Differenze e similitudini tra mediazione familiare e mediazione penale
Il 7 luglio 2021 abbiamo fatto una chiacchierata a tre sul vasto tema della mediazione penale. Le domande, o, per meglio dire, le sollecitazioni alla riflessione, tutt’altro che banali, poste da Antonella Sapio, Maria Rosaria Sasso e Maria Alice Trombara a Giovanni Grauso e Alberto Quattrocolo sono state tre. La prima delle questioni esplorate è stata quella delle differenze tra mediazione familiare e mediazione penale dal punto di vista operativo.
Il quesito posto da Maria Rosaria Sasso ad Alberto Quattrocolo, infatti, è stato:
«Gli ambiti di applicazione della mediazione sono tanti; perciò, per fare chiarezza a beneficio di chi ci ascolta, che differenza c’è nell’operato di chi fa mediazione familiare rispetto a chi svolge un’attività di mediazione penale?»
Il contesto giuridico
Le differenze tra mediazione familiare e mediazione penale ovviamente sono relative soprattutto ai protagonisti e al contesto. Riguardo a quest’ultimo, in primo luogo, occorre considerarlo in termini giuridici. La mediazione familiare riguarda la gestione di conflitti disciplinati da norme di diritto civile e in particolare quelle sulla famiglia, sulla separazione, sul divorzio, sulla tutela del minore e così via. La mediazione penale riguarda conflitti legati alla commissione di un reato, perciò le norme sono quelle previste dal diritto penale; e l’autorità giudiziaria competente e le altre istituzioni e strutture coinvolte sono quelle di tale ramo dell’ordinamento.
Il contesto relazionale
Ma, oltre a ciò, rispetto al rapporto tra mediazione familiare e mediazione penale va rilevato che anche lo sfondo e le vicende sono diverse. Da un lato, c’è una coppia genitoriale che sta vivendo un conflitto. Pertanto, soffermando l’attenzione su cu ciò che occorre apprendere ai fini della preparazione allo svolgimento della professione di mediatore familiare, non a caso, i percorsi formativi prevedono l’acquisizione di conoscenze connesse a tale dimensione. Mentre per la mediazione penale è opportuno avere altre conoscenze teoriche e, segnatamente anche quelle criminologiche e vittimologiche. In particolare, può essere decisamente utile conoscere, da una parte, il processo di vittimizzazione, dall’altra, i meccanismi di disimpegno morale che possono attivarsi nella mente dell’aggressore prima, durante e dopo l’esecuzione della condotta lesiva.
Il processo di vittimizzazione
Gli spunti di Viano sugli stadi del processo di vittimizzazione, infatti, sono spesso utili al mediatore quando deve ascoltare e rapportarsi con la vittima. Analogamente la conoscenza dei meccanismi mentali di autogiustificazione della condotta aggressiva tornano molto utili sia nell’ascoltare il presunto reo che nel valutare l’opportunità di accompagnare le due parti all’incontro di mediazione, onde prevenire i rischi di una rivittimizzazione da parte dell’aggressore nei confronti della vittima, specie se il primo persiste in una condizione di totale negazione dell’esistenza reale e dell’umanità della seconda.
I meccanismi di autogiustificazione
Tuttavia, i meccanismi di autogiustificazione sono ravvisabili largamente anche nei nostri quotidiani conflitti non tradottisi in condotte penalmente rilevanti. Possono rilevarsi, dunque, anche in quelle relazioni conflittuali di coppia che vengono gestiti in sede di mediazione familiare. Sicché questo, in realtà, è un tema che pertiene alla mediazione dei conflitti in generale, non soltanto alla mediazione penale, e che andrebbe, quindi, secondo me, esplorato con cura anche nei percorsi formativi sulla mediazione in ambiti diversi da quello penale.
Il tema della violenza
Quest’ultimo rilievo vale anche per la tematica della violenza, ricco di implicazioni anche sotto il profilo dei rapporti tra mediazione familiare e mediazione penale. Pensiamo, per esempio, alla violenza nelle relazioni affettive. È particolarmente importante per un mediatore penale non essere a digiuno su tale tematica, come lo è per un mediatore familiare (ne abbiamo parlato anche in questo post della rubrica Riflessioni). Il che vale anche per quella particolare forma di condotta dannosa che è la violenza psicologica, tanto sottovalutata quanto lesiva (abbiamo affrontato il tema in questo post). Pertanto, nella mediazione penale e nella mediazione familiare occorre essere preparati all’eventualità di trovarsi di fronte ad una relazione caratterizzata da violenza. Il che significa: da un lato, avere conoscenze e competenze adeguate, quindi degli strumenti; dall’altro, avere dei dispositivi che consentano di poter impiegare al meglio quelle conoscenze, cioè, un setting in cui poter usare in maniera idonea quegli strumenti nei percorsi di mediazione penale e di mediazione familiare. Così, ad esempio, nel modello Morineau, che è il più impiegato dai mediatori penali, si prevede di svolgere dei colloqui individuali preliminari all’incontro di mediazione. È chiaro che in tali colloqui individuali la persona maltrattata ha maggiori possibilità di rivelare la violenza inflittale, e di parlarne, rispetto alle situazioni in cui, accanto ad essa, si trovi seduta la persona maltrattante.
Quest’elemento dei colloqui individuali rinvia ad un’altra distinzione tra mediazione penale e mediazione familiare, giacché ben pochi modelli teorici e operativi di quest’ultima prevedono lo svolgimento di colloqui individuali come fase necessariamente preliminare all’incontro di mediazione. Anzi, per lo più si prevede come condizione per l’accesso al percorso la contestuale comparsa fin dal primo momento di entrambi le parti davanti al mediatore.
Nel nostro modello, cioè in quello di Me.Dia.Re., che definiamo di Ascolto e Mediazione (il modello è compiutamente descritto in Quattrocolo A., D’Alessandro M. Ascolto e Mediazione. Un approccio pragmatico alla gestione dei conflitti, Franco Angeli srl, Milano, 2021), si prevede, invece, la realizzazione di colloqui individuali nei percorsi di mediazione penale e di mediazione familiare, nonché nelle mediazioni di conflitti sorti in altri ambiti relazionali. Anzi, nella nostra impostazione, si prevede che prima dell’eventuale incontro di mediazione vengano svolti almeno due colloqui individuali con ciascun attore del conflitto e che tra un incontro di mediazione e l’altro si svolgano dei colloqui individuali. Le ragioni alla base di tale accorgimento non sono collegate soltanto al tema della violenza, ma è chiaro che questo non trascurabile ricorso al colloquio individuale aumenta le situazioni in cui i protagonisti del conflitto si trovano a tu per tu con il mediatore, costituendo, pertanto, una risorsa preziosa per l’emersione di eventuali situazioni di violenza.
L’elemento in comune del conflitto e i diversi ruoli, e le diverse possibilità di approccio ad esso, nella mediazione penale e in quella familiare
Ovviamente ci sono anche elementi comuni tra mediazione familiare e mediazione penale: il conflitto, in primo luogo, con le sue dinamiche di spersonalizzazione reciproca, perfino di de-umanizzazione, e in generale con la sua tendenza all’escalation.
Quindi, se è facile immaginare i partecipanti ad un percorso di mediazione familiare, che, nella versione classica di questo tipo di mediazione, sono i membri di una coppia (di fatto o di diritto) di genitori di uno o più figli minorenni che stanno vivendo una vicenda separativa in modo conflittuale, nel caso della mediazione penale è un po’ meno immediato delineare la categoria dei soggetti cui si indirizza. Infatti, va considerato che la mediazione familiare riguarda la gestione di un conflitto tra persone le quali hanno un rapporto che si è sviluppato nel tempo ed è caratterizzato da sentimenti profondi e complessi riguardanti anche altre persone. La mediazione penale può avere, invece, come utenti due persone che non si erano mai viste prima, se il conflitto è nato dalla commissione di un reato e non viceversa. Anzi, in taluni casi, l’autore e la vittima non si sono conosciuti neppure al momento della commissione del reato, come, ad esempio, nel caso del furto in un appartamento in quel momento disabitato.
In comune tra mediazione familiare e mediazione penale, quindi, c’è la gestione del conflitto, ma ci sono delle differenze che riguardano l’eterogeneità degli approcci possibili da parte del mediatore per governare quelle dinamiche.
Come probabilmente avete spiegato in altre interviste e conversazioni, infatti, i modelli di mediazione familiare sono molteplici e, per certi versi, ciascuno risponde, nella pratica operativa, ai modi diversi degli esseri umani di vivere il conflitto e di percepire e reagire alla proposta mediativa.
In ambito penale il modello prevalente è quello cosiddetto Umanistico, di cui un alfiere e una pioniera è stata certamente Jacqueline Morineau. Ebbene, la caratteristica che più salta all’occhio della Mediazione Umanistica è che non persegue un esito conciliativo e, pertanto, non adotta una prospettiva negoziale, di facilitazione di un processo di concessioni reciproche tra le parti, mentre concentra l’attenzione in maniera molto forte sulla dimensione emotiva.
L’accoglienza della dimensione emotiva come accoglienza delle persone al di là del ruolo
Ne deriva che, per chi vuole prepararsi ad operare come mediatore penale, è imprescindibile attrezzarsi alla gestione degli aspetti emotivi, a volte quelli più disturbanti, deflagranti, perturbanti, che possono concretizzare le diverse situazioni relazionali che si andranno ad incontrare. E le persone che s’incontrano in mediazione penale, non meno che in una mediazione familiare, non sono riducibili a dei ruoli.
La non trascurabile natura umana dei protagonisti dei partecipanti ai percorsi di mediazione familiare e mediazione penale
È vero, cioè, che la mediazione penale è tra vittima e autore del reato – presunta vittima e presunto autore, se il percorso di mediazione penale si svolge prima della sentenza di condanna definitiva -, però, non sono due entità astratte, sono esseri umani in carne e ossa, con una loro storia, un loro presente e un loro futuro. E ciò significa che vanno ascoltate al di là del ruolo, vanno ascoltate come persone, nella loro umanità, che è complessa, sfaccettata, tridimensionale. Il ché, a mio parere, per tutti i tipi di percorsi, quelli appunto di mediazione familiare e mediazione penale nonché quelli di mediazione in altri ambiti relazionali.
«Quindi, da quanto è emerso, possiamo dire che mentre nella mediazione familiare c’è una coppia, quindi, anche un legame da ricostruire, nella mediazione penale ci sono delle persone che potrebbero neanche conoscersi, perciò c’è una ferita da sanare, perché la vittima è la parte debole?», osserva Maria Rosaria Sasso.
Sì, riguardo al tema delle ferite, va precisato che mentre la mediazione familiare sorge per prevenire e contenere i danni che il conflitto tra i genitori può arrecare ai figli, i quali sono tutelati dall’esterno (cioè, sono tutelati dal mediatore che tenta di governare quel conflitto, ma non partecipano direttamente ad esso), nel caso della mediazione penale non c’è un soggetto terzo di cui si persegue la tutela. La mediazione penale, in effetti, non sorge per proteggere qualcun altro, ma solo per accogliere e dare prossimità ai protagonisti della vicenda. Nasce, in altri termini, come attività di Giustizia Riparativa, la quale non si dà fini altri e ulteriori rispetto a quelli riguardanti i soggetti che vi partecipano. Poi, certamente, c’è anche la comunità, come aspetto centrale, nell’approccio della Giustizia Riparativa, ma non nel senso di una sua tutela diretta, come accade invece al minore rispetto alla mediazione familiare, che lo tutela dalla sofferenza procuratagli dalla conflittualità sorta tra i genitori.
È possibile vedere qui il video in cui Alberto Quattrocolo risponde a questa prima domanda dell’intervista. Mentre qui si trova il video integrale dell’intervista
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