22/08/1938: censimento speciale nazionale degli ebrei in Italia

Razza: questo è un sentimento, non una realtà; il 95% è sentimento. Io non crederò che si possa provare che biologicamente una razza sia più o meno pura […]. Una cosa simile da noi non succederà mai. L’orgoglio nazionale non ha bisogno di deliri di razza […]. L’antisemitismo non esiste in Italia.[…] Gli ebrei italiani si sono sempre comportati bene come cittadini, e come soldati si sono battuti coraggiosamente.” da “Colloqui con Mussolini”, ed. Hoepli Milano, 1932

Sei anni dopo aver proferito tali rassicuranti affermazioni, Benito Mussolini avviò in Italia la campagna razzista e antisemita che, tra le altre cose, produsse il censimento degli ebrei, di cui oggi ricorre l’ottantesimo anniversario.

Fino agli anni Trenta del Novecento, l’Italia appariva come uno degli stati europei più liberali nei confronti della popolazione di origine ebraica, e l’antisemitismo esplicito era limitato a ristretti settori del mondo cattolico; in generale, gli ebrei italiani non si opposero all’ascesa del fascismo, non percepito come una minaccia, al punto che trecentocinquanta di loro parteciparono alla marcia su Roma e, nel 1933, circa il 10% della popolazione ebraica risultava iscritto al PNF (Partito Nazionale Fascista). Il fascismo, movimento inizialmente eterogeneo e nel quale la componente socialista rivoluzionaria era ancora forte nel primo dopoguerra, era stato inteso da una parte del mondo ebraico come il vero epigono del Risorgimento, che nel secolo precedente aveva posto le condizioni per il riconoscimento dei diritti civili agli ebrei italiani.

 

Ci fu una spinta tedesca?

Nell’Europa degli anni Trenta la diffusione e legittimazione dell’antisemitismo erano invece in crescita: la Germania di Hitler, salito al potere alla fine di gennaio del 1933 (lo abbiamo ricordato su questa rubrica, Corsi e Ricorsi, nel post Hitler non fece né un colpo Stato, né una rivoluzione) mostrò al continente che era tecnicamente, politicamente e moralmente possibile legiferare contro i propri cittadini ebrei (si pensi al boicottaggio del commercio ebraico del 1° aprile ’33 che abbiamo ricordato qui); tuttavia, gli storici non hanno riscontrato ingerenze tedesche dirette in tal senso su altri governi europei, nemmeno nei confronti dell’alleato italiano.

Nell’Italia del 1938, l’introduzione della legislazione antiebraica, sebbene connessa alle altre linee di azione del fascismo (processo di alleanza con la Germania nazista, sviluppo di una politica razzistica, costruzione di una “dignità imperiale” e di un “carattere fascista”), fu un atto di politica interna, con motivazioni riconducibili alla crescita dell’antisemitismo, all’ostilità del gruppo dirigente fascista per l’autonomia mostrata in più occasioni dagli ebrei, e probabilmente a interessi economici.

La campagna antisemita veniva portata avanti già da qualche tempo sui giornali controllati dal regime ed erano iniziate le intimidazioni nei confronti degli intellettuali di origine ebraica politicamente più esposti: si stava costruendo un clima.

La svolta decisiva

Il primo atto ufficiale in questa direzione si ebbe il 14 luglio 1938, con la pubblicazione del documento “Il fascismo e i problemi della razza”, noto anche come “Manifesto degli scienziati razzisti” (di cui abbiamo parlato nel post Il Manifesto della razza si presentò agli Italiani il 15 luglio 1938), che fornì le basi teoriche all’introduzione ufficiale del razzismo (pare che Mussolini si vantasse di esserne il vero autore). Il 17 luglio, l’Ufficio centrale demografico del Ministero dell’Interno cambiò nome e competenze diventando la “Direzione Generale per la demografia e la razza” (nota anche con l’acronimo di Demorazza), e circa un mese dopo fu creato l’Ufficio Studi del problema della razza, presso il gabinetto del Ministro della Cultura Popolare.

Il 22 agosto venne promosso il censimento speciale nazionale degli ebrei, come presupposto per la successiva emanazione delle leggi razziali, nell’idea di creare consenso popolare attorno ad esse, enfatizzando la pericolosità – mai percepita prima – della presenza ebraica sulla base dei numeri.

Furono richiamati in servizio dalle ferie estive prefetti, uffici comunali, carabinieri e responsabili del partito, per affidare loro il delicato compito, da svolgersi “fascisticamente, con celerità ed assoluta precisione”, richiedendo ai funzionari di mantenere massima segretezza sulla procedura (nei telegrammi la parola ebreo era cifrata).

Risultarono presenti in Italia 46.656 ebrei “effettivi” (aventi almeno un genitore ebreo), poco più dello 0,1% della popolazione (pari a circa 45 milioni), oltre a quasi 10.000 ebrei di nazionalità straniera.

La legislazione antiebraica dell’Italia fascista ebbe un’innegabile impostazione razzistica biologica: vennero perseguitate tutte le persone con ascendenti “di razza ebraica” e nessuna di quelle con ascendenti tutti “di razza ariana”, indipendentemente dalla religione professata.

Con le prime leggi razziali, furono stabiliti il divieto agli stranieri ebrei di fissare stabile dimora nel Regno, in Libia e nei Possedimenti dell’Egeo e l’espulsione di coloro vi risiedevano, inclusi quelli che avevano ottenuto la cittadinanza italiana dopo il 1º gennaio 1919; nel giugno 1940, circa metà di essi aveva lasciato la penisola, mentre gli altri vennero in maggioranza rinchiusi in campi di internamento, in attesa che la conclusione del conflitto rendesse possibile la loro espulsione.

In merito agli ebrei italiani, invece, il regime fascista non dispose la revoca generalizzata della cittadinanza; tuttavia, escludendoli dalle Forze Armate (tanto dal servizio permanente che dal servizio di leva), li escluse simbolicamente dalla nazione, dato che tale partecipazione costituiva uno dei cardini della cittadinanza.

La discriminazione fattuale

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L’azione governativa fu inizialmente volta a epurare gli ebrei dalla vita nazionale e a separarli dai non ebrei (divieto di matrimoni misti); le misure persecutorie avevano anche la funzione di stimolare i perseguitati a emigrare: sino alla chiusura delle frontiere nel 1941, era espatriato circa l’8 per cento degli ebrei italiani. Nel giugno 1940 il governo internò alcune centinaia di cittadini ebrei, tra cui molti oppositori politici; nel maggio 1942 ne assoggettò alcune migliaia al lavoro obbligatorio (noto anche come “precettazione”).

Con il licenziamento dagli impieghi pubblici e assimilati, disposto nel 1938, persero il lavoro 96 professori universitari, 133 assistenti universitari, 279 presidi e professori di scuola media, circa 100 maestri elementari, 200 liberi docenti, 400 dipendenti pubblici e 150 militari, mentre 200 studenti universitari, 1000 delle scuole secondarie e 4.400 delle elementari furono costretti a lasciare lo studio.

Contemporaneamente, iniziò la progressiva espulsione dalle attività e dagli impieghi privati: tra il 1938 e il 1942 furono revocate le licenze con autorizzazione di polizia (tra le altre, quella per la diffusa attività del commercio ambulante); nel 1939, gli ebrei furono sostanzialmente esclusi o emarginati dalle libere professioni; nell’aprile 1942, fu loro vietato di lavorare nei cantieri navali e negli stabilimenti “ausiliari alla difesa della nazione”; nel febbraio 1942, il Ministero delle Corporazioni ordinò ad aziende e uffici di collocamento di favorire sempre l’occupazione dei “lavoratori di razza ariana”; ai cittadini ebrei fu vietato di possedere, anche in parte, aziende commerciali o industriali non azionarie “interessanti la difesa della nazione” o con oltre 99 dipendenti e di possedere beni immobili oltre determinati valori.

I ministri dell’Educazione nazionale e della Cultura popolare realizzarono interventi di stampo totalitario nei rispettivi ambiti: furono proibiti i testi di autori “di razza ebraica” (anche in collaborazione con autori “di razza ariana”) e quelli contenenti riferimenti al pensiero di ebrei morti dopo il 1850; autori, concertisti, cantanti, registi e attori furono progressivamente esclusi dalla radio, dai teatri, dai cinema, dai cataloghi discografici; pittori e scultori non poterono più allestire mostre; gli editori cessarono di pubblicare nuovi libri di autori ebrei, mentre quelli già editi vennero sequestrati o lentamente ritirati dal commercio e sottratti alla consultazione nelle biblioteche.

Per spiegare l’incredulità e il senso di tradimento vissuti dagli ebrei italiani di fronte alle leggi razziali, così scrive oggi Lia Levi:

I provvedimenti contro gli ebrei continuavano a cadere a scansione lenta, come quei goccioloni radi ma già carichi che preludono alla tempesta. Si ritrovarono fradici senza neanche essersene accorti.”.

 

Silvia Boverini

Fonti:
www.anpi.it;
www.patriaindipendente.it;
www.wikipedia.it;
“L’Olocausto in Italia”, www.governo.it;
Mario Avagliano, “Il censimento del 1938”, 26/08/2014, www.moked.it;
Michele Sarfatti, “La persecuzione degli ebrei in Italia”, www.archivio.pubblica.istruzione.it;
Lia Levi, “Questa sera è già domani”, e/o, 2018; Emil Ludwig, “Colloqui con Mussolini”, Hoepli 1932 – Mondadori 2001.

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