Conflitti, rabbia e frustrazione sullo sfondo del socialrazzismo
I conflitti sottesi al socialrazzismo e quelli che esso produce sono un problema politico
Nella probabilmente ingenua e certamente parziale prospettiva di chi lavora in un’associazione che si occupa di gestione dei conflitti in vari ambiti relazionali e sociali e che offre supporto psicoterapeutico e psicosociale alle persone e alle famiglie vittime della Crisi e ai rifugiati e richiedenti asilo e ai minori stranieri non accompagnati, mi pare che il socialrazzsimo sia leggibile anche in termini conflittuali. Cioè, come il frutto di conflitti non risolti e come la fonte di nuovi conflitti. Rispetto alla produzione di nuovi conflitti, mi limito ad osservare che è difficile immaginare che un gruppo, di persone, oggetto di aggressioni e soprusi possa rassegnarsi a tale tipologia di trattamento. E del resto, il socialrazzismo sta già spaccando la comunità degli autoctoni, dividendola tra coloro che condividono tali pensieri, sentimenti, atteggiamenti e comportamenti e coloro che li avversano. Tale conflittualità si sviluppa non soltanto sui media – come, per dire, nella polemica tra Roberto Saviano e Matteo Salvini, in relazione alla “minaccia” del segretario della Lega Nord di togliere la scorta a Saviano, se e quando il suo partito sarà al Governo (in realtà, essendo lo Stato italiano una democrazia, per quanto imperfetta, l’attribuzione di tale forma di protezione a magistrati, giornalisti ecc. minacciati dalla criminalità organizzata o da organizzazioni terroriste, è concessa da una commissione tecnica e non è sottoposta a valutazioni discrezionali, legate alla conformità del soggetto da proteggere alle opinioni di chi è al governo).
La dimensione conflittuale generata dal socialrazzismo nella nostra società è segnalata anche dal fatto che vi è chi in sede politica propone, per contrastare il dilagare di un razzismo sempre più violento, l’adozione di norme punitive. Non mi sento di argomentare per dissentire da tale opzione. Tuttavia, sommessamente, rilevo anche che rischia di segnalare una debolezza, una posizione di scacco, non troppo dissimile, sotto un certo aspetto, dall’atteggiamento di chi manda in soffitta lo ius soli o ammorbidisce e perfino ridefinisce i valori e i principi che ne caratterizzano la natura politica per seguire l’onda montante del socialrazzismo e cercare di contenere la temuta perdita dei consensi.
Già altrove in più di un post su questo blog ho scritto che vi è la possibilità di una politica che cerchi anche di gestire i conflitti, ascoltando e facendo sentire comprese le persone, quindi accogliendo le critiche, senza perciò assecondarne i vissuti, ossia senza tradurre le emotività in azioni politiche (legislative o amministrative che siano).
Rabbia e frustrazione alla base del socialrazzismo
Ad esempio, se consideriamo il pensiero e soprattutto il comportamento di coloro che aderiscono al socialrazzismo, possiamo anche chiederci quali tipi di vantaggi immateriali, consapevolmente o meno, vogliono conseguire, agendo la violenza verbale o realizzando le altre forme di prepotenza e di discriminazione che lo concretizzano. Si potrebbe supporre, ad esempio, che il socialrazzista nel porre in essere la violenza verbale sui social o nell’agire un’altra forma di prepotenza, cerchi talvolta di risolvere in termini simbolici una situazione di impotenza, di cercare psicologicamente una via d’uscita da una condizione che gli pare non averne. Tale, infatti, è spesso uno dei vantaggi inconsapevolmente cercati dall’autore di un’aggressione fisica. Un altro è quello di cercare, attraverso la violenza, di fare chiarezza in una situazione confusa. Un terzo, vantaggio solitamente cercato nel passaggio all’atto violento, è quello tentare di ottenere attenzione, considerazione, visibilità, riconoscimento.
Infine, non andrebbe sottovalutato un altro aspetto: talora la violenza è connessa alla frustrazione per la mancata realizzazione di un progetto, di una speranza o di un desiderio. Tanto più il bisogno era prossimo ad essere soddisfatto, tanto più forte è la frustrazione se si frappone un ostacolo. Forse non possiamo escludere che la rabbia, risorsa nutrizionale principale del socialrazzismo, sia di tal natura. È possibile, cioè che anche in tal caso, come accade per altre ipotesi di violenza, la rabbia, invece di indirizzarsi verso la vera fonte dell’impedimento all’appagamento di un bisogno, si indirizzi – come asseriscono Dollard e Miller nella loro teoria della frustrazione – verso il bersaglio più a portata di mano e più indifeso, per quanto innocente o solo parzialmente collegato al reale autore dell’azione frustrante.
Questi ultimi, in fondo, sono soltanto degli spunti tanto modesti quanto inadeguati, come tutto il post, del resto, per cercare di ricordare, soprattutto al sottoscritto, che per affrontare in termini costruttivi un simile fenomeno, occorre cercare di comprenderne i termini. Occorrerebbe, forse, anche riuscire a sospendere il giudizio. Però, quando sono in gioco valori costitutivi, irrinunciabili per la tenuta del consorzio umano (e il razzismo li minaccia tutti radicalmente), non soltanto è difficilissimo riuscirci davvero, ma sorge anche il dubbio che sia giusto.
Alberto Quattrocolo
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