Distanziamento sociale per l’ odio politico
Suggerire un distanziamento sociale per evitare il contagio da odio politico non significa, sia chiaro, sostenere la necessità di mettere il bavaglio all’espressione di principi, valori, idee, programmi, opinioni, ecc. Si tratta, infatti, di un distanziamento sociale per l’odio politico e non per il dibattito politico, quindi non per le discussioni, i dissensi, né le critiche aspre, severe e senza sconti.
Espressioni di odio politico come modalità relazionali divenute “normale”
Il distanziamento sociale per l’ odio politico è riferito ad un insieme enorme di rapporti caratterizzati da aggressività e faziosità, da dogmatismo e ottusità, da pregiudizi e diffidenze: insomma da una dinamica in cui l’Altro, quello che non la pensa come noi, quello che consideriamo diverso da noi, è il Nemico. Non è un interlocutore con cui discutere, ma un’entità da delegittimare, screditandola e criminalizzandola. Non è un soggetto ma un qualcosa che abbiamo mentalmente de-umanizzato, da demonizzare ulteriormente, anche attraverso diffamazioni e calunnie. È un essere rappresentato e trattato come una realtà maligna, come un mostro di perversione e cattiveria. È descritto e raccontato come un essere diabolico che non sa far altro che cospirare, da quel doppiogiochista infido, bugiardo e traditore che appare ai nostri occhi e/o che vogliamo appaia agli occhi degli altri. E questi “altri” sono sia coloro che stanno già dalla nostra parte sia coloro che vogliamo guadagnare alla nostra causa.
Negli ultimi anni, questa tendenza del confronto politico a trasformarsi in conflitto ha vissuto una radicalizzazione e un’impennata esasperate ed esasperanti nella nostra società. Ogni asserzione o dichiarazione del concorrente politico e, talora, perfino dell’alleato, è fatta oggetto di interpretazioni e distorsioni all’insegna della delegittimazione o, peggio, della criminalizzazione. Lo spazio per la critica costruttiva è stato semplicemente annullato, venendo soppiantato dalla diffusione di rappresentazioni caricaturali del concorrente, da una sistematica manipolazione e strumentalizzazione di fatti e notizie, dalla produzione industriale di stimoli alla rabbia, al risentimento e alla paranoia [1]. E, purtroppo, questa dinamica relazionale non ha interessato soltanto il confronto tra gli esponenti politici nei luoghi nei quali costoro tipicamente si confrontano: vale a dire, i luoghi istituzionali (il Parlamento e le altre assemblee), gli studi televisivi e le piazze virtuali. Tale modalità aggressiva e squalificante di rapportarsi gli uni agli altri è diventata la normale interazione anche tra i non politici, tra le persone comuni [2].
È più facile comprare tonnellate di odio politico che chili di proposte, programmi e contenuti
Ma questa infezione non è arrivata dalla natura come quella del Coronavirus [3]. La diffusione di questa sorta di virus relazionale – se come tale vogliamo considerare l’odio politico – è stata il frutto di un felicissimo incontro tra domanda e offerta sul mercato politico.
Sul lato dell’offerta, non si può negare che vi sia stata – e, malgrado la pandemia, che ci sia ancora – una deliberata e sistematica offerta di una comunicazione politica in cui l’ odio politico era il principale ingrediente: questa politica ultra-conflittuale, posta in essere con metodi sofisticati, costosi e di livello industriale, è stata condotta con enorme successo da non poche forze politiche, le quali, adattando noti e raccapriccianti esempi storici di manipolazione collettiva alle peculiarità della nostra epoca, hanno seminato una propaganda tutta tesa a stimolare rancore e rabbia. Cercando di fare credere al maggior numero possibile di persone di essere vittime innocenti e ingenue sia della cattiveria sopraffina e cospirativa di alcune entità spersonalizzate, sia dell’inguaribile perversione di alcuni leader, descrivendoli come se fossero stati gli unici o i maggiori colpevoli del disagio sociale, della crisi economica e di tutto ciò che procurava un vissuto di frustrazione, insicurezza e paura [4].
Sul lato della domanda, si potrebbe facilmente osservare che una rilevante maggioranza degli elettori italiani non ha resistito all’offerta sventolatagli sotto il naso e si è precipitata ad acquistare complotti, capri espiatori e altri artifici retorici deresponsabilizzanti, senza badare alla esorbitante entità del prezzo – economico, sociale, politico e umano – pagato. Del resto, è più facile vendere rabbia e intolleranza, veicolate con slogan facili da afferrare, che vendere programmi e proposte basate sulla complessità della realtà, quindi sulla necessità di ingaggiarsi in percorsi di conoscenza. È più agevole, per chi vende, mettere in commercio odio e timore, proiettandoli su bersagli ad hoc trasformati in una specie di beni di consumo, perché, per chi compra, è più semplice acquistare quei prodotti di facilissimo consumo. Mentre più impegnativo e faticoso è acquistare occasioni di investimento intellettuale, le quali costringono a leggere, informarsi, confrontarsi, studiare, mettersi in discussione, verificare le proprie e altrui responsabilità ed errori. In sintesi, è immensamente più facile commercializzare l’odio che indurre il prossimo a pensare.
Una perfetta intesa tra spacciatori di odio politico e consumatori
L’ odio politico si vende e si compra facilmente anche perché chi lo vende non lo definisce come tale; né chi lo compra lo riconosce come tale. Il venditore lo propone come il sacrosanto diritto ad essere indignati, offesi, arrabbiati e risentiti; chi compra l’odio politico acquista anche, se già non ne è adeguatamente fornito di suo, alcuni di quelli che Bandura, analizzando il bullismo, chiamava i meccanismi di disimpegno morale. In sostanza, si tratta di quei meccanismi mentali che consentono di non avere problemi di coscienza, sentendosi e pensandosi vittime di comportamenti ingiusti commessi da coloro contro i quali si rivolgono disprezzo e odio e si esercita la violenza. Così, si crea una perfetta intesa tra lo spacciatore di odio politico e il suo consumatore, i quali, infatti, mai, neppure per un momento, si sentono in colpa per la violenza dei loro comportamenti pubblici.
Ciò rende l’interruzione di questa dinamica decisamente difficile, quasi una missione impossibile. Perché chiunque la focalizzi viene visto come un nemico, come un membro della cospirazione, intento a collaborare al complotto.
Invece di gestire il conflitto ne siamo gestiti
Però, l’ odio politico non è un’esclusiva degli iscritti o militanti di destra, di centro o di sinistra, di questa o di quella forza politica: è stato assunto o è penetrato nella pressoché totalità delle forze politiche, giovandosi di una fertilità di fondo (risalente a decenni di storia politica all’insegna della squalificazione dell’avversario). Sprizzare l’ odio politico è divenuto, quindi, un modo comune di esprimere il proprio parere su questo o quell’argomento di rilevanza pubblica. Non si argomentano le proprie opinioni, né ci si sforza di capire di capire le ragioni dell’altro. Anzi, spesso neppure ci si degna di considerare l’argomento di cui l’interlocutore sta parlando. Non leggiamo o non ascoltiamo il contenuto proposto dall’altro, reagiamo solo all’emozione che associamo alla persona che propone quel parere o suggerimento. In altri termini, i nostri stati d’animo nel partecipare o nel seguire il dibattito sono quelli governati dalla dinamica del conflitto più parossistico.
Ci troviamo, così, a vivere il presente e a guardare al futuro con sentimenti e pensieri latamente paranoici, i quali non ci permettono di avvicinarci alla comprensione della realtà, ma ci fanno reagire, un po’ come il cane di Pavlov, a certi particolari stimoli, all’apparire dei quali siamo stati condizionati a schiumare rabbia.
La spirale autodistruttiva dell’ odio politico
Ora, se questa condizione è estremamente funzionale a sistema politici illiberali e autoritari, in quelli democratici, invece, essa è decisamente disfunzionale e autodistruttiva. I sistemi democratico-liberali, infatti, funzionano ed evitano il collasso, se c’è la condivisione da parte di tutti gli attori politici di alcuni comuni principi di base e soprattutto se c’è una minima reciproca legittimazione. Quest’ultima, naturalmente, non esclude il conflitto, ma esclude da parte di un soggetto politico la rappresentazione come Nemico Pubblico Numero Uno di coloro che hanno una visione, una proposta o una sensibilità politica diversa: un simile atteggiamento, infatti, è logicamente prodromico a tentazioni, e perfino a tentativi, di svolte autoritarie [5]. La trasformazione dell’interlocutore in un essere minaccioso, infatti, lo delegittima e lo squalifica dal gioco, autorizzando il soggetto delegittimante a proporsi e ad essere considerato come il solo attore legittimato a stare sulla scena politica. È una tendenza che abbiamo già visto tante volte in Italia, ma forse mai con una tale radicata diffusione. È una febbre insidiosa, potenzialmente letale per la libertà e la democrazia, la cui temperatura può essere misurata in tanti modi e con tanti termometri. Uno di questi è quello che rileva quanto nelle piazze – oggi soprattutto in quelle virtuali – si arriva a detestare, come se fosse il peggiore dei nemici, non soltanto l’appartenente allo schieramento politico concorrente, ma anche chi, appartenendo al nostro, ogni tanto, osa rompere gli schemi conflittuali e, guardando oltre il reticolato, dice:
«Forse il nostro avversario questa volta ha detto una cosa su cui può valere la pena discutere».
Chi si azzarda a compiere un tale gesto nel migliore dei casi viene accusato di buonismo o di correttezza politica, che sono ormai considerati due delitti gravi (ne avevamo parlato all’interno di questa rubrica in alcuni post, tra cui La politica della scorrettezza politica).
La misura privata del distanziamento sociale per l’ odio politico
Per contrastare il diffondersi della pandemia un elevato numero di governi, a partire dal nostro, hanno fatto ricorso alla misura del distanziamento sociale, con diversi livelli di severità. L’efficacia di tali provvedimenti, almeno negli stati democratici, è assicurata in larghissima parte dall’adesione della gran parte dei cittadini. Se i cittadini in massa si rifiutassero di osservare tali vincoli, questi in un baleno diverrebbero lettera morta. Di fatto, quello a cui stiamo assistendo è una condizione di auto-isolamento, che, ovviamente, è allo stesso tempo individuale e collettivo. Ed è frutto di una collettiva e individuale assunzione di responsabilità.
Ebbene, la proposta di un distanziamento sociale per l’ odio politico si colloca su questo registro. Non come invito a tenere un comportamento di censura da indirizzare agli altri, ma come atteggiamento interno, individuale – anzi, decisamente personale -, ma non per questo nascosto. La presa di distanza, in altri termini, andrebbe declinata in primo luogo dentro di sé: attivata coscientemente una risposa intimamente espulsiva ogni volta che ci si imbatte in un articolo, una dichiarazione, un commento, un post, ecc. schiumanti di rabbia e tesi stimolare l’ odio politico all’indirizzo di qualcuno, si tratta poi di prendere le distanze in termini relazionali dall’ hater, magari spiegandogliene il perché. Non occorrerebbero, infatti, poi, molte parole, basterebbe dirgli o scrivergli che quel violento modo di comunicare non ci piace, che ci interessano le discussioni sui temi e non gli attacchi ad personam.
I politicanti-spacciatori e i sudditi-consumatori pensano alle prossime elezioni, gli statisti e i cittadini pensano alle prossime generazioni
Se vogliamo davvero che i nostri rappresentanti politici tentino di affrontare con intelligenza lungimirante la sfida immensa rappresentata dalla pandemia e dai suoi effetti, occorre aiutarli e motivarli a compiere questo notevolissimo sforzo e sostenerli nell’essere all’altezza di quel compito. Il che presuppone che anche noi si sia all’altezza della sfida, nei più contenuti limiti delle nostre possibilità. Perché è vero che in un sistema democratico-liberale sta agli eletti discutere e decidere, ma non si può scordare che gli eletti sono il nostro specchio: ci piaccia ammetterlo oppure no, ci rappresentano anche nel senso ci riflettono (visto che, tra l’altro, non arrivano da Marte e che siamo noi ad averli votati senza che nessuno ci costringesse a farlo con una pistola alla tempia o minacciandoci di spedirci in carcere o al confino). Certo non passeranno mai di moda le citatissime parole di De Gasperi:
«i politici pensano alle prossime elezioni, gli statisti alle prossime generazioni».
Ma, non possiamo scordarci che c’è un doppio legame tra rappresentanti e rappresentati: se questi ultimi non sanno o non vogliono pensare alle prossime generazioni, anzi se non sono disposti a pensare ma preferiscono comprare odio e spargerlo in giro, difficilmente stimoleranno i politici che li rappresentano a volgere il pensiero alle prossime generazioni. Detto a mo’ di slogan:
«i politicanti-venditori e i sudditi-consumatori pensano alle prossime elezioni e ai sondaggi, gli statisti e i cittadini pensano alle prossime generazioni».
Alberto Quattrocolo
[1] Forse anche noi di Me.Dia.Re. siamo rimasti intrappolati in tale situazione, senza riuscire a divincolarci. In questa rubrica, infatti, dal suo apparire e per un certo periodo, direi fino al 2018, sono stati pubblicati molti post sul tema della conflittualità in ambito politico e della sua possibile gestione, poi abbiamo riposta carta e penna nel cassetto, limitandoci ad un paio di articoli. Perché? Per mancanza di tempo, per scarsità di riscontri e per altre svariate ragioni, incluso, e probabilmente per primo, il fatto che dall’inizio del 2018 si è passati da un’elezione all’altra: prima le politiche del marzo 2018, poi le europee, poi le regionali, poi di nuovo le regionali… E, pensavamo, non sarebbe stato “carino” continuare a scrivere post che, come gran parte di quelli dedicati al tema del nazionalrazzismo, finivano con l’essere di fatto una sorta di presa di posizione nelle competizioni elettorali. Oggi, però, francamente, quello scrupolo è diventato obsoleto.
[2] All’inizio di un post del 26 gennaio 2017 avevamo ricordato che nel messaggio agli italiani del 31/12/2016 il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella aveva proposto la seguente riflessione: «Internet è stata, e continua a essere, una grande rivoluzione democratica, che va preservata e difesa da chi vorrebbe trasformarla in un ring permanente, dove verità e falsificazione finiscono per confondersi». Queste parole chiudevano il suo commento preoccupato circa l’impiego dell’«odio come strumento di lotta politica». Oggi, oltre tre anni dopo, l’odio come strumento di lotta è ancor più capillarmente diffuso e intensamente potenziato di quanto non fosse allora. Più di quanto accadesse prima, la violenza verbale – aspetto intrinseco dell’inesorabile escalation del conflitto politico e manifestazione comportamentale dell’ odio politico – dilaga sui social, essendo diventata un modo “normale” di esprimersi e relazionarsi con chi ha un punto di vista diverso.
[3] Tre anni fa, il 19 aprile del 2017 avevamo pubblicato un post sulla violenza verbale nella rete come crescente modalità di partecipare al dibattito politico: C’è in giro un virus di cui non si parla (abbastanza)
[4] Così si sono condotte capillari e martellanti campagne d’odio contro bersagli ben precisi: gli immigrati e coloro che sono favorevoli al riconoscimento e al rispetto della loro vita e della loro dignità umana; alcune categorie sociali e professionali, come i politici di lungo corso, i sociologi, gli storici, gli economisti, i politologi, i virologi, gli epidemiologi, gli assistenti sociali, ecc.; alcuni gruppi di enti, come le organizzazioni non governative (ONG), le associazioni di volontariato, le cooperative sociali, le imprese bancarie, le aziende farmaceutiche; le istituzioni appartenenti, o comunque ricondotte dal pensiero comune, all’Unione Europea; alcuni leader di altri Paesi come Macron e la Merkel; alcuni leader nostrani, e qui l’elenco è lungo e va almeno dalla B, di Laura Boldrini alla R di Matteo Renzi; il Papa; George Soros…
[5] Il 13 marzo 2017 era stato pubblicato un post intitolato Dalle fiamme del conflitto politico può levarsi una puzza di “fascismo involontario”?
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