6/11/2017 don Guidotti colpevolizza una giovane violentata per essersela andata a cercare
Una vittima di stupro che trova il coraggio di denunciare ciò che ha subito si muove su un terreno minato, purtroppo. La probabilità che le vengano attribuite delle responsabilità è grande, come dimostra la vicenda di due anni fa, in cui una ragazza di 17 anni, violentata su un vagone di un treno, è stata oggetto di un post su Facebook di eccezionale aggressività. Don Guidotti, un sacerdote di Bologna, si è infatti scagliato contro la ragazza, a suo avviso ambasciatrice della cultura dello sballo, che, proprio per questo, non meritava alcuna pietà.
La questione è stata analizzata anche all’interno di un articolo di Politica e Conflitto, uno dei blog di Me.Dia.Re., cui rinviamo per una lettura più approfondita.
Ciò che sembra emergere, in aggiunta, consiste nella forte influenza che i social media hanno sui nostri pensieri e sui comportamenti che ne derivano. Poche ore dopo la pubblicazione, infatti, lo stesso parroco ha ufficializzato le proprie scuse. Nonostante, a suo dire, avesse “immaginato di fare il commento all’articolo avendo davanti questa ragazza”, rimane la sensazione che, se davvero l’avesse avuta davanti, al posto di schermo e tastiera, toni e contenuti sarebbero stati alquanto diversi. A volte, può essere utile spendere pochi secondi in più, prima di pubblicare.
Alessio Gaggero
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Le radici della radicalizzazione. Contesti e modalità di intervento. 20-21 aprile ’18
VI INVITIAMO A PARTECIPARE AD UNA INIZIATIVA CHE PSICOLOGI NEL MOMDO ORGANIZZA INSIEME ALL’ASSOCIAZIONE ME.DIA.RE NELL’AMBITO DEL CORSO DI FORMAZIONE MIGRANDO 2018.
Le radici della radicalizzazione. Contesti e modalità di intervento.
20-21 aprile 2018
Cso Unione Sovietica 220/d
Il seminario si propone come un’occasione di approfondimento tematico, in prosecuzione delle problematiche affrontate nel corso-base di Migrando. Esso ha per oggetto le varie forme di radicalizzazione (da quella di matrice islamista a quelle derivanti da ideologie xenofobe) che si producono nello scenario contemporaneo e che si connettono ai processi di globalizzazione ed ai loro effetti sulle diverse società mondiali. Lo scopo del seminario è quello di avviare una riflessione su questi temi, specie nella prospettiva di chi opera nel quadro dei percorsi di accoglienza e di inclusione dei migranti, con particolare attenzione alla dimensione psicologica e psicosociale. Gli interventi previsti cercheranno di mettere a fuoco cause e ricadute della radicalizzazione, come pure le necessità e possibili indirizzi dell’intervento psicologico in questo campo.
Il seminario si rivolge ad operatori dell’accoglienza e a persone interessate ai temi della psicologia transculturale (non solo psicologi, ma anche antropologi, sociologi, medici, psichiatri, educatori, giuristi, assistenti sociali, insegnanti).
Data:
Venerdi 20 aprile 2018, ore 16,30-20; Sabato 21 aprile, ore 9-17
N.B.: la quota di partecipazione è ridotta a 80€ per studenti, soci di Psicologi nel Mondo – Torino, Me.Dia.Re e Psicologi per i Popoli – Torino. Comprende anche i coffee break e il pranzo di sabato.
Ester Chicco, presidente di Psicologi nel Mondo – Torino
Un’altra violenza sulla vittima
Non vi è soltanto quella derivante dal reato, vi è anche un’ altra violenza sulla vittima. Un’ altra violenza sulla vittima, tanto dannosa quanto sottovalutata e raramente riconosciuta.
L’ altra violenza sulla vittima è una violenza diversa e aggiuntiva
La vittima di una violenza, spesso, è oggetto di un’ altra violenza, cioè di una violenza ulteriore, successiva alla violenza commessa dal reo. Si tratta di comportamenti, per lo più, non sanzionati e, del resto, difficilmente sanzionabili, dal punto di vista giuridico, che, tuttavia, in termini psicologici, danno luogo, appunto, ad un’altra violenza sulla vittima [1].
Quest’ altra violenza sulla vittima, che può assumere forme diverse, in ambito vittimologico, è indicata come post-crime victimization.
Si usa quell’espressione, soprattutto, rispetto alle situazioni nelle quali istituzioni diverse (amministrazione della giustizia e forze dell’ordine, in primis, ma anche operatori e operatrici sociali e dei media), spesso involontariamente, fanno sentire la vittima oggetto di una colpevolizzazione per quanto le è accaduto [2].
Quell’ altra violenza sulla vittima derivante dal mancato, incompleto o tardivo riconoscimento da parte dello Stato
Un’ altra violenza sulla vittima si produce, però, anche quando lo Stato pare non pienamente riconoscere il carattere ingiusto e illegale del danno che essa ha subito, oppure quando non è in grado di condannare gli autori del delitto [3].
Un esempio recentemente portato all’attenzione della cronaca riguarda una giovane di Novara, disabile, che ha atteso 18 anni perché l’autorità giudiziaria riconoscesse definitivamente che essa, quando andava alle medie, veniva “affittata” dai suoi genitori a loro amici e conoscenti per fare sesso con lei (era stata abusata, peraltro, anche dai nonni).
Racconta La Stampa che è stato punito un solo colpevole: il padre, dato che la madre nel frattempo è morta e che gli altri uomini, cui la giovanissima era ceduta dai genitori, se la sono cavata (perché non identificati alcuni, per prescrizione altri).
Una testimonianza, tanto efficace e completa quanto dolorosa e angosciante, di come la risposta giudiziaria possa tradursi in un’ altra violenza sulla vittima, è costituita anche dalla lettera che Stella ha indirizzato al Presidente della Repubblica, in occasione della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, affidandone la lettura alla scrittrice Cristina Obber, all’interno dell’evento #InQuantoDonna (l’apertura della Camera dei Deputati soltanto alle donne che hanno subito la violenza e che con essa hanno avuto a che fare).
Definire la violenza sessuale come una ragazzata significa procurare un’ altra violenza sulla vittima
Stella, allora quindicenne, durante un’assemblea di classe, nel liceo artistico di Besana Brianza, fu attaccata da due compagne e un compagno: dapprima le fecero il solletico, e lei rise, poi le due ragazze la bloccarono sul pavimento e il ragazzo la violentò. Gli altri restarono allibiti ma non intervennero. In aula non c’erano insegnanti.
La sentenza, che arrivò 8 anni dopo, definì, secondo le parole di Stella, quel fatto una ragazzata, punì gli autori della violenza con qualche mese di attività di volontariato e le negò il diritto al risarcimento.
Quella sentenza ha comunicato a Stella che quanto ad essa inflitto
«è stata una ragazzata», perciò, «se riaccade, non è la fine del mondo. (…). Invece, Presidente, quanto ti capita, è la fine di un mondo che non sarà mai più come prima, è il sipario che cala, è il buio».
Scrisse ancora Stella:
«Quella sentenza mi ha fatto sentire in colpa (…) Succede così quando vieni umiliata nel profondo, pensi di non meritarti niente di che».
Leggendo la sua lettera, si direbbe che, per Stella, ciò che conta non è l’entità della pena, cioè che venga inflitta una maggiore sofferenza al ragazzo che la violentò e alle sue complici. Ciò che le preme pare, piuttosto, stare su questo duplice piano:
- Il riconoscimento inequivocabile, da parte dell’istituzione, del carattere ingiusto e profondamente lesivo del fatto subito. Un fatto disumano, non una ragazzata, in quanto, realizzandolo, i suoi tre compagni l’avevano disumanizzata.
- Un’azione tesa a far sì che quei tre ragazzi si rendano conto di quanto è grande e duraturo il male che le hanno procurato [4].
«Una voragine, Presidente, di rabbia, impotenza, abbandono. La sensazione di non valere niente. Perché io non cercavo vendetta, io cercavo una giustizia che mi dicesse che non era giusto quello che mi era stato fatto», è scritto in un altro passaggio della lettera.
Il mancato, o un tenue, riconoscimento, da parte dello Stato, del carattere ingiusto di una violenza, come spiegano le parole di Stella, procura un’ altra violenza sulla vittima, la quale sente confermare dall’autorità quel “messaggio” inviatole dall’autore della prima violenza: non meriti alcun rispetto, perciò ti si può stuprare e umiliare. Sei un oggetto, non sei umana.
Anche per il profugo il mancato riconoscimento ufficiale produce un’ altra violenza sulla vittima
Il riconoscimento da parte dello Stato ha una valenza così potente e profonda, perché le decisioni dei suoi tribunali sono pronunciate “in nome del popolo italiano”. Le decisioni delle autorità, le loro parole, quindi, anche sotto questo aspetto, pesano. Sono pietre.
Lo sono anche per coloro che presentano richiesta di protezione internazionale nel nostro e in altri Paesi.
Anche per costoro, le attese per le convocazioni, prima, e per le risposte, poi, da parte delle commissioni territoriali deputate ad accogliere o respingere le loro domande di asilo, sono fonti di stress e di angoscia.
Da quelle decisioni derivano, infatti, non soltanto le più ovvie e fondamentali conseguenze pratiche, legali ed esistenziali, connesse alla concessione o al diniego dell’asilo, ma anche altri implicazioni.
Si tratta di una risposta ad un riconoscimento, chiesto dall’individuo, all’Italia o ad un altro paese europeo, con l’idea che quello stato e, più in generale, l’Europa, rispetti e tuteli quei diritti inviolabili dell’uomo che nel suo paese sono stati violati.
Ad esempio, una donna che è stata stuprata davanti al marito e a uno dei suoi bambini, oppure l’uomo che, dopo aver visto massacrare e violentare moglie e figlie, è stata fucilato e, creduto morto, è stata gettato in una fosse comune dalle milizie jihadiste, attribuiscono un significato speciale alla decisione della commissione territoriale: qualcosa che non attiene solo alla concessione dell’asilo e alla futura possibilità di potersi ricongiungere un giorno con qualche famigliare, nascosto provvidenzialmente da altri parenti o da degli amici.
È l’attesa del riconoscimento ufficiale, da parte del popolo e del governo italiani, che quanto è stato fatto a loro, ai loro cari e agli altri abitanti del quartiere o del villaggio, è una mostruosità inammissibile, è un crimine contro l’intera umanità.
Lo stesso può dirsi per chi fugge dalle bombe, per chi è stato torturato, ingiustamente carcerato, o esposto ad altre forme di violenza.
Si registra costantemente il valore di questa ufficializzazione dello status di vittima, quando si ascoltano queste persone (come accade nei nostri servizi di sostegno psicologico per richiedenti asilo e titolari di protezione internazionale), così come quando si ascoltano le persone vittime di reati diversi, commessi qui in Italia, incluse le donne vittime di violenza e i loro bambini (come accade nei nostri Servizi gratuiti di Ascolto e Sostegno Psicologico per le vittime di reato e le persone ad esse affettivamente legate).
Anche il mancato riconoscimento sociale può essere un’ altra violenza sulla vittima
Un’ altra violenza sulla vittima, però, che in quei servizi si riscontra con elevatissima frequenza, può consistere nel suo mancato riconoscimento da parte delle persone ad essa vicine o da parte di una porzione della comunità.
In un precedente post (Autorizzazione della violenza) era stato scritto che senza il riconoscimento da parte della comunità della ingiusta vittimizzazione avvenuta, alla persona colpita da un reato, è come se venisse comunicato che essa non è stata vittima di un atto iniquo, ma di qualcosa di inevitabile, di meritato, di dovuto, di sacrosanto.
Ad esempio, secondo le indagini, quest’ultimo aggettivo (“sacrosanto”) potrebbe applicarsi alla qualifica che pare sia stata data da padre Pio Guidolin al suo stesso comportamento. In particolare, secondo l’inchiesta, non solo costui, ma forse anche una parte della comunità dei fedeli, nel quartiere Villaggio Sant’Agata, di Catania, interpretava la sua pedofilia come “sacrosanta”.
Significativa in tale senso, infatti, è la reazione della comunità dei fedeli nei confronti del ragazzino che rese noti – dopo essersi rifiutato di sottostarvi – i “riti”, cioè gli abusi sessuali, di padre Pio Guidolin su altri ragazzini (tutti minori di 14 anni), affidatigli dalle famiglie: quel ragazzino venne isolato dai devoti del prete [5].
Un altro vissuto doloroso e deprimente – cioè un’ altra violenza sulla vittima – è anche quello dei beneficiari e dei richiedenti la protezione internazionale quando si sentono definiti come «falsi profughi».
Di fronte a tali definizioni sprezzanti sperimentano, nella realtà, qualcosa di simile all’incubo dei deportati nei campi nazisti. Lo illustrò Primo Levi ne I sommersi e i salvati : la devastante angoscia e l’inesprimibile desolazione del sopravvissuto che non viene creduto [6].
Alberto Quattrocolo
[1] In particolare, si tratta di un’ altra violenza sulla vittima, perché è diversa dalla prima e perché è ulteriore. Infatti:
- è un’ altra violenza sulla vittima, nel senso che è diversa dalla prima, poiché è realizzata, in modo diverso e da persone diverse dagli autori di quella violenza che ha vittimizzato inizialmente la persona.
- è un’ altra violenza sulla vittima, in quanto ulteriore, poiché è successiva alla prima e ne incrementa il danno, nella misura in cui acuisce e approfondisce la sofferenza procurata dalla prima vittimizzazione.
[2] Di questi aspetti si occupavano anche alcuni precedenti post: non solo quello dedicato al Servizio gratuito di Ascolto e Sostegno per le Vittime di Reato e le persone ad esse legate, ma anche Colpa della vittima?, presente su questo blog.
[3] Rispetto alle vittime rimaste senza giustizia o con una risposta frammentata in Italia il pensiero corre anche a fatti come quelli di Ustica, alle tante, troppe, stragi della strategia della tensione e ai tanti altri delitti irrisolti in cui sono coinvolti mafie, servizi e poteri deviati.
[4] Ciò rinvia a quel che gli addetti ai lavori definiscono Giustizia Riparativa, che include interventi di mediazione penale, ma non si risolve soltanto in questi.
[5] Uno degli effetti più tragici del mancato riconoscimento sociale della vittima, può essere quello per cui la vittima finisce per credere di non essere vittima di un fatto dannoso ingiusto, ma di qualcosa che, in fondo, è naturale, che si è meritato. Nell’ambito della violenza interna a relazioni affettive è spesso il maltrattante a persuadere la vittima di meritarsi il maltrattamento (psicologico o anche fisico) che le infligge. Per limitarsi ad un recente esempio, si può considerare uno dei pensieri che, secondo quanto riporta il Corriere della Sera del 27 novembre (Merito le botte, è colpa mia) Emily Douet, prima di suicidarsi, scrisse alle sue amiche: «È colpa mia. L’ho fatto arrabbiare troppo. Me lo merito». Essendo convinta che fosse “colpa sua”, credette che non vi fosse una via d’uscita, se non quella di togliersi la vita. Spesso succede che a rinforzare questo pensiero, auto-colpevolizzante, della vittima siano altri (amici, famigliari, colleghi…).
[6] Ne ha parlato la dott.ssa Simona Corrente, psicoterapeuta, coordinatrice di uno dei progetti di sostegno psicologico per rifugiati e richiedenti asilo gestiti da Me.Dia.Re., nell’ambito del convegno Stand by me. A tale riguardo, peraltro, meriterebbe davvero un maggiore approfondimento, soprattutto in sede istituzionale, il modo in cui i richiedenti asilo sono esaminati dalle commissioni territoriali. Infatti, andrebbe seriamente considerata la possibilità che anche in tale sede si proponga nell’interlocuzione con il richiedente asilo, qualcosa di particolarmente rilevante, anche in termini di ri-vittimizzazione.
Nazionalrazzismo e socialrazzismo
Le campagna d’odio nazionalrazzista contro l’accoglienza e le politiche di inclusione
In un precedente post avevo descritto il nazionalrazzismo come un’articolata serie di organizzazioni e iniziative politiche che, sotto varie denominazioni, ammettendo apertamente o negando il loro carattere razzista, in nome della difesa di una certa idea di identità nazionale e definendosi difensori dei valori occidentali, contraddicono e minano proprio tali valori, a partire dai principi relativi all’uguaglianza e al rispetto della dignità per tutti gli esseri umani. Infatti, promuovono una reazione conflittuale verso i migranti (inclusi i rifugiati) e verso coloro che si adoperano per la loro accoglienza e integrazione.
In particolare, per poter stimolare e convogliare la rabbia e la frustrazione popolare verso il nemico-migrante, questo movimento svolge senza sosta autentiche campagne di odio nazionalrazzista tese ad intercettare il socialrazzismo. Tali campagne consistono nel:
- demonizzare anche il sistema di accoglienza e di integrazione, non soltanto denunciandone i limiti (che ci sono, in effetti, e non sono di poco rilievo anche sul piano del rispetto della dignità umana dei migranti), ma anche esaltandoli e ingigantendoli, a costo di mentire spudoratamente, con il racconto della sola parte che più conviene di certi fatti, con lo stravolgimento e con l’invenzione di altri;
- ignorare a bella posta e tentare di oscurare tutte le situazioni in cui il processo di integrazione funziona davvero. Ad esempio, il nazionalrazzismo non si sofferma mai sui diversi sistemi esistenti, accomunandoli tutti in una descrizione fallimentare e trascurando, così, le riuscite effettive del sistema SPRAR (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati);
- fingere di non sapere e fare di tutto perché non sia consapevolizzato il fatto che i problemi maggiori sul piano dell’integrazione non sono legati tanto all’elevato numero dei migranti in sé, quanto al ridotto numero dei Comuni che aderiscono al sistema SPRAR. Ancora adesso, su circa 8.000 comuni italiani, più di 5.500 non ospitano migranti. Se aderissero al programma SPRAR, il Viminale riuscirebbe a rispettare la quota di 3 immigrati su mille cittadini. Il nazionalrazzismo, ovviamente, si guarda bene dal porre in rilievo che i Comuni accoglienti, inevitabilmente, sono sotto stress visto che gli altri se ne infischiano e a loro tocca farsi carico di quasi il triplo di coloro che, se tutti contribuissero lealmente, dovrebbero occuparsi di accogliere e integrare. Per il nazionalrazzismo sarebbe un autogol il riconoscere che siamo 60.000.000 di italiani e andiamo nel panico, anzi in una vera e propria paranoia, se arrivano 100.000 persone, l’equivalente di una circoscrizione torinese. Così come trascura a bella posta il fatto che la mancata solidarietà degli altri membri dell’Unione Europea concorre a creare le difficoltà attuali. Anzi, per il nazionalrazzismo, ovviamente, il menefreghismo dei partner europei è sinonimo di saggezza;
- denigrare e delegittimare tutte le organizzazioni pubbliche e private che si occupano dei migranti. Così, se viene avviata un’indagine o si compiono degli arresti in tale ambito, il nazionalrazzismo esulta per la chance che gli è offerta di delegittimare tutto il settore integralmente[1]. E, del resto, il sistema di accoglienza è attaccato alla radice, raccontando che esso serve soltanto ad arricchire le organizzazioni che se ne occupano e a viziare i migranti che se ne avvalgono, a spese degli italiani, che faticano a tirare la carretta;
- iscrivere nella categoria dei traditori tutti coloro che esprimono la loro umanità anche verso i migranti, ancora peggio, nell’ottica nazionalrazzista, se concretamente compiono gesti solidali (si veda la reazione di Matteo Salvini, riferita dal Corriere della Sera, nei confronti della Feltrinelli di Como, “rea” di aver distribuito gratuitamente una guida per i rifugiati – si badi per i rifugiati non per tutti i migranti e men che meno per i clandestini, dunque solo per coloro cui è stato concesso l’asilo, in quanto sottoposti a persecuzioni nel loro Paese d’origine).
La relazione circolare tra socialrazzismo e nazionalrazzismo
L’ultimo aspetto in maniera più evidente permette di collegare il nazionalrazzismo al socialrazzismo. Per quanto sia vero che dal secondo può talvolta scaturire qualche organizzazione che assume caratteri nazionalrazzisti, mi pare certo che, in generale, il nazionalrazzismo si ingegni e si impegni, con un costante e intenso sforzo, a promuovere il socialrazzismo. In effetti, il nazionalrazzismo sa che il socialrazzismo, anche quando è ancora allo stato primordiale, è un fertilissimo campo da cui potranno essere raccolti frutti indispensabili per permettergli di crescere come progetto politico. E a tal fine, mi sembra che il nazionalrazzismo abbia bisogno non soltanto di consensi elettorali, ma ancor prima di un clima culturale favorevole. Quel che serve al nazionalrazzsimo, quindi, è l’abbattimento di alcuni tabù morali e culturali. E c’è una forte convergenza di interessi tra socialrazzismo e nazionalrazzismo su questo punto. Entrambi hanno bisogno che venga eliminata la riprovazione sociale per chi agisce o predica contro i valori e i principi che sono alla base delle moderne società democratiche, quindi anche di quella identità europea (francese, italiana, spagnola, portoghese, greca, belga, ecc.) che, fingendo di non accorgersi del paradosso, i nazionalrazzisti dicono di voler preservare: libertà, uguaglianza, fratellanza. In sintesi:
- per i socialrazzisti, la messa in minoranza o la riduzione al silenzio di chi sostiene tali valori è fondamentale per poter trovare legittimazione morale e culturale alla violenza intrinseca che fonda la loro forma mentis
- il nazionalrazzismo ha bisogno dello stesso tipo di cambiamento di sensibilità sociale per poter uscire da una condizione di marginalità politica e avere campo libero nella declinazione della propria propaganda.
Alberto Quattrocolo
[1] Naturalmente a nulla vale l’obiezione logica secondo la quale il fatto che in un determinato settore di attività vi sia della corruzione non significa che il settore in sé sia corrotto e vada abolito: vi sono casi di corruzione e incompetenza nelle forze dell’ordine, nella magistratura, nelle forze armate e nella sanità, ma a nessuno viene in mente di eliminare le forze di polizia, né di chiudere tutte le caserme o tutti i tribunali e gli ospedali
Le vittime di Piazza San Carlo
3 giugno 2017: una lunga serata di sangue e terrore
Il 3 giugno vi fu una serata di sangue e terrore in Europa: per un falso allarme in Piazza San Carlo, a Torino, e per un attentato sul London Bridge e nel Borough Market, a Londra
La sera di sabato 3 giugno a Torino, in Piazza San Carlo, veniva trasmesso su maxischermo la finale di Champion Leage, disputata da Juventus e Real Madrid a Cardiff. Verso le 22.15, pochi minuti dopo la fine della partita, tra le 40.000 persone accalcate si era scatenato il panico. La paura che il rumore avvertito – un petardo? – fosse quello di una bomba aveva atterrito alcuni, che si misero a correre e a spingere. La confusione successiva, il timore di essere schiacciati dagli altri e il pensiero che fosse in corso un attacco terroristico si diffusero come un’onda, contagiando repentinamente la folla dei tifosi.
Erika Pioletti, trentottenne di Domodossola, ha perso la vita e altre 1526 persone sono rimaste vittime a livello fisico di schiacciamenti, urti, varie forme di lesione, tra cui, soprattutto, i tagli provocati dai pezzi di vetro delle bottiglie rotte che coprivano la piazza e, forse, dai sanpietrini)[1].
Il falso allarme in Piazza San Carlo e il vero attacco a Londra
Ma, com’è noto, non vi era stato alcun atto di terrorismo a Torino.
Neanche un’ora dopo, alle 23.08 ora italiana, 22.08, a Londra, a poco più di due mesi dall’attentato a Westminster e a due settimane da quello a Manchester, invece, si era compiuto un vero atto di terrorismo. Sono state 7 le persone uccise dai terroristi e 48, pare, quelle ferite, alcune in modo particolarmente grave[2].
Ma è possibile azzardare l’ipotesi che grosse soddisfazioni ai sostenitori del sedicente Stato Islamico e della sua strategia terroristica siano potute derivare da quanto accaduto nella torinese piazza San Carlo, dove i loro killers non avevano colpito, anzi neppure c’erano.
Infatti, il panico diffusosi a Torino, in quei venti minuti, potrebbe essere considerato come un successo totale per i fautori del terrore: senza alcun “costo” hanno ottenuto il massimo del ricavo.
Mentre i tifosi del calcio, grandi e piccini, presenti nella piazza torinese, correvano e cadevano l’uno addosso all’altro, atterriti e sgomenti, i “tifosi” e, soprattutto, i “giocatori” del terrorismo, se informati degli eventi in corso, avrebbero potuto esultare davvero per quello che, dal loro punto di vista, rappresentava un successo senza precedenti.
È certamente banale ricordare che il terrorismo persegue come primo obiettivo quello di terrorizzare e che per farlo si serve della violenza. Come ci viene continuamente spiegato, la voluta spettacolarizzazione delle uccisioni e la ricerca della massima visibilità mediatica per le loro efferatezze vanno collocate in questa prospettiva. Quindi, la violenza omicida del sedicente Stato islamico non è la ragione del suo esistere. Pare più probabile che le uccisioni siano “soltanto” lo strumento, disumano, dispiegato per conquistare una forma suprema di potere.
Piazza San Carlo e il potere del terrorismo
Però, se il potere è un fenomeno che ha preminenti risvolti relazionali, si può dire che il 3 giugno, nel capoluogo piemontese, il terrorismo dell’Isis abbia affermato concretamente il potere acquisito.
Il terrore serpeggiato a Torino, sabato sera, tra i circa 40.000 presenti, mi pare, cioè, che testimoni assai efficacemente la potenza raggiunta dal sedicente Stato Islamico con la sua “politica” sanguinaria: grazie a tutti gli attentati perpetrati in giro per il mondo dai suoi aderenti, è riuscito a fare agire il terrore in una città, in uno Stato, dove finora non ha avuto ancora l’occasione, o la volontà, di adoperarsi letalmente.
Se si intende il termine potere nella sua accezione di dominio e se si attribuisce a questo un risvolto che rinvia al concetto di controllo, si potrebbe perfino dire, stando su un piano paradossale, che, senza neanche saperlo e volerlo, l’Is ha, indirettamente, controllato la piazza. Cioè vi ha esercitato un’influenza assai più penetrante di quanto non abbiano potuto fare i tutori dell’ordine e della sicurezza pubblica in quella manciata di parossistici minuti.
Almeno in tal senso, mi pare, quindi, che si possa dire che le persone presenti in piazza San Carlo il 3 giugno siano state vittime della violenza terrorista.
Le conseguenze traumatiche
Oggi, a circa due mesi dall’evento, è stata sciolta, senza una relazione finale, la commissione d’indagine del Consiglio Comunale costituita per far luce sulle cause e le responsabilità che hanno portato alla tragedia, sulla quale però sta indagando anche la magistratura torinese. Ma non mi pare pertinente rispetto ai temi trattati su questo blog, soffermarmi sulle possibili responsabilità ipotizzate dagli inquirenti o indicate dalle opposizioni in Consiglio Comunale. Credo piuttosto che abbia senso soffermarsi su di un altro aspetto: per le 40.000 persone presenti e, tra queste, per le oltre 1.500 ferite, l’esperienza di quella sera può essere assimilata a quella di un trauma derivante dal comportamento violento altrui.
In una prospettiva vittimologica, infatti, è difficile dubitare che all’esperienza delle centinaia di persone coinvolte in quell’evento non si possano attribuire aspetti propri della vittimizzazione da atto violento. Mi riferisco non solo alle ferite fisiche, ma anche alla convinzione, presente in molti, che fosse in atto un attacco terroristico e all’angoscia, vissuta da quasi tutti, di essere calpestati, schiacciati o soffocati da altri tifosi intenti a mettersi in salvo. Sono, questi, danni fisici e sofferenze emotive derivanti da azioni lesive o pericolose altrui.
Del resto è assodato che in molti di coloro che hanno vissuto quei momenti si è sviluppato un disturbo da stress post traumatico (PTSD)[3]. E su questo aspetto si è soffermato anche Luca Guglielminetti sul suo blog, con un post che, mi pare meriti davvero di essere letto con attenzione.
Vittimizzazione diretta e indiretta, effettiva e “virtuale”
Si può essere vittime dirette di un atto violento, ma si può esserlo anche indirettamente. Ad esempio, quando a subire una violenza è una persona cui siamo affezionati. Inoltre si può anche pensare che vi sia una forma di vittimizzazione, per così dire “virtuale”.
Erika Pioletti e le altre 1526 persone ferite, così come tutte le altre spaventate e scioccate presenti in Piazza San Carlo, certamente non sono state vittime di uno specifico atto terroristico. Ma, sembra che si possa asserire che siano stati vittimizzate dalla paura del terrorismo, derivante dalla sua, riuscita, azione complessiva. In altre parole, sono state vittime di un’attività terroristica – svolta su scala internazionale, con strumenti e su registri diversi -, che ha suscitato un’emozione, la quale ha trasformato un gran numero di persone in un folla terrorizzata e pericolosissima. Terrorizzata da un attentato non verificatosi e subito dopo, forse ancora di più, terrorizzata dal panico stesso, che ha scatenato il dannoso e finanche letale fuggi fuggi.
In qualche misura su tale aspetto anche a ridosso dell’evento si era pronunciato anche Vincenzo Villari, primario di psichiatria alle Molinette, intervistato da La Stampa. Infatti alla domanda se vi fosse stata psicosi da terrorismo, egli rispose: «L’obiettivo dei terroristi è proprio quello di diffondere la paura. Anche in situazioni come quella di sabato sera, che non c’entrano con gli attentati. E quando questa dinamica si sviluppa tra migliaia di persone, l’effetto si moltiplica e la folla è difficile da organizzare»[4].
Pur sapendo che la terminologia può rivelarsi ridondante, penso che nell’ipotizzare quanto accaduto sia possibile ricondursi a due tipi di vittimizzazione: la vittimizzazione effettiva e quella che chiamerei “virtuale”. La distinguerei da quella potenziale, perché questa di riferisce alla reazione emotiva e comportamentale di chi teme che un crimine possa essere commesso a suo danno essendo stata sensibilizzata dall’esposizione alla notizia circa uno o più episodi delittuosi. Ma la vittimizzazione potenziale si ferma lì. Mentre in tale caso, non si è temuto che un giorno potesse accadere un attentato, ma si è pensato che fosse proprio in corso. E la convinzione, o anche solo il sospetto, che fosse in esecuzione un attacco terroristico ha prodotto una vittimizzazione effettiva.
Credo sia giusto, quindi, non sottovalutare il legame che sanguinosamente le unisce e non affrettarsi a ritenere quella virtuale meno rilevante o meno degna di attenzione e comprensione di quella effettiva.
Le vittime di Piazza San Carlo vanno riconosciute
Come già ho sostenuto in altri post su questo blog – ad esempio nei seguenti: Chi subisce un’azione violenta non si chiama colpevole ma vittima; Nessuna vittima è più uguale di un’altra; Il rispetto per l’umanità di chi è vittima di una violenza non (è mai stato) procrastinabile -, credo sia importante sottolineare la necessità di non fare graduatorie nelle forme di vittmizzazione e di evitare ogni atteggiamento giudicante verso la vittima. E ciò anche nei riguardi delle vittime di Piazza San Carlo.
Mi preme al riguardo recuperare quanto affermato da Villari nell’intervista sopra citata, rispondendo alla domanda del giornalista, Claudio Laugeri: « C’è qualcosa che ciascuno di noi può fare per evitare di trovarsi in difficoltà? ». «Ben poco», disse lo psichiatra. «La dimensione individuale è davvero secondaria. In situazioni del genere, c’è la necessità di sottrarsi fisicamente alla folla. L’intervento individuale è molto limitato. Bisogna cercare di mantenersi tranquilli e di adottare il comportamento più razionale possibile, resistendo alla pressione generalizzata».
I vissuti di chi c’era
Soffermiamoci allora su alcuni degli aspetti individuali, su cos’hanno vissuto alcuni di coloro che si trovarono in Piazza San Carlo il 3 giugno, su qual è stata la vittimizzazione effettiva da essi patita[5].
Chi ci ha raccontato quanto vissuto quella sera, ha descritto un’esperienza da incubo. Non soltanto la sensazione di essere premuti e soffocati dalla calca, già antecedente alle 22,15, e poi il terrore che ha attivato il sistema nervoso simpatico, facendo scattare il battito cardiaco verso un’accelerazione folle e impennare la pressione sanguigna. Non soltanto la paura di morire o che potessero morire amici, coniugi, fidanzati, genitori o figli. Ma anche qualcos’altro, qualcosa dallo sgradevole sapore onirico. Un’ eccitazione ingestibile e un’impotenza insuperabile. Una sensazione nauseante e violentissima di irrealtà e, contemporaneamente di urto brutale contro l’assurdo che diventa realtà. Uno stordente sovvertimento di ogni senso comune, di ogni logica. Uno smarrimento di ogni riferimento. Una disperata ricerca di appigli fisici, per non essere schiacciati al suolo, cosparso di vetri, o sulle transenne, o per non perdere compagni, amiche o familiari le cui dita scivolavano via dalla stretta della mano. Il pensare «sto per morire» e subito «non voglio morire». Il tentativo di capire cosa sta accadendo, utilizzando le categorie disponibili per interpretare gli stimoli fisici ricevuti. Così, il rumore di circa 80 mila piedi sull’acciottolato a chi era finito per terra, in alcuni casi, ha fatto pensare ad un treno, ad altri ad un cingolato che stava percorrendo la piazza. Perché nessuno prima di allora aveva mai messo l’orecchio al suolo per sentire il rumore di tante migliaia di piedi che pestano e corrono, mentre il suono del treno o quello di un mezzo con i cingoli era conosciuto, e a quelle cose si è pensato. Nel primo caso restando dentro un limbo trasognato, nel secondo, quello del cingolato, convincendosi che davvero c’erano i terroristi in piazza. E subito il pensiero è andato alla strage del 14 luglio 2016 a Nizza. «Le vetrine tremavano», «I portici tremavano», è stato detto per spiegare perché la mente di molti razionalizzò come vera l’allarme di un attacco terroristico. E così anche frasi come «Si sono sentiti dei colpi», si collocano su questo registro. Come, per alcuni, il vedere sangue ovunque, addosso a sé e agli altri e il non collegarlo immediatamente ai cocci di migliaia di bottiglie che coprivano la piazza. Mentre ad altri, e tra questi chi aveva fatto l’esperienza diretta del G8 di Genova del 2001, molti dei suoni avvertiti e delle cose viste hanno fatto pensare ad un golpe.
La nauseante logica del “mors tua, vita mea”
Si potrebbe dire che interpretiamo quel che percepiamo sulla base delle associazioni con ciò che conosciamo per esperienza diretta o indiretta e con ciò che è più presente alla nostra mente in quell’istante. Ma al di là dei risvolti cognitivi, che lascio agli esperti, vale la pena soffermarsi su un aspetto, peraltro posto in evidenza anche da Guglielminetti: “mors tua, vita mea”. Con espressioni diverse, questo vissuto è stato proposto da più persone. E nel proporlo veniva espressa una rabbia, ancora esausta, provata allora, verso quel nemico, indistinto e incalcolabile, rappresentato dagli altri, letali e soverchianti nel loro essere, oggetti o soggetti, spingenti e calpestanti. Si è rischiato di morire, e di ciò ci si è resi conto. Ma in quei momenti, stando a quanto detto dalle vittime di piazza San Carlo ascoltate, vi era solo la vaga, subito accantonata o trasognata, impressione di poter fare del male o, addirittura, di poter dare la morte ad altri. E questo aspetto si collega ad un altro vissuto, sviluppatosi spesso già pochi minuti di, in altri casi a distanza di alcune ore o il giorno dopo. Mi riferisco alla vergogna.
L’ingombrante sensazione di “sporco”
Si tratta di uno stato emotivo di difficile gestione. Quando proviamo vergogna con noi stessi e/o davanti agli altri, vorremmo sparire, soffocare, liberarci di quel gusto sgradevole che ci strozza la gola. Ebbene, ascoltando, accogliendo e non giudicando alcuni di coloro che la sera del 3 giugno erano in piazza San Carlo, la vergogna è comparsa e si è insediata con radici profonde nei loro animi.
Qualcuna delle vittime di piazza San Carlo ha parlato di tutta l’esperienza vissuta come se si fosse trattata di una sporca vicenda. Perché sporca’ Perché si scopre d aver fatto qualcosa di sporco, o quando si viene scoperti, si può prova vergogna. E per molti l’aver reagito come animali in fuga, cercando solo di salvare se stessi e i propri cari, l’essere stati dominati dal mors tua, vita mea, il ricordare di aver spinto e lottato o il non riuscire a ricordarlo, sono stati motivo di vergogna, e non solo di senso di colpa. Cioè di uno stato d’animo – la vergogna – che è assai difficile non solo da sostenere ma anche da condividere. Più insidioso e ingombrante, sotto certi aspetti, del mero senso di colpa, che, di per sé, potrebbe avere anche qualcosa di eroico.
Vergogna e disagio per aver agito per paura
Per chi ascolta può esservi la tentazione di far osservare a questa o a quella tra le vittime di piazza San Carlo che non c’è da vergognarsi. Ma prima è bene cercare di capire, cioè di sentire, di empatizzare. In alcune persone vi è stata dapprincipio nel raccontare, il tentativo di affascinare con la narrazione, di renderla avventurosa, eroica, senza farle perdere la sua natura realistica. Sincere nell’esporre i fatti, ma avvincenti nei toni e nelle sfumature, parevano comunicare l’orgoglio di chi dopo può dire «Io c’ero».
Questa dimensione, questo atteggiamento, però, nel momento in cui il narratore sentiva la sospensione del giudizio e l’empatia di chi ascoltava, venivano abbandonati progressivamente e, infine, consentivano di verbalizzare un altro aspetto, un altro paio di sfumature della vergogna e del disagio provati: l’aver reagito alla paura, dandole corso, venendo così meno al dovere (morale, sociale?) di restare freddi e controllati, di avere coraggio, con l’aggravante che di fatto non era accaduto nulla di ciò che in piazza si pensava fosse successo. Non vi era stato nessun attacco terroristico.
Alcune delle vittime di piazza San Carlo hanno detto che anche un bel po’ dopo non potevano credere davvero che non vi fosse stato alcun assalto da parte di terroristi.
Evitiamo alle vittime di Piazza San Carlo la vittimizzazione da mancato riconoscimento
Un’ultima considerazione riguarda la rivittimizzazione. Com’è noto, per la vittima di una violenza il non essere riconosciuta come tale può avere conseguenze lesive importantissime. Si pensi, alla donna vittima di violenza in famiglia che da degli interlocutori da cui vorrebbe essere compresa e creduta sente sminuiti i maltrattamenti cui è sottoposta. Oppure si pensi ai richiedenti asilo che hanno patito torture e violenze atroci che non vengono creduti (si veda, nell’ambito del Convegno STAND BY ME: accoglienza, sviluppo locale e buone pratiche di inclusione, tenuto dall’Associazione Me.Dia.Re. a Torino, il 25 e 26 maggio 2017, l’intervento delle dott.sse Corrente e Sacchi e l’intervista di Simona Corrente).
Perciò, il non considerare coloro che in piazza San Carlo hanno fatto le esperienze di cui qui si è scritto equivale a negarne la sofferenza. Significa delegittimarne i vissuti, costringerli a dare concretezza al sentimento di disagio azzittendosi, rinchiudendosi e nascondendosi.
In breve, negare loro attenzione empatica equivale a commettere una violenza, come in tutte le situazioni in cui si svaluta e si giudica la vittima di una violenza. Analogamente, incolpare le vittime di piazza San Carlo per quanto accaduto quella sera non è affatto dissimile dal colpevolizzare la vittima di un’aggressione a scopo di rapina o di stupro per la violenza patita.
Chi ha vissuto questo evento, in pochi minuti, quella sera, ha perso molte cose importanti, difficili da dire, e ancor di più da spiegare e da recuperare o reintegrare. Quindi cerchiamo di non fargli perdere anche la dignità, biasimandolo per quanto gli è capitato o considerandolo una vittima di rango inferiore rispetto ad altre.
Alberto Quattrocolo
[1] Tra i feriti anche un bambino, Kelvin, di sette anni. Il piccolo, per fortuna, era stato messo in salvo da due ragazzi, Mohammad Guyele e Federico Rappazzo, come riportato da La Stampa.
[2] Come riportò il Post, «un furgone con a bordo tre uomini ha prima investito i pedoni sul marciapiede del London Bridge, uno dei ponti più importanti della città, in pieno centro; poi ha continuato il suo percorso verso il Borough Market, subito a ridosso del London Bridge sulla riva meridionale del Tamigi, un’area grande e molto frequentata di bar, locali e chioschi. Il furgone si è poi fermato, i tre uomini armati di coltelli sono scesi e hanno cominciato ad accoltellare i passanti e i clienti dei locali del Borough Market. Domenica sera lo Stato Islamico (o ISIS) ha rivendicato l’attentato tramite un comunicato diffuso dalla sua agenzia di stampa Amaq».
[3]Sul sito di State of Mind si legge che, secondo il nuovo Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi mentali (DSM-5), perché si abbia il PTSD, è necessario che: la persona sia stata esposta a un trauma, quale la morte reale o una minaccia di morte, o di una grave lesione, sintomi intrusivi correlati all’evento traumatico insorgano dopo l’evento traumatico (ricordi, sogni, flashback); evitamento persistente degli stimoli associati all’evento traumatico che viene messo in atto dopo l’evento traumatico (ad esempio si evitano i ricordi spiacevoli, così come i pensieri o i sentimenti relativi o strettamente associati all’evento traumatico, ma anche alcune persone, i luoghi, o altre situazioni associate al fatto; alterazioni negative di pensieri ed emozioni associate all’evento traumatico si manifestino dopo l’evento traumatico (ad esempio, la persona può: non ricordare qualche aspetto importante dell’evento traumatico; sviluppare persistenti ed esagerate convinzioni o aspettative negative su se stessi o sugli altri; dare la colpa a se stessi oppure agli altri per quanto accaduto; provare sentimenti persistenti di paura, orrore, rabbia, colpa o vergogna, una marcata riduzione di interesse o partecipazione ad attività significative, sentimenti di distacco o di estraneità verso gli altri o incapacità di provare emozioni positive come felicità, soddisfazione o sentimenti d’amore), marcate alterazioni dell’arousal e della reattività associati all’evento traumatico si manifestino dopo l’evento traumatico (ad esempio un comportamento irritabile o spericolato e autodistruttivo, una certa ipervigilanza, o delle esagerate risposte di allarme, difficoltà relative al sonno).
[4] Con un’altra prospettiva anche Francesco Merlo su Repubblica, a due giorni di distanza, aveva commentato l’accaduto utilizzando i concetti di terrorismo controllato (quello avvenuto a Londra) e terrorismo annunziato (quanto accaduto a Torino).
[5] Tra i Servizi gratuiti che l’Associazione Me.Dia.Re. eroga a Torino, vi sono anche quelli di ascolto e sostegno psicologico per le vittime di reato doloso e colposo e per le persone affettivamente legate alle vittime, ed è in questa cornice che sono state ascoltate alcune delle persone presenti in quella piazza, nei giorni e nelle settimane successivi.