parte di un conflitto) l’obiettività ne risente. L’indifferenza al fair play rispetto al tema della verità riguarda piuttosto la possibilità – tutt’altro che rara – che i confliggenti: omettano coscientemente di dire qualcosa di poco conveniente alle loro tesi; edulcorino a bella posta la gravità delle loro azioni aggressive, o degli effetti nocivi di queste; ancora, sempre per infangare o ridicolizzare l’immagine del nemico, distorcano i fatti e i loro significati, oppure s’inventino cose mai inveratesi. La prima vittima del conflitto è la verità, infatti, è il titolo di un post pubblicato su questo sito, anch’esso, come il presente, nella rubrica Riflessioni. Si spiegava lì che
«ciascuna delle parti è convinta di averne il monopolio [della verità] e rigetta i contenuti e gli argomenti della controparte, in quanto falsi. Essere dalla parte della verità, del resto significa anche essere dalla parte giusta, cioè della giustizia. Quindi, anche se si dovesse mentire, inventando dei fatti o alterandone la dinamica o il significato, magari nel tentativo di persuadere altre persone della validità e giustezza delle proprie idee e comportamenti, ci si può sentire, comunque, dalla parte della verità: infatti, la menzogna proposta verrebbe considerata solo come uno strumento al servizio del superiore fine della vittoria sulla controparte, che costituirebbe l’affermazione della giustizia sull’ingiustizia, del vero sul falso… ».
La mancanza di riguardo per le vittime casuali
Le ultime considerazioni citate rinviano ai diversi sofisticati modi con i quali, confliggendo, ci capita di azzittire la nostra coscienza, quella vocina interna che ci lancia, inascoltati ma variamente molesti, appelli al fair play e, ancor più basicamente ai principi della morale comune, codificati anche da diversi precetti religiosi. Siamo dotati, infatti, di un’abilità talmente formidabile nell’eludere quei vincoli morali, quando ci troviamo impegnati in una schermaglia diretta o indiretta con il nostro nemico, che riusciamo molto spesso a negare anche le nostre responsabilità rispetto ai danni che derivano ai terzi dalla nostra condotta conflittuale. In tali casi, la neutralizzazione della responsabilità può consistere nell’attribuirla alla controparte, nell’escludere l’effettività dei disagi e delle sofferenze procurate agli “innocenti”, o nel ridurre la gravità, oppure nel sostenere che i terzi, in realtà, non sono affatto innocenti e che gli effetti dannosi da essi patiti patiti sono, a ben vedere, più che meritati.
In fondo, è in considerazione di tali risvolti dei conflitti tra genitori interessati da una vicenda separativa che si è affermata la mediazione familiare. Cioè, per prevenire e contenere le sofferenze dei figli. Ma, tanto per non dare (solo) la croce addosso alle coppie genitoriali in conflitto, si potrebbe porre mente alla sfrontata violenza verbale dilagante tra politici e tra elettori, spesso con il contributo determinante di giornalisti, opinionisti e influencer vari, sui social media e altrove, nei confronti degli avversari, ai cui famigliari non viene dedicato neppure il più sbiadito pensiero. Come, del resto, si può pensare alla sfacciataggine del ricorso metodico alla produzione e alla sistematica diffusione delle cosiddette fake news nel dibattito pubblico.
Il lato oscuro che il mediatore non deve giudicare, ricordando che, forse, neanche egli è sempre stato un campione di fair play
«La guerra tira fuori sempre il peggio dalle persone. Mai il meglio.», dice Oskar Schindler (Liam Neeson) in “Schindler’s List” (1993, di Steven Spielberg).
Sia pure in termini meno cruenti e devastanti, lo stesso può dirsi molto spesso degli ordinari conflitti della nostra quotidianità. Quei conflitti – in famiglia, sui luoghi di lavoro, in sanità, nonché nei rapporti conflittuali esitati in un reato o nei conflitti sorti dalla commissione di un reato (quelli gestiti dalla mediazione penale) -, cioè, di cui si occupa la mediazione nei suoi diversi campi applicativi.
Il mediatore, pertanto, una certa dimestichezza con tale lato oscuro dovrebbe avercela fin dall’inizio della propria carriera. Perché, se, da un lato, è astrattamente vero che, parafrasando Mao Tse Dong, non soltanto la rivoluzione ma anche un conflitto tra vicini di casa, o tra coniugi, non è un pranzo di gala, dall’altro, c’è un’altra più banale realtà da affrontare: noi mediatori non siamo antropologicamente diversi dai confliggenti che ascoltiamo. Navighiamo sugli stessi mari e sulla stessa barca. Anche a noi, verosimilmente, è capitato, e capiterà ancora, di tentare di comunicare ad altri l’immagine negativa che abbiamo della nostra controparte. E, se, nel farlo, ricorreremo a premesse e postille autodenuncianti esplicitamente la nostra parzialità, non dovremmo escludere che proprio quelle accortezze siano in realtà finalizzate a dare prova della nostra onestà intellettuale e, quindi, a fornire indirettamente una più forte solidità alle nostre successive affermazioni lesive della reputazione dei nostri nemici.
Insomma, anche chi per lavoro si occupa di mediazione può subire quella sorta di sotterranea dittatura del conflitto, che sottrae ai confliggenti una porzione rilevante della loro intelligenza emotiva (si veda il post Il “sequestro emozionale” del conflitto e l’ “intelligenza emotiva” della mediazione) e, di conseguenza, anche della capacità di avere il controllo sulle loro azioni e reazioni e sulla loro relazione.
Alberto Quattrocolo
[1] Huizinga J. (2004), Homo ludens, Einaudi, Torino, p. 117.
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