Un esempio di escalation conflittuale: l’intervento del Vicepresidente della Camera dei Deputati, Roberto Giachetti, all’Assemblea Nazionale del Partito Democratico
Per esplicitare maggiormente la relazione tra le riflessioni proposte in questo blog e la quotidianità del confronto politico, prendiamo spunto dall’intervento di Roberto Giachetti all’Assemblea Nazionale del Partito Democratico (PD) di domenica 18 dicembre 2016. Ma è, appunto, solo un’occasione, uno spunto per ragionare, e chiediamo scusa agli interessati per l’uso che stiamo facendo delle loro parole, sperando nei nostri ragionamenti di non risultare irrispettosi delle loro idee e dei loro sentimenti. È infatti esattamente ciò che vorremmo evitare.
Tornando all’intervento di Giachetti, il Vicepresidente della Camera, dopo aver asserito di aver riscontrato un clima di distensione, alimentato da maggioranza e minoranza interne al partito, nell’ambito dei precedenti interventi e nella relazione del Segretario, Matteo Renzi, assume esplicitamente una posizione difforme, precisando che non intende unirsi “ad un clima nel quale sembra che non sia accaduta nulla”, spiegandone le ragioni, che sono correlate anche alle dichiarazioni alla stampa rilasciate dall’On. Roberto Speranza («il partito del Noi è un obiettivo condivisibile», «sul Mattarellum noi siamo d’accordo perché si riconsegna ai cittadini la possibilità di scegliere i deputati”, “Quanto detto da Renzi è positivo e sostengo la sua apertura»). Giachetti commenta le parole di Roberto Speranza, invocando il recupero di «quella politica nella quale qualcuno ha la moralità, l’etica e la dignità di domandarsi che cosa ci fa in questa comunità». In breve, da qui parte il suo attacco, inequivocabilmente anche sul piano personale (dato che nomina aspetti quali: moralità, etica e dignità), all’On. Speranza e ad altri esponenti dell’opposizione interna, che vedrà un momento di ulteriore impennata allorché, per illustrare quella che a suo avviso è una condotta contraddittoria sul tema della legge elettorale, si rivolge direttamente a Speranza dicendogli: «hai la faccia come il culo». Successivamente, accogliendo il richiamo rivoltogli dal Presidente del PD, Matteo Orfini, riformula la frase con l’espressione «faccia di bronzo» (successivamente Roberto Giachetti si scuserà con l’On. Speranza).
Da qui in poi, salvo che per i più preparati osservatori, è probabile che per il pubblico sia stato difficile seguire adeguatamente il prosieguo del ragionamento. Ma anche gli osservatori distratti, probabilmente, avranno percepito che lo stato d’animo di Giachetti sembrava essere quello di chi ritiene di avere troppo a lungo sopportato e di avere il diritto, e forse anche il dovere, di reagire ad un comportamento altrui, considerato come scorretto.
Quando ci troviamo a provare simili sentimenti, quando stiamo reagendo ad una condotta che ci pare offensiva nei riguardi della nostra persona e/o di quello che ci sta a cuore e in cui crediamo, la nostra temperatura emotiva spesso sale: l’indignazione e lo sconcerto provati, il gusto amaro del tradimento percepito, la fatica della precedente sopportazione, forse anche il dolore di delusioni sofferte e la preoccupazione di riviverle («mi sembra di trovarmi al gioco dell’oca», dice ad un certo punto Giachetti), la frustrazione accumulata per non aver potuto esprimere la nostra disapprovazione (oppure per non averla sentita adeguatamente ascoltata), possono accrescere la rabbia e spingerla a tradursi in comportamento aggressivo.
Scriveva Brian Muldoon in The Heart of Conflict che si reagisce all’ingiustizia chiedendo giustizia.
In tal caso, infatti, non troppo indirettamente, Giachetti interpella Renzi affinché prenda più netta posizione rispetto a quei comportamenti della minoranza del PD da lui considerati come incompatibili con l’essere moralmente ed eticamente degni membri di una comunità.
Come si è accennato in Il conflitto politico-amministrativo, le parti di un conflitto tendono inevitabilmente a cercare nell’autorità o nella leadership qualcuno che ne supporti le posizioni. Così la neutralità del leader, specie se affermatasi dopo una fase di partecipazione alla lotta, può essere vissuta da chi ne aveva condiviso le posizioni dall’inizio come un’incoerenza, perfino come una manifestazione di debolezza, finanche di resa al nemico, e può far sorgere un senso di tradimento.
Se questo è lo stato d’animo, cioè la percezione di essere stati lasciati soli nella lotta dai nostri alleati o dai nostri originari condottieri, scesi a più miti consigli, non è raro che si reagisca cercando di rilanciare l’escalation. E non lo facciamo perché siamo dei piantagrane o dei guastafeste, ma lo facciamo in nome di un principio, per difendere dei diritti e dei valori, per tutelare o affermare l’interesse che reputiamo comune a tutti. Lo facciamo, ritenendoci nel giusto.
Il punto è che la ripresa della spirale crescente del conflitto può non facilitare quegli obiettivi che la nostra ricerca di giustizia ambivano a realizzare.
Tra questi, in primo luogo, sempre secondo Muldoon, vi sarebbe l’appagamento del bisogno di riconoscimento. Occorre precisare al riguardo, però, che non è un bisogno narcisistico di tipo infantile: è un’umana esigenza, ed è propria della nostra natura sociale di esseri umani.
Per semplificare le cose, pur sperando di non banalizzarle troppo, le frasi pronunciate da Speranza a margine dell’Assemblea, quale commento sulla relazione del Segretario del PD, prima dell’intervento di Giachetti, e quelle di quest’ultimo nel corso del suo intervento in quell’assemblea, paiono proprio contenere una richiesta di riconoscimento. Che però la logica del conflitto inesorabilmente nega.
Si è già asserito che l’escalation del conflitto impoverisce e a volte mortifica le possibilità per i terzi di cogliere le profondità e lo spessore dei temi dibattuti (si veda l’articolo su questo blog Il conflitto politico e la sua escalation). E ciò potrebbe essere accaduto anche a coloro che partecipavano all’Assemblea o, più probabilmente a chi la seguiva in streaming, anche per via delle reazioni del pubblico innescate dalla frase di Giachetti sopra citata.
In effetti, ci pare che nel discorso di Giachetti si potessero rinvenire anche spunti di particolare rilevanza e problematicità circa aspetti fondamentali per la vita di un gruppo organizzato. Ad esempio i seguenti: l’individuazione di confini interni all’organizzazione tra la libertà di espressione di tutti, e in particolare della minoranza, e il rispetto da parte di questa delle posizioni della maggioranza; la ricerca di una distinzione tra dissenso legittimo dalle opinioni altrui e la delegittimazione di chi le esprime; più, in generale, la precisazione del limite tra libertà e anarchia all’interno di un’organizzazione democratica; in termini ancora più vasti e complessi, la definizione di regole applicabili concretamente di volta in volta nella dialettica tra diritti e doveri della maggioranza e della minoranza.
Presumibilmente di non minore spessore erano i temi accennati o implicati nelle dichiarazioni di Speranza all’esterno dell’Assemblea, nei suoi riferimenti alla necessità da parte del Partito Democratico di porre in essere una maggiore attenzione ai problemi delle persone reali, alle questioni sociali, al disagio e alla sofferenza.
Infine, va rilevato come anche nel conflitto (ci permettiamo di definirlo così) preso ad esempio vi sia un intreccio non trascurabile tra valori, principi, obiettivi, strategie e vissuti personali delle parti.
Anche su tale piano, il fattore riconoscimento probabilmente non andrebbe sottovalutato. Infatti, appena accennato, peraltro in maniera indiretta, nelle parole di Giachetti vi era il riferimento al suo sciopero della fame (ne ha fatti due, uno di 123 e l’altro di 68 giorni, ricorda egli sul suo sito), condotto proprio per sollecitare il Parlamento al superamento del sistema elettorale stabilito dal Porcellum.
Non vi è nulla di inedito in tale intreccio: i conflitti, anche quelli che interessano il mondo della politica, sono conflitti tra esseri umani. E, sarebbe, se non assurdo, almeno poco pratico voler negare l’importanza del lato umano.
Del resto è proprio l’umano sentimento della diffidenza reciproca quello che pervade i commenti degli uni e degli altri interlocutori di un conflitto circa le manifestazioni reciproche – magari timide – di apertura.
A titolo esemplificativo, si può pensare a come il Presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, il giorno seguente a quello dell’Assemblea, alla domanda postagli dalla conduttrice Bianca Berlinguer nel programma Cartabianca, circa la fase “zen” annunciata da Renzi (cioè, la fase del dialogo e dell’ascolto), abbia risposto manifestando tutto il suo scetticismo: ha parlato, infatti, della necessità di una psicoterapia affinché tale cambiamento di atteggiamento del Segretario del suo partito si avveri.
In effetti, uno degli elementi strutturali del conflitto, particolarmente rilevabile nell’escalation dello stesso, è proprio la propensione dei protagonisti a interpretare in maniera rigida i comportamenti della controparte suscettibili, astrattamente, di plurime possibilità interpretative. Sicché, spesso, anche quegli atti compiuti da una parte con l’intenzione di segnalare una, magari prudente, disponibilità all’apertura dalla controparte non vengono creduti sinceri e sono intesi, invece, come dettati dalla scoperta di essere soccombenti nel conflitto in corso, oppure come caratterizzati da finalità recondite, da intenti manipolativi o da qualcosa di ancora più pericoloso.
In fondo non sarebbe strano, se si affacciasse alla mente delle parti il ricordo (il fantasma) del Patto di Monaco del ’38: cioè, quell’accordo – frutto della conciliante politica di appeasement con Adolf Hitler condotta dal premier britannico, Neville Chamberlain, con l’approvazione dall’allora ambasciatore statunitense a Londra, Joseph Patrick Kennedy, padre del futuro presidente John F. Kennedy – il cui ricordo influenzò più di vent’anni dopo, anche per motivi biografico-familiari, i rapporti di JFK con il Segretario del PCUS, Nikita Sergeevič Chruščëv (cfr. JFK. John Fitzgerald Kennedy, una vita incompiuta di Robert Dallek).
In breve, quando il sentimento umano della fiducia è stato ferito, la guarigione non è scontata. Anzi molte volte più che ad una guarigione occorrerebbe dare luogo ad una resurrezione.
Chissà che non vi sia anche una simile – naturale e umana – dimensione nelle difficoltà di dialogo che interessano spesso i rapporti politici: quelli interni al Partito Democratico, cui si è fatto qui un breve e “strumentale” cenno, quelli tra esponenti di forze politiche diverse e quelli tra politici e cittadini.
Abbandoniamo ora questo esempio, scusandoci ancora una volta con gli interessati per l’uso che abbiamo fatto delle loro dichiarazioni e reazioni.
Alberto Quattrocolo
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