Quella giornata particolare

Fu una giornata particolare quella dell’11 maggio del 2016. Quel giorno la Camera dei Deputati approvò in via definitiva la legge sulle unioni civili, la cosiddetta legge Cirinnà. Due giorni prima di quell’11 maggio 2016, il disegno di legge era approdato alla Camera, dopo essere stato approvata al Senato, dopo che il governo aveva posto su questo disegno di legge la fiducia. Anche il 9 maggio 2016 il Consiglio dei Ministri, presieduto da Matteo Renzi, aveva posto la fiducia sul disegno di legge.

Il disegno di legge, approvato dal Parlamento, fu promulgato dal Presidente della Repubblica Italiana il 20 maggio e pubblicato il giorno seguente sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana. La legge  entrò in vigore il 5 giugno.

L’iter di approvazione della legge sulle unioni civili: il lavoro della Commissione giustizia del Senato

Con l’avvio della legislatura (la ventisettesima), dal marzo 2013, al Senato la Commissione giustizia aveva iniziato ad esaminare in modo congiunto i disegni di legge di iniziativa parlamentare fino a quel momento presentati. Una prima proposta di testo unificato dei diversi disegni di legge all’esame congiunto della commissione giustizia del Senato era stata depositata a giugno del 2014 dalla senatrice Monica Cirinnà (Pd), nominata relatrice. Era seguita poi una seconda proposta di testo unificato, depositata nel luglio seguente, e una terza era stata depositata nel marzo 2015. Quest’ultima era stata adottata il 26 marzo come testo base per il proseguimento della discussione in commissione giustizia. Fu poi la volta della presentazione degli emendamenti al testo proposto da Monica Cirinnà. Inizialmente questo testo unico avrebbe dovuto portare i medesimi benefici del matrimonio alla coppia che stipula l’unione civile, ma la relatrice Cirinnà decise successivamente di eliminare dal testo ogni riferimento al matrimonio, pur rinviando agli articoli del Codice Civile, che lo disciplinano. In tal modo, questo disegno di legge estendeva il riconoscimento di quasi tutti i benefici riservati al matrimonio (tra cui l’eredità, la pensione di reversibilità e l’adozione del figlio del partner), vietando esplicitamente, tuttavia,l’adozione congiunta da parte della coppia. Si collocava tale disegno di legge sulla scia della legge sulle unioni civili tedesca, che era stata approvata nel 2001. Inoltre, prevedeva che l’unione civile fosse contraibile davanti all’Ufficiale dello stato civile solo da coppie dello stesso sesso. In sede di commissione parlamentare, votarono a favore del testo della Cirinnà il Partito Democratico ed il Movimento 5 Stelle (14 voti). Contro il testo votarono il Nuovo Centrodestra, Lega Nord e Forza Italia (8 voti contrari). Si astenne un senatore di quest’ultimo partito.

Il dibattito parlamentare e la questione di fiducia

Il dibattito sul disegno di legge iniziò in Senato il 2 febbraio 2016. Anche quella fu una giornata particolare, perché pochi minuti prima del primo voto in  aula il Movimento 5 Stelle annunciò la propria indisponibilità a votare la norma con lo strumento del “canguro”. Era, questo, un tipo di percorso, un espediente se si vuole così definirlo, teso a risolvere il problema posto dall’elevato numero di emendamenti, proposti da alcuni senatori, di area cattolica e contrari al disegno di legge, con finalità  ostruzionistiche. Se più della metà degli emendamenti presentati era stata respinta per inammissibilità, durante le votazioni era stata proposto di adottare la cosiddetta “regola del canguro”, per eliminare gli “emendamenti fotocopia” proposti dai contrari alla legge con il fine di ostruire, intasandolo per un tempo impossibile, il percorso della sua approvazione. Nonostante avesse dato rassicurazioni al Partito Democratico e agli attivisti LGBT nei giorni precedenti, il Movimento 5 Stelle si disse contrario al ricorso alla “regola del canguro”. Il Partito Democratico, allora chiese la temporanea interruzione del dibattito parlamentare, essendo mutata la mappa delle forze politiche favorevoli alla proposta di legge. Il Governo, temendo che sarebbero potuti mancare i voti necessari all’approvazione, tentò di raggiungere un accordo politico all’interno della propria maggioranza, essendo svanito il  sostegno alle unioni civili da parte del Movimento 5 Stelle e della Sinistra. Il 23 febbraio presentò, allora, un maxi emendamento che recepiva quasi integralmente il disegno di legge di Monica Cirinnà, al fine di introdurre nell’ordinamento le unioni civili tra persone dello stesso sesso, qualificandole come “formazione sociale specifica”. In tal senso si faceva esplicito riferimento all’articolo 2 della Costituzione (“La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale“) e non all’articolo 29 (che, invece, si riferisce all’istituto del matrimonio). Il nuovo testo prevedeva, pertanto, diritti e doveri sostanzialmente identici a quelli previsti per il matrimonio, escludendo la stepchild adoption (la possibilità di adozione del figlio naturale del partner) e l’obbligo di fedeltà per le parti dell’unione civile. Su tale testo il Governo pose la questione di fiducia per la sua votazione al Senato nella seduta del 25 febbraio.

Un’altra giornata particolare, settantotto anni prima

Settantotto anni prima Adolf Hitler terminava la sua visita a Roma e salutato Benito Mussolini ripartiva per la Germania. Era stato pomposamente ricevuto alla stazione Ostiense la sera del 3 maggio 1938, poi, scortato da un  lungo corteo di automobili, era partito dal piazzale  (che oggi si chiama piazzale dei Partigiani), alla volta del Quirinale. Il giorno dopo – anche quella fu una giornata particolare -, il Fuhrer fu condotto da Mussolini  nel percorso della visita ufficiale, che includeva il Pantheon e l’Altare della Patria. Qui i due dittatori passarono attraverso cinquemila uomini in divisa: a destra milizie tedesche, a sinistra quelle italiane. venne, quindi, la sfilata su via dei Fori imperiali, definita dai giornali dell’epoca, tutti asserviti al regime fascista, la «riproposizione dei fasti della Roma antica». Nel quartiere di Centocelle, si tenne una manifestazione militare di 50.000  balilla e avanguardisti, poi Hitler presenziò ad un raduno di nazionalsocialisti residenti a Roma alla Basilica di Massenzio. Il Corriere della Sera, ridotto a giornale smaccatamente fascista (lo abbiamo ricordato su questa rubrica nel post Quell’irrealizzabile attentato a Mussolini che favorì l’affermazione della dittatura), il 5 maggio definì la visita come un trionfo,

esaltando gli «imponenti riti guerrieri in onore del Fuhrer e incessanti manifestazioni di popolo ai Capi delle due Rivoluzioni».

Dopo essere stato a Napoli, Hitler tornò a Roma e vi rimase altri tre giorni. Pochi mesi dopo appariva il Manifesto degli scienziati razzisti (noto anche come Manifesto della Razza). Pubblicato, dapprima in forma anonima sul Giornale d’Italia, il 14 luglio 1938 col titolo «Il Fascismo e i problemi della razza», sarà ripubblicato sul numero uno della rivista «La difesa della razza» il 5 agosto 1938. Vi era una stretta correlazione tra quella visita, l’avvicinamento politico tra i due dittatori, la pubblicazione dell’abominevole Manifesto della razza, le vergognose, criminali e ripugnanti leggi per la difesa della razza italiana, approvate nell’autunno del 1938, e poi la firma del Patto d’Acciaio nel maggio dell’anno dopo. Quella visita non era stata senza conseguenze. Ma cosa c’entra quella visita con la legge sulle unioni civili?

Una giornata particolare (1977, di Ettore Scola)

C’entra perché sullo sfondo di quella storica e nefasta visita, Ettore Scola (insieme ai suoi co-sceneggiatori Maurizio Costanzo e Ruggero Maccari) collocò la vicenda del film Una giornata particolare (1977), di cui fu regista. E per quasi tutta la durata del film, dagli apparecchi radiofonici accesi nei vari appartamenti, a volume alto, si alza la voce del radiocronista, che commenta con retorica trionfalistica le varie fasi della visita di Hitler nella giornata del 6 maggio 1938. La trama di Una giornata particolare è semplicissima e arcinota: Antonietta (Sofia Loren), casalinga ingenua ed ignorante e profondamente sola, benché madre di sei figli e sposata con un impiegato statale (John Vernon), un fervente fascista, incontra, conosce e diventa amica di Gabriele (Marcello Mastroianni). Costui, radiocronista dell’EIAR (l’Ente italiano per le audizioni radiofoniche, che aveva l’esclusiva delle trasmissioni radiofoniche e di fatto era la “voce” del fascismo) è stato licenziato ed  è in procinto di partire per il confino, dove lo ha spedito il regime, al fine di punirlo ed emarginarlo a causa della sua omosessualità.

L’invio al confino degli omosessuali non era un’invenzione della sceneggiatura. Era una prassi frequente del regime fascista, che, infatti, perseguitò inesorabilmente gli omosessuali, ma lo fece con spietatezza, ammantata di ipocrisia.

La rimozione e la persecuzione dell’omosessualità da parte del regime fascista

Infatti, il codice penale, firmato dal ministro della Giustizia, Alfredo Rocco (ne abbiamo parlato nel post Le prime leggi fascistissime), a differenza del Paragrafo 145 delle legge nazista, non conteneva al suo interno una specifica normativa antiomosessuale. In realtà, nel progetto del Codice Rocco del 1927, l’articolo 528, comminava la reclusione da uno a tre anni per chi aveva relazioni omosessuali. Poi, però, il regime fascista aveva stabilito di eliminare tale articolo dalla versione definitiva del codice. Non si era trattato di una decisione frutto di spirito liberale, ma di un ragionamento politico-propagandistico, in cui la priorità era stata data all’immagine del modello di italiano che il fascismo intendeva veicolare. Prevedere il reato di omosessualità avrebbe significato ammettere l’esistenza di omosessuali tra gli italiani. E ciò era incompatibile con l’immagine che il duce voleva dare del maschio italiano. Nella relazione redatta dalla Commissione Appiani, che aveva il compito di discutere l’attuazione della nuova normativa, infatti, si legge:

 «La Commissione ne propose ad unanimità e senza alcuna esitazione la soppressione per questi due fondamentali riflessi. La previsione di questo reato non è affatto necessaria perché per fortuna e orgoglio dell’Italia il vizio abominevole che ne darebbe vita non è così diffuso tra noi da giustificare l’intervento del legislatore, nei congrui casi può ricorrere l’applicazione delle più severe sanzioni relative ai diritti di violenza carnale, corruzione di minorenni o offesa al pudore, ma è noto che per gli abituali e i professionisti del vizio, per verità assai rari, e di impostazione assolutamente straniera, la Polizia provvede fin d’ora, con assai maggior efficacia, mediante l’applicazione immediata delle sue misure di sicurezza e detentive».

La repressione dell’omosessualità, quindi, non venne dunque affidata ai tribunali, ma alla polizia. Questa sottoponeva il caso ad una Commissione Provinciale, poi provvedeva alla diffida o all’ammonizione e al diffido. Vi furono così 20.000 pratiche di ammonizione nei confronti degli omosessuali. Ma molti furono anche confinati nelle isole del Mediterraneo, soprattutto alle Tremiti.

Con la fine della guerra, nessuno sarà più inviato al confino, ma l’omosessualità continuerà ad essere oggetto di persecuzione poliziesca, sia pure con un intensità non paragonabile a quella fascista, e perfino giudiziaria (si pensi al caso dei Balletti verdi e a quello Braibanti). Bisognerà attendere fino agli anni Settanta, per iniziare a vedere una più significativa riluttanza alla persecuzione e alla discriminazione, e fino al maggio del 2016 per vedere approvata una legge sulle unioni civili.

 

Alberto Quattrocolo

I roghi nazisti e la nazificazione della Germania

Il 10 maggio del 1933 diversi roghi divamparono nelle piazze di diverse città tedesche. Il più noto di questi roghi fu quello che si verificò in una piazza di fronte all’Università di Berlino. Qui divampò un fuoco che richiamava sinistramente quei roghi che il mondo occidentale aveva visto l’ultima volta nel tardo Medioevo.

I roghi nazisti del 10 maggio 1933

Un po’ prima della mezzanotte del 10 maggio ’33 una nutrita folla di studenti, provvisti di torce, entrò in una piazza dell’Unter den Linden. C’era un mucchio impressionante di libri. Su di essi furono tirate le torce. Poi altri volumi vennero lanciati sulle fiamme. Più o meno ventimila libri vennero bruciati soltanto in quella piazza di Berlino dagli studenti. Un proclama studentesco dell’Associazione studentesca della Germania annunciava la condanna al rogo di ogni libro

«che abbia un effetto sovversivo sul nostro futuro e che possa minare il pensiero tedesco, la patria tedesca e le forze che guidano il nostro popolo»

Erano opere di autori di fama mondiale. Tra le opere di autori tedeschi c’erano quelle di Thomas e Heinrich Mann, Walther Rattenau, Erich Maria Remarque, Albert Einstein, Alfred Kerr, Lion Feuchtwanger, Arnold e Stefan Zweig, Jakob Wassermann, Hugo Preuss. In quello e negli altri roghi, però, venivano anche bruciati i libri di Charles Darwin, Havelock Ellis, Sigmund Freud, André Gide, Ernest Hemingway, Hermann Hesse, Jack London, Georg Lukács, Helen Keller, James Joyce, Karl Marx,  Marcel Proust, Robert Musil, Joseph Roth, Margaret Sanger, Arthur Schnitzler, Upton Sinclair, H. G. Wells, Emile Zola.

«Queste fiamme non solo illuminano la fine della vecchia era, ma gettano la loro luce sulla nuova» (Joseph Goebbels)

Erano passati circa 4 mesi dalla nomina di Adolf Hitler a cancelliere del Reich. Come abbiamo ricordato in altri due post della rubrica Corsi e Ricorsi (Hitler non fece né un colpo Stato, né una rivoluzione e La democrazia in fumo), Hitler aveva raggiunto il potere proprio grazie al meccanismo della democrazia rappresentativa, cioè del sistema parlamentare di quella Repubblica di Weimar, di cui egli stava cancellando tutto, anche il pensiero. Tanto che tra i libri scaraventati sui roghi c’erano quelli di Preuss, colui che aveva redatto proprio la costituzione di Weimar. E quei roghi non avvenivano per spontanea iniziativa di studenti goliardici. Erano un’iniziativa del Partito Nazionalsocialista (NSDAP), vale a dire del governo, cioè dello Stato tedesco, il Terzo Reich. Ed erano stati preceduti, quei roghi di libri, dal boicottaggio del commercio ebraico del 1° aprile ’33 (lo abbiamo ricordato qui). In effetti i roghi dei libri facevano parte di un più vasto disegno del partito nazionalsocialista, il quale non mirava solo al governo, ma intendeva plasmare la mente e lo spirito dei tedeschi (come si è rammentato, rievocando l’incontro del 30 marzo tra Joseph Goebbels e il più ammirato regista del cinema tedesco, Fritz Lang, nel post Goebbels, Fritz Lang e la propaganda cinematografica nazista). A confermare tale prospettiva fu lo stesso Goebbels, il nuovo ministro della Propaganda, che, parlando a circa 40.000 studenti mentre i libri si trasformavano in cenere, disse:

 «L’anima del popolo tedesco potrà manifestarsi nuovamente. Queste fiamme non solo illuminano la fine della vecchia era, ma gettano la loro luce sulla nuova».

Le altre iniziative di nazificazione della cultura, dell’informazione e del cinema

I roghi dei libri, quindi, erano un pezzo del puzzle in costruzione della nazificazione della mentalità del popolo tedesco. Su questo registro si collocarono la proibizione della vendita e della circolazione nelle biblioteche di centinaia di libri, mentre contestualmente venne promosso la pubblicazione di un gran numero di testi nazisti.

La Camera per la cultura del Reich

Il 22 settembre del 1933 fu varata la legge istituiva della Camera per la cultura del Reich, diretta dal ministro Goebbels, in cui era scritto:

«Al fine di perseguire una politica culturale germanica, è necessario mobilitare gli artisti creativi in tuti i settori, in una organizzazione unificata sotto al guida del Reich. Il Reich deve non sono delineare le direttive del progresso, sia mentale che spirituale, ma anche guidare e organizzare le professioni».

Furono così istituite sette camere: per le belle arti, la musica, la letteratura, la stampa, la radio e il cinema. La legge imponeva a tutti coloro che lavoravano in tali settori di iscriversi alle rispettive Camere, le cui direttive avevano forza di legge.

Il repulisti nazista nella letteratura, nella musica e nel teatro

Tali Camere avevano il potere di rifiutare l’iscrizione e di espellere coloro che «non davano affidamento dal punto di vista politico». In altre parole, perdevano l’impiego anche coloro che venivano considerati poco entusiasti del nazionalsocialismo. Il risultato fu che, a partire da Thomas Mann, quasi tutti gli autori letterari di rilievo, con poche eccezioni, potendolo fare, emigrarono. Coloro che non ebbero tale possibilità non pubblicarono alcunché. Infatti, ogni manoscritto, per poter essere stampato, doveva essere approvato dal ministero della Propaganda. Lo stesso sistema valeva per le commedie teatrali. Il grande Max Reinhardt (lo abbiamo citato nel post dedicato a Marlene Dietrich) se ne andò nel ’35, preceduto o seguito da tanti altri, bravissimi e talora eccezionali, registi e commediografi teatrali (Bertolt Brecht, per dire) e da compositori e musicisti (Kurt Weill). Anche la musica, per quanto avesse minori possibilità di correlazione con la politica, fu colpita dalla scure nazista. Così furono proibite le esecuzioni di Mendelssohn, perché era ebreo, come quelle del più noto compositore tedesco moderno, Paul Hindesmith. Del resto le grandi orchestre sinfoniche e i teatri d’opera espulsero gli ebrei che vi lavoravano.

Parola d’ordine: epurare l’arte decadente

Un’aggressione più devastante la subirono, però, le arti figurative. L’espressionismo tedesco, che tanto aveva influenzato anche lo stile visivo della cinematografia e che contaminerò fecondamente il genere noir, fu considerato arte decadente. Analogamente erano considerate sinonimo di decadenza l’impressionismo, il cubismo e il dadaismo. Hitler già nel Mein Kampf aveva condannato l’arte moderna come degenerata e priva di senso. E una delle prime misure adottate, una volta ottenuto il potere, fu «l’epurazione dell’arte decadente» e la sua sostituzione con «l’arte germanica». Quindi vennero tolte dai musei 6500 pitture moderne (di Cezanne, Va Gogh, Guagin, Matisse, Picaso, Kokochcka, Grosz…).

Il controllo nazista sulla stampa, la radio e il cinema

Naturalmente ciò che più contava per realizzare un’efficace nazificazione delle menti popolo tedesco era il controllo sui mezzi di informazione e sulla principale industria dell’intrattenimento. La legge per la stampa del 4 ottobre del 1933 stabiliva che il giornalismo era una professione pubblica controllata dallo Stato e che i redattori dovevano essere ariani e non essere sposati con ebrei. Inoltre era loro ordinato di «tenere lontano dai giornali qualsiasi cosa che in qualche modo possa indurre il pubblico in errore, confonda il bene personale con il bene collettivo, o tenda a indebolire la forza del Reich tedesco all’interno o all’esterno». Vennero perciò chiusi giornali di fama mondiale, che vennero acquistati per pochi spiccioli dalla casa editrice del partito Nazista, l’Eher Verlag, la quale divenne un immenso impero editoriale. Ne sortì, però, anche una terribile monotonia dei quotidiani e dei periodici. Infatti, ogni giornale riceveva dettagliate istruzioni su cosa pubblicare e come. Sicché Goebbels e il presidente della Camera per la stampa, nel ’34, fecero un appello affinché i redattori rendessero meno monotoni i loro giornali. Ehme Welke, redattore di un settimanale li prese sul serio e finì in campo di concentramento per ordine del ministro. Una sorte analoga a quella della stampa toccò alla radio. Il mezzo di comunicazione che all’epoca aveva un’influenza superiore a tutti gli altri, non essendoci ancora la televisione. Goebbels si assicurò il controllo completo su tutte le trasmissioni radiofoniche, anche se, fino allo scoppio della guerra, i tedeschi potevano ancora ascoltare le radio straniere. Lo stesso controllo, come abbiamo scritto nel già citato post Goebbels, Fritz Lang e la propaganda cinematografica nazista fu istituito sulla cinematografia. Come nel caso della radio, della stampa, delle arti figurative e della musica i tedeschi dovettero sorbirsi prodotti di qualità davvero mediocre.

In definitiva, tuttavia, Hitler e i suoi riuscirono a raggiungere gli obiettivi che si erano dati. Il popolo tedesco finì con l’essere in larghissima parte nazificato.

Alberto Quattrocolo

Fonti

William L. Shirer, Storia del Terzo Reich, Giulio Einaudi, editore s.p.a., Torino, 1957

I Serenissimi occupano piazza San Marco

Nella notte tra l’8 e il 9 maggio 1997, la Veneta Serenissima armata, braccio operativo del Veneto Serenissimo governo, occupò piazza San Marco e il suo campanile, issando sulla cella campanaria la bandiera con il Leone di San Marco. Con loro, un finto mezzo blindato.

L’azione prese il via dalla provincia di Padova, dove si trovava l’autocarro camuffato. Alcuni in tuta mimetica e dotati di fucili della Seconda Guerra Mondiale, dirottarono un traghetto per raggiungere la piazza simbolo della città. Qui si divisero in due gruppi: il primo simulò di tenere sotto tiro la piazza con il mezzo blindato, mentre il secondo raggiunse la sommità del campanile e portò a termine il vero obiettivo della missione: issare la bandiera con il leone alato.

L’intenzione originaria era di mantenere le posizioni sino al giorno della ricorrenza della Serenissima: il 12 maggio 1797, infatti, cadde la Repubblica veneta per mano dei francesi. L’azione, puramente dimostrativa, aveva perlopiù carattere nostalgico.

Nel tentativo di mettere fine alla dimostrazione, l’allora sindaco Cacciari andò a parlare di persona con i manifestanti, ma fu solo grazie all’intervento del Gruppo d’Intervento Speciale (GIS) dei carabinieri che la situazione si risolse senza grossi problemi: in pochi minuti furono arrestati tutti i membri del gruppo presenti. L’occupazione non durò che poche ore.

I risvolti giudiziari furono molto differenziati per i vari partecipanti. Si andò da una condanna a quasi cinque anni, a diverse assoluzioni per l’inidoneità dell’organizzazione a raggiungere il proposito sovversivo. Diversi anche i reati contestati, tra cui figurano la banda armata e l’associazione sovversiva per finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico

Alessio Gaggero

1973, resa del “territorio libero di Wounded Knee”

Nell’inverno 1973 un gruppo di giovani Indiani Americani della Nazione Lakota occupa, armi alla mano, il territorio di Wounded Knee richiedendo il rispetto degli accordi siglati nel 1868, il controllo delle Black Mountains (territorio sacro per i Lakota), la rimozione delle corrotte autorità delle riserve, la fine dello sfruttamento e della distruzione dei territori da parte delle grandi compagnie minerarie americane. La situazione è drammatica nell’intera Riserva di Pine Ridge (South Dakota), dove l’uso incontrollato di agenti chimici nelle ricerche minerarie ha causato l’avvelenamento delle falde acquifere con la conseguente larga diffusione di malattie tumorali e nascite di bambini deformi. Inoltre, gli abitanti della riserva denunciano il clima di terrore imposto dal capo-tribù corrotto Dick Wilson, che ha fatto assassinare dalla sua polizia privata paramilitare circa 60 nativi per eliminare ogni forma di resistenza alla vendita di parti del territorio per lo sfruttamento delle risorse di uranio.

A sostegno dei Lakota di Pine Ridge si mobilita l’American Indian Movement (AIM), l’organizzazione radicale che dal ’68 raggruppa attivisti di tutte le comunità indiane americane per il rispetto dei trattati siglati dal governo americano e contro la corruzione delle amministrazioni tribali delle riserve.

Per i nativi americani, Wounded Knee è un nervo scoperto a causa della strage del 1890, ultimo episodio delle guerre tra pellerossa e i “visi pallidi” mandati da Washington, un’autentica carneficina con un’intera tribù circondata e sterminata a raffiche di mitragliatrice dai soldati del 7° reggimento di cavalleria degli Stati Uniti: una tragedia entrata nella cultura popolare tramite canzoni, libri e film. L’area nella quale furono uccisi 150 indiani (ma alla fine degli scontri verranno contate circa 300 vittime) è stata dichiarata dal governo National Historic Landmark, ma è rimasta in mani private, nell’ambito di un vasto progetto governativo di privatizzazione forzata di ampie zone della Nazione Indiana.

Simbolicamente, alla nuova esplosione del conflitto tra nativi e governo americano, circa duecento sioux del gruppo Oglala Lakota, aderenti all’American Indian Movement, si asserragliano nello stesso posto in cui nel 1890 la cavalleria aveva massacrato i loro avi, prendendo in ostaggio una decina di civili che lavorano nei negozietti turistici o nelle poche attività presenti nel villaggio; alla loro testa c’è Russell Means, Lakota dalle idealità libertarie. Uomini, donne e bambini piazzano le tende intorno alla chiesa, trasformano l’emporio in sala dei congressi e di refezione, sistemano uomini armati in rudimentali bunker, legano le penne d’aquila alle trecce e organizzano la resistenza.

Nella riserva arrivano giovani nativi da tutti gli Stati Uniti e viene creato un consiglio formato dai rappresentanti di 75 Nazioni Indiane; nonostante le leggi americane permettano di portare in pubblico armi, il governo federale denuncia come terrorismo l’occupazione e mette in campo tiratori scelti della polizia federale, mezzi blindati ed elicotteri, circondando la zona.

Il comitato di occupazione non si lascia intimidire, richiedendo la fine delle aggressioni contro il popolo indiano, lo scioglimento delle amministrazioni corrotte, una ridiscussione dei 371 trattati tra le Nazioni Native e il governo federale, non uno dei quali in un secolo risultava rispettato. In attesa di una risposta da parte delle autorità, i  giovani Lakota rifiutano di consegnare le armi. Il governo risponde tagliando l’elettricità e impedendo ogni rifornimento di viveri dall’esterno.

Nonostante la durezza del clima, spesso molto sotto lo zero, per tutto l’inverno gli uomini e le donne di Wounded Knee rifiutano di arrendersi, vivendo secondo i costumi tradizionali, celebrando nascite e matrimoni secondo gli antichi riti. Per 71 giorni Washington non ha potere nel luogo simbolo della resistenza indiana: malgrado l’assedio la comunità si autogoverna e l’11 marzo i rappresentanti del movimento dichiarano l’indipendenza dagli Stati Uniti del territorio occupato.

Si verificano veri e propri scontri a fuoco, con un bilancio complessivo di due morti e una decina di feriti a Wounded Knee e due militari USA feriti gravemente; altri dodici occupanti, usciti dalla riserva in cerca di viveri, risultano dispersi, probabilmente sequestrati e fatti sparire dalle squadracce armate che fiancheggiavano le forze di polizia e i militari.

Nel frattempo sono in molti a schierarsi dalla parte degli assediati: altri indiani, ma anche attivisti dei diritti civili, afroamericani e personalità di spicco come l’attore Marlon Brando. Quest’ultimo, in solidarietà con gli assediati, non si presenta alla cerimonia degli Oscar per ritirare il premio vinto per “Il Padrino”, cedendo il palco a Sacheen Littlefeather, presidentessa dell’associazione per l’identità culturale dei nativi americani; la donna, in abito tradizionale apache, consegna alla stampa le 15 cartelle del discorso di Brando e usa i 60 secondi concessi per denunciare lo stravolgimento che il cinema americano fa della storia indiana e per portare all’attenzione collettiva la vicenda di Wounded Knee. In sala si scatena un putiferio, fra applausi e fischi, mentre John Wayne cerca di raggiungere il palco per gettare fuori Sacheen, fermato a stento da quattro guardie; grazie a tutto ciò, l’occupazione del sito indiano diventa di dominio pubblico, addirittura mondiale, e lo stesso Russell Means dirà in seguito che senza l’iniziativa di Brando e Sacheen “non avrebbero salvato la pelle”.

L’8 maggio, i nativi decidono di porre fine all’occupazione; l’esercito assalta la riserva con i mezzi corazzati e gli occupanti vengono arrestati. Gli indiani sono costretti ad abbandonare la zona, ottenendo in cambio l’apertura di un’inchiesta governativa sulle loro problematiche. La politica tradirà gli impegni assunti e il nulla di fatto causerà una serie di scaramucce anche negli anni successivi, con alcune vittime e una persistente, irreversibile tensione.

I processi seguiti all’assedio di Wounded Knee, incluso quello intentato contro Means, vedono prosciolti tutti gli accusati. Tuttavia, le milizie native filogovernative, restaurate nel loro potere, regolano i loro conti nelle riserve: gli attacchi dei paramilitari al servizio di Wilson divengono quotidiani, in tre anni 64 membri dell’AIM vengono assassinati, 300 sequestrati e sottoposti a torture, 562 arrestati, e l’eccidio proseguirà tra gli anni ‘70 e ‘80.

A tutt’oggi la riserva di Pine Ridge è il distretto più povero degli Stati Uniti d’America, con un tasso di disoccupazione attorno al 80%. La situazione abitativa è misera, malattie e un alto tasso di suicidi soprattutto fra i giovani segnano la vita della comunità. L’aspettativa di vita media è di 49 anni e circa il 40% delle case non dispone né di acqua potabile né di elettricità. I piccoli progetti di auto-aiuto quali l’allevamento di bisonti e l’installazione di piccoli impianti solari ricevono poco sostegno e non riescono a svilupparsi. Lo stesso sito storico di Wounded Knee rischia di essere venduto al migliore offerente da parte del privato che ne detiene legalmente la proprietà.

Il 13 dicembre 2007 i rappresentanti della tribù Lakota degli indiani d’America hanno stracciato i trattati firmati dai loro antenati nel 1868 a Fort Laramie. “Non siamo più cittadini degli Stati Uniti d’America e tutti coloro che vivono nelle regioni dei cinque Stati su cui si estende il nostro territorio sono liberi di unirsi a noi”, ha dichiarato a Washington Russell Means, che morirà pochi anni dopo. “I trattati – ha aggiunto – sono parole senza valore scritte su carta senza valore, perché non sono rispettati dal Governo americano”.

Silvia Boverini

Fonti:

www.it.wikipedia.org; M. Innocenti, “10 maggio 1973: la resa di Wounded Knee”, www.ilsole24ore.com; www.facebook.com/cannibaliere; G. Amico, “Wounded Knee 1973. Territorio libero d’America”, http://cedocsv.blogspot.com; “La terra di Wounded Knee”, www.ilpost.it; “Sioux, Wounded Knee rischia di finire all’asta”, www.corriere.it; Wu Ming 1, “Ghost Dance”, www.wumingfoundation.com; “Marlon Brando e Wounded Knee”, www.associazioneilcerchio.it

Con te, Marlene Dietrich

Morì il 6 maggio del 1992, Marlene Dietrich. Nessuna sa esattamente quanti anni avesse. Anche se la versione più accreditata era che fosse nata il 27 dicembre 1901, a Schöneberg, vicino a Berlino. Fu battezzata come  Marie Magdalene. Libera ed indipendente sin da piccola, però, si presentava agli altri come Marlene. Il nome che si diede da sé divenne sinonimo di glamour e mistero.

«Il glamour è essere sicuri di sé stessi. La certezza che vai bene da ogni punto di vista, che la tua mente e il tuo corpo, qualunque occasione si presenti, saranno all’altezza della situazione», disse quand’era ormai una diva decisamente acclamata.

I primati di Marlene Dietrich

L’angelo azzurro (di Joseph Von Sternberg, 1930), il film che la lanciò, fu il primo film sonoro del cinema tedesco. Con la sua performance Marlene Dietrich lo trasformò in un cult. Non si era mai visto nulla di così seducente sullo schermo, come Marlene Dietrich che cantava la canzone Lola Lola. Nel suo secondo film di successo, Marocco (di Joseph Von Sternberg, 1930), vestita da uomo con cilindro e smoking, baciava una donna del pubblico sulle labbra. Era il primo bacio lesbico della storia del cinema. Per il suo grande impegno civile, profuso instancabilmente durante la guerra nella causa antifascista, nel 1947,, ottenne la Medal of Freedom. Fu la prima donna ad essere insignita con tale onorificenza. Avendo le gambe più sexy del mondo, fu la prima diva a farsele assicurare.

Un’infanzia e un’adolescenza non proprio facili

Figlia di una gioielliera e di un ufficiale di polizia, Marie Magdalene, rimase orfana del padre a otto anni. Il nuovo marito della madre la adottò e le diede il proprio nome. Poi morì nel 1916, nelle trincee della Prima Guerra Mondiale. Questo lutto, indusse la giovane Marlene Dietrich a diffidare istintivamente del nazionalismo che aveva seminato morte, miseria e devastazione per quattro interminabili anni [1].

Gli esordi, il matrimonio e la maternità

Appassionata di concerti, musica classica e teatro, all’inizio degli anni venti, Marlene Dietrich frequentò un corso di recitazione diretto dal grandissimo Max Reinhardt (anch’egli poi rifugiatosi negli USA per sfuggire a Hitler). Nel 1922 iniziò a lavorare in teatro e fece le sue prime apparizioni cinematografiche. Naturalmente si trattava di film muti. L’anno dopo conobbe un aiuto regista, Rudolf Sieber, di cui si innamorò e lo sposò. Ebbero una bambina, Maria Elizabeth, anche lei futura attrice, conosciuta, poi, con il nome di Maria Riva. Ma già Marlene indossava spesso abiti maschili e non esitava ad avere relazioni sessuali o sentimentali con uomini e donne. La relazione con Rudolf era finita, anche se non divorziarono mai

Marlene Dietrich diventa l’angelo azzurro

Nel 1929 per la prima volta ebbe una parte da protagonista nel film Enigma, di Curtis Bernarhardt (anch’egli poi profugo del nazismo negli Stati Uniti, dove ebbe un’apprezzabile carriera cinematografica). In questo ruolo venne notata dal regista viennese, Josef von Sternberg, che già lavorava stabilmente e con notevole successo commerciale e critico a Hollywood. Immediatamente la scelse per il ruolo di una cantante che ogni sera risveglia la libidine di una folla greve e birraiola. Era un ruolo controverso di donna tanto seducente, quanto cinica e senza scrupoli, quello che l’attrice proponeva nel primo film sonoro tedesco in corso di produzione, Angelo Azzurro [2]. Per la parte di Unrat, il regista si era portato appresso dagli Stati Uniti, Emil Jannings, dove il più celebrato attore del cinema tedesco, aveva già ottenuto il plauso generale, ricevendo addirittura in appena tre anni di soggiorno hollywoodiano ben 2 Oscar. Ma fu la quasi esordiente Marlene Dietrich, abilmente diretta da Sternberg, ad imporsi nell’immaginario collettivo fin dalla prima proiezione de L’angelo azzurro, il 1° aprile 1930 al gloria Palast di Berlino [3]. Marlene-Lola, col frac, il cappello a cilindro e le calze a rete divenne immediatamente l’icona della Berlino libertina, disperatamente affamata di pane, di vita e di libertà, del periodo precedente al nazismo. Ma la carriera tedesca dell’attrice era già conclusa. Tra lei e von Sternberg si svilupparono quasi immediatamente un sodalizio artistico e una relazione amorosa. Marlene Dietrich non ebbe indugi nel seguirlo a Hollywood (dove avrebbero realizzato altri sei film). Ottenne subito un contratto con la Paramount, che in quel periodo era alla caccia di un’attrice europea da contrapporre alla svedese, divina, Greta Garbo della MGM. La Paramount, perciò, con la collaborazione di Sternberg si dedicò senza risparmio alla Dietrich, promuovendola con un investimento pubblicitario senza precedenti [4].

Marlene Dietrich, la disonorata venere bionda

In breve la Dietrich diventò una grande diva. In  Marocco (1930), affiancata alla nuova star maschile della Paramount, Gary Cooper, sebbene fosse ancora una cantante, non aveva più l’aggressiva carnalità di Lola. La femminilità esibita e misteriosa di quel personaggio, che aveva scandalizzato le platee, apparendo con le cosce bianche divaricate, mentre la sua voce roca  cantava “dalla testa ai piedi sono fatta per l’amore”, subì una trasformazione. Già al suo primo film hollywoodiano, Sternberg la persuase ad aiutarlo a rappresentare la sensualità allo stato puro [5]. La trasformazione proseguì Disonorata (1931), Shangai Express (1932) e Venere Bionda (1932) [6].

Star maschili a rimorchio della diva Marlene Dietrich

In questi film, la Paramount, d’accordo con Joseph von Sternberg, utilizzava la notorietà di Marlene Dietrich per lanciare i divi di punta della sua scuderia maschile: in particolare Cooper e Cary Grant. E spettatori e spettatrici in egual misura in tutto il mondo accorrevano a bearsi gli occhi della loro bellezza. Ma se i suoi partner maschili erano, di fatto, ) delle figure di supporto -per fossero quanti validissimi attori, destinati di lì a poco a diventare delle superstar amatissime (specialmente Gary Cooper e Cary Grant), era lei ad impressionare il pubblico. Per la gente, in effetti, era difficile non cadere nell’identificazione tra queste ragazze ciniche dal look sempre eccessivo e la vera Marlene Dietrich, il cui stile di vita anticonvenzionale contribuiva  a veicolare un’immagine pubblica carica d’ambiguità, accentuata dal nuovo look cinematografico, costruito per lei dal regista, dal suo direttore della fotografia, il maestro Lee Garmes, e dal geniale costumista, Travis Banton [7].

L’autodisciplina  di Marlene Dietrich e il suo rapporto simbiotico con Joseph von Sternberg

Le prove erano lunghissime, ma la Dietrich sopportava tutto, grazie alla sua ferrea autodisciplina. Marlene Dietrich forniva il suo contributo alla creazione di questi effetti, monitorando le sue interpretazioni, tramite uno specchio semovente adeguatamente posizionato nel set. Ma le trasformazioni erano anche fisiche e perfino psicologiche. Sternberg decideva come lei doveva truccarsi e pettinarsi, la mise a dieta e la convinse anche a levarsi dei molari per rendere il viso più affilato. La Dietrich si lasciò modellare dal regista, creando con lui un rapporto, talmente ambiguo e simbiotico che Sternberg scrisse nelle sue memorie:

«Io sono Marlene. Marlene è me».

Una donna tutta sola e indipendente

Nel 1933 la Dietrich interruppe momentaneamente il sodalizio con Joseph von Sternberg per lavorare nel film Il cantico dei cantici diretto da Rouben Mamoulian, imposto alla produzione proprio dal suo pigmalione, che non sapeva smettere di gestirla. Nel 1933 il contratto con la Paramount stava scadendo e la Dietrich pensò di non rinnovarlo e di tornare per un po’ in Germania. Ma l’avvento del Nazismo cambiò le cose. Invece di tornare a Berlino accettò di rinnovare il contratto, a condizione che Sternberg continuasse ad essere il suo regista. L’anno dopo tornò a farsi dirigere da  von Sternberg in L’imperatrice Caterina (sua figlia interpretava l’imperatrice bambina), cui seguì l’ultimo lungometraggio con il regista, Capriccio spagnolo. Nel frattempo, però, l’esito commerciale insoddisfacente delle ultime pellicole le fece comprendere che la sua immagine non era più sintonica con i gusti del pubblico. Anche se il suo stipendio era astronomico (nel 1934 la Dietrich arrivò a guadagnare 350.000 dollari l’anno),si accordò con la Paramount non solo per svincolarsi dal controllo di Sternberg, ma anche per modificare la propria immagine. Sapendo di avere un talento multiforme adatto anche per la commedia, intendeva abbandonare i ruoli melodrammatici e interpretare ruoli che la rendessero più umanamente credibile [8]. Niente più mascheramenti esotici e pose statuarie, ma astuzia, fine umorismo e una inedita capacità di relazionarsi non soltanto con la macchina da presa, ma con gli attori [9].

L’amore con Erich Maria Remarque e il rifiuto delle offerte di Joseph Goebbels e del cinema fascista italiano

Dopo Angelo, che non ottenne il successo di pubblico previsto, per oltre due anni Marlene Dietrich non girò alcun film. La Paramount aveva deciso di sciogliere contratto con lei. La sua carriera a Hollywood sembrava finita. Lei, che nel 1937 aveva fatto domanda per ottenere la cittadinanza americana, decise di passare con Douglas Fairbanks Jr. una lunga vacanza in Francia. Qui  si ricongiunse con la sua famiglia allargata: sua figlia Maria ora tredicenne e il marito Rudi con la sua compagna [10]. Poi in un bar di Venezia, la Dietrich conobbe Erich Maria Remarque, immensamente noto autore del romanzo pacifista e antimilitarista Niente di nuovo sul fronte Occidentale. Divennero subito amanti. E, forse, fu l’antinazismo dello scrittore, e la demonizzazione persecutoria di cui era fatto segno da parte dei nazisti tedeschi e dei fascisti italiani, ad incrementare la sua determinazione nel rifiutare le generose offerte di alcuni cineasti italiani e del ministro della Propaganda del Terzo Reich, Joseph Goebbels (nel post Goebbels, Fritz Lang e la propaganda cinematografica nazista abbiamo visto come il ministro avesse tentato di arruolare nella sua macchina propagandista anche il regista Fritz Lang ), oltre che dello stesso Adolf Hitler.

La partita d’azzardo di Marlene Dietrich

In ogni caso, nel ’39, ottenuta la cittadinanza Americana, tornò negli USA, il 22 agosto 1939, una settimana dopo che la Germania aveva invaso la Polonia [11].

Nessuno avrebbe scommesso su di lei come attrice western. Ma di nuovo spiazzò tutti e affiancando il più improbabile dei suoi partners, James Stewart, interpretò  una commedia-drammatica western di notevolissimo successo, Partita d’azzardo (1939, di George Marshall). Passata a contratto  con la Universal, affiancò  in tre film un altro divo dal crescente successo, John Wayne. Due di essi erano di ambientazione western

La storia d’amore con Jean Gabin e il suo contributo alla lotta antinazista

Durante la Seconda Guerra Mondiale la Dietrich decide di appoggiare il governo americano attivamente. Non era soltanto un gesto di riconoscenza, di marca patriottica, per la cittadinanza ottenuta, ma anche una questione etica, morale e politica. Inserita in un ambiente in cui molti suoi amici erano intellettuali fuggiti dalla Germania nazista perché perseguitati per le loro idee politiche o perché di origine ebrea o perché omosessuali, aveva deciso di fare quanto poteva contro Hitler e Mussolini. Inoltre, si era innamorata del divo più noto del cinema francese, Jean Gabin. Questi, arruolatosi volontario nell’esercito francese, quando la Francia era stata occupata dalle armate di Hitler, era riparato negli USA. Il legame della Dietrich con Jean Gabin destò l’attenzione dell’FBI, già allertata dalle sue amicizie con liberali, progressisti e comunisti. Gabin, però, aveva moglie e figli e non intendeva trattenersi a Hollywood. Appena poté si arruolò nelle Forze libere francesi e tornò in Europa a combattere il nazifascismo. Quando gli Stati Uniti entrarono in guerra contro le forze dell’Asse, Marlene Dietrich chiese, quindi, di seguire le truppe in Africa e in Italia, con il compito di tenerne alto il morale con i suoi spettacoli, senza preoccuparsi della propria incolumità, anzi rischiando più volte la pelle. Era, infatti, tra i soldati americani durante la battaglia di Monte Cassino. Un secondo tour, tra il settembre 1944 e il luglio 1945, la portò in  Francia e in Belgio. Inoltre fornì la sua interpretazione della tristissima canzone antimilitarista Lili Marleen, che divenne il suo cavallo di battaglia [12]. Incontrò Gabin sul fronte belga nell’inverno del 1944 e poi di nuovo alla fine della guerra a Parigi. Nel 1946 Gabin la convinse a lavorare con lui nello sfortunato mélo di Martin Roumagnac Turbine d’amore. Si rividero ancora in seguito, qualche volta, ma Gabin non se la sentiva di lasciare la moglie e Marlene se ne tornò in America.

Altri ruoli memorabili

La liberazione dell’Europa dal nazifascismo coincise anche con una sorta di liberazione di Marlene Dietrich sul piano dei suoi ruoli cinematografici. Nel ’48, era diventata nonna, ma era una nonna tutta particolare. Continuava ad avere amanti, anche tra le celebrità del cinema (come Burt Lancaster) e ad infischiarsene della marea montante di conformismo che accompagnava quell’epoca di caccia alle streghe anticomunista (su Corsi e Ricorsi, al tema abbiamo dedicato diversi post, tra i quali: A cavallo della paranoia e John Garfield “eroe proletario” distrutto dalla paranoia dominante). Restava sempre “la Dietrich”, ma aveva raggiunto la maturità psicologica e artistica che servivano a farla lavorare come attrice versatile e non soltanto a  preoccuparsi di conservare lo status di diva. E tra i diversi film interpretati, seppe mettere molto di sé, dei suoi dolori e dei suoi conflitti interiori, oltre ad una spiccata vena umoristica nelle collaborazioni con registi-autori di origine europea.

Fu una zingara, che aiuta un fuggiasco (Ray Milland) nell’Europa occupata dai nazisti in Passione di zingara (1947, di Mitchell Leisen).

Quindi, interpretò mirabilmente Scandalo Internazionale (1948, di Billy Wilder), dove tra le macerie della Berlino post bellica era una cantante sospettata dagli Alleati di essere stata l’amante dei gerarchi nazisti. Inoltre, si fece dirigere da Alfred Hitchcock, in una dei suoi rientri in Inghilterra, nel thriller Paura in palcoscenico (1950).

Offrì, poi,  una performance toccante sotto la direzione di Fritz Lang, che, pur litigando con l’attirce, costruì su di lei il suo capolavoro western, dalle complesse sfumature morali, degne di un noir, Rancho Notorius (1952).

Quindi, tornò a collaborare con Billy Wilder, accanto ad attori della bravura e della statura di Tyrone Power e Charles Laughton in un raffinatissimo giallo processuale, tratto da Agatha Chritie, Testimone d’accusa (1957).

Si prestò ad una parte minore, ma memorabile, pensata apposta per lei, accanto all’interprete e regista Orson Welles, in una delle punte più alte e barocche del genere noir, L’infernale Quinlan (1958). Il film fu subito un cult maledetto.

Un immediato e strepitoso successo di critica e commerciale fu, invece, l’ultimo suo film importante. Aveva accolse con entusiasmo la proposta del produttore e regista di Stanley Kramer di interpretare, nel ricco cast di Vincitori e vinti (1961), una nobildonna tedesca decaduta. Anche qui sfruttò le proprie esperienze, nell’interpretare una donna con idee antitetiche alle sue, la vedova di un generale tedesco, giustiziato a Norimberga,  che cerca pateticamente di persuadere un giudice americano, interpretato da Spencer Tracy, dell’innocenza del popolo tedesco rispetto agli orrori commessi dal nazismo.

La fame d’amore

Tra i tardi Cinquanta e i Settanta Marlene Dietrich non ebbe timore nel proporsi in un formidabile ritorno alle origini come cantante, apparendo nei teatri di tutto il mondo. Su consiglio di Nat’ King’ Cole realizzò infatti concerti di enorme successo, incluso uno leggendario (famoso quello del 1959 a Rio de Janeiro). La sua ultima esibizione fu a Sidney nel 1975 [13]. Non lo faceva per i soldi. Di quelli ne aveva decisamente abbastanza. Lo faceva per amore. Disse sua figlia Maria:

«Mia madre era una tedesca prussiana e come tale possedeva un esagerato senso della disciplina e del dovere. Nessuno avrebbe resistito così a lungo sulla scena, come lei fece, fino ad un’ età nella quale le donne, in genere, preferiscono mettersi da parte. Lei si sentì, fino alla fine, impegnata a tenere viva l’ immagine di Marlene Dietrich, fatta di bellezza straordinaria e mistero, creata da Josef von Sternberg, il regista che l’ aveva lanciata, ma che poi aveva ripudiato la sua creazione. Marlene dedicò la sua vita a questa missione».

L’età, la solitudine e la depressione legata alla difficoltà di movimento causata dalle frattura agli arti inferiori, e gli alcolici, ebbero la meglio. Morì in un appartamento di avenue Montaigne, a Parigi, novantenne, il 6 maggio del 1992.

Alberto Quattrocolo

[1] Crescendo nel difficile periodo della Repubblica di Weimar, fece presto esperienza delle durezze della vita. Frequentò le scuole di Berlino e Dessau, studiando inglese e francese. Inoltre imparò a suonare il violino e il pianoforte. Grazie alla sua carica sensuale, non ebbe difficoltà eccessive a lavorare come ballerina e cantante nei cabaret di Berlino.

[2] Sternberg, chiamato a dirigerlo in doppia lingua, inglese e tedesco, doveva scegliere l’attrice giusta per il ruolo di Lola-Lola, la femme fatale che porta alla rovina il vecchio professore Unrat (personaggio nato dalla penna di Heinrich Mann per un dramma di impegno sociale, con un’esplicita polemica anti-autoritaria e di denuncia del bigottismo maschilista e patriarcale). Sottopose Marlene Dietrich ad un provino chiedendole di cantare un ritornello allusivo di una canzoncina da cabaret. Lei lo fece con la sua voce roca ed ebbe subito la parte.

[3] Emil Jannings divenne invidioso di Marlene Dietrich già durante le riprese. Pativa le attenzioni che il regista aveva per lei e cercava di fronteggiare, con il proprio gigionismo il crescente rilievo che, grazie alla collaborazione tra Sternberg e l’attrice, acquistava il personaggio di Lola-Lola nella realizzazione del film. Poi non riuscì più a controllare la rabbia:

«Durante le riprese delle scene dello strangolamento», raccontò in seguito Marlene Dietrich, «Jannings sembrava proprio che volesse strangolarmi. La mia gola rimase coperta di lividi per giorni e giorni, dopo che la scena era stata girata». Il rancore di Emil Jannings si fece ancora più profondo, quando divenuto attore ufficiale della Germania nazista, apprese che Marlene Dietrich, trasferitasi nel frattempo in America, aveva respinto i ripetuti inviti del ministro della Propaganda Joseph Goebbels a tornare in patria.

[4] Ne derivò una vera e propria guerra a distanza tra le due star. E non solo nel cinema, ma anche nel privato, tanto che per un certo periodo condivideranno anche la stessa amante.

[5] Tra le tante scene, due in particolare colpirono il pubblico: in una, vestita da uomo, Marlene Dietrich scendeva dal palcoscenico e baciava sulle labbra una giovane signora del pubblico. L’altra era il finale, in cui la Dietrich seguiva di corsa nel deserto il bellissimo soldato della Legione Straniera di cui era innamorata (Cooper), togliendosi e abbandonando nella sabbia le scarpe coi tacchi.

[6] In tutti questi film, diretti da Joseph von Sterberg, Marlene Dietrich interpretava donne prive di scrupoli e opportuniste, eroine negative, più che disposte a sfruttare la propria bellezza per raggiungere ciò che vogliono.

[7] I capelli diventati di un biondo platino, le sopracciglia ridotte a una linea sottile, la silhouette definita e androgina, erano accarezzati da una fotografia molto complessa, che creava aureole di luce sulle punte dei capelli, scavava le sue guance con le ombre, mentre il trucco si occupava di  ingrandirle gli occhi. Questo meticoloso lavoro sull’immagine dell’attrice sullo schermo era associato ad ambientazioni per lo più esotiche ricostruite interamente in studio, a stupendi costumi, spesso tendenti ad un sublime kitsch, e a scenografie fantasiose e barocche, illuminate da Garmes in modo tale da accentuare i richiami all’espressionismo.

[8] Fu il regista, di origini berlinesi, Ernst Lubitsch, allora a capo della produzione Paramount, a capire le nuove potenzialità dell’attrice, prima come produttore di Desiderio (1936, di Frank Borzage), al fianco di un brillante Gary Cooper, e poi anche come regista di Angelo (1937). Lubitsch “riportò Marlene sulla terra”.

[9] Paradigmatico di questa trasformazione fu tra gli altri La contessa Alessandra (1937, di Jacques Feyder), colossale rievocazione della rivoluzione bolscevica, in cui seppe collaborare meravigliosamente anche con un attore fuori classe come Robert Donat.

[10] Al gruppo occasionalmente si aggiungeva qualche suo o sua amante di turno, come l’ereditiera americana Jo Carstairs, il petroliere e produttore Joseph P. Kennedy, padre del futuro presidente degli Sati Uniti.

[11] Nel luglio del 1938, mentre era in Francia, ricevette una chiamata dal famoso produttore cinematografico Joe Pasternak (ebreo ungherese, che aveva lavorato in Germania e poi era emigrato a Hollywood), che le offriva un contratto alla Universal Studio.

[12] La sua versione di Lili Marlene si collegava alla partecipazione a programmi radiofonici di propaganda (come il MUZAC Project – musica per rendere la propaganda nazista meno efficace – dell’OSS, l’antenato della CIA). Nel 1947 per il suo impegno durante la guerra ricevette la Medal of Freedom, la massima onorificenza civile americana, mai prima d’allora assegnata ad una donna. Nel 1950 le venne anche conferita la Légion d’honneur dal governo francese.

[13] L’ultima apparizione cinematografica fu in Gigolò (1979, di David Hemmings), in cui, accanto a David Bowie, interpretava la tenutrice di un bordello nella Berlino dei primi anni Trenta.

Il primo giudice ucciso dalla mafia

Il caso Scaglione segna un confine che non può essere oltrepassato, un punto di non ritorno.

Il 5 maggio 1971, il Procuratore Capo della Repubblica di Palermo Pietro Scaglione e l’autista Antonio Lo Russo, agente di scorta, percorrono in auto via dei Cipressi. Come ogni mattina, il giudice si sta recando al cimitero di Palermo: la visita è alla moglie Concetta, scomparsa da qualche anno. Prima di arrivare a destinazione, i due vengono affiancati da una Fiat 850, che in pochi secondi blocca la macchina. I killer scendono rapidi dal proprio mezzo ed esplodono due raffiche di mitra. Scaglione e Lo Russo muoiono sul colpo.

La frase che apre l’articolo di oggi è presa dall’editoriale del Corriere della Sera del giorno successivo all’omicidio: Alberto Sensini sintetizza bene la situazione che si apre con quell’atto efferato. La mafia, fino a quel giorno, non aveva ancora toccato un magistrato. Certo, di sangue ne era stato versato molto, sempre troppo, ma l’escalation si era come fermata. L’attacco a viso aperto alle istituzioni era ancora lontano. Uccidere un giudice, tuttavia, costituì un chiaro passo in quella direzione. Davvero “un punto di non ritorno”.

Cesare Terranova, Lenin Mancuso e Boris Giuliano nel 1979, Carlo Alberto Dalla Chiesa nel 1982, Giangiacomo Ciaccio Montalto e Rocco Chinnici nel 1983, Ninni Cassarà e Roberto Antiochia nel 1985, Rosario Livatino nel 1990, Antonino Saetta e il figlio Stefano nel 1988, Antonino Scopelliti nel 1991. Gli uomini di legge caduti sotto i vili colpi degli uomini d’onore sono molti. Negli ultimi mesi abbiamo provato a ricordarne alcuni. Pietro Scaglione fu, suo malgrado, il primo di questa orribile lista.

Palermitano di origine, nasce agli inizi del nuovo secolo. In pochi anni potrà rivestire il ruolo di difensore dello stato, anche nelle vesti di Vicepretore e Pretore. Giunto alla Procura della sua città, gli vengono affidati i processi per la strage di Portella della Ginestra del 1° maggio 1947. Nel febbraio del 1954, Gaspare Pisciotta, luogotenente di Salvatore Giuliano condannato all’ergastolo, chiede di parlare con un magistrato. È di turno Scaglione. Pisciotta ricostruisce a lui i particolari e la dinamica di quella strage. Il magistrato assicura che tornerà l’indomani con un cancelliere. Ma Pisciotta muore dopo aver bevuto un caffè alla stricnina. Da Procuratore capo indaga anche sulla strage di Ciaculli e con l’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo contribuisce a reprimere efficacemente la mafia, come attesta anche la Relazione della Commissione parlamentare antimafia.

Nondimeno, come scrisse Giovanni Falcone, il primo omicidio di un giudice ebbe “lo scopo di dimostrare a tutti che Cosa nostra non soltanto non era stata intimidita dalla repressione giudiziaria, ma che era sempre pronta a colpire chiunque ostacolasse il suo cammino”. Una strategia di attacco diretto, inedita fino a quel momento, che può far pensare a un cambiamento ai vertici di Cosa nostra. Tesi sostenuta anche da Tommaso Buscetta, celeberrimo collaboratore di giustizia, che, di fronte allo stesso Falcone, diceva di Scaglione: “Un magistrato integerrimo e spietato persecutore della mafia”. Per il Boss dei due mondi, le menti e gli autori della strage furono Luciano Leggio e Salvatore Riina. La mafia siciliana stava cambiando, probabilmente in peggio.

Purtroppo, le indagini non portarono a prove sufficientemente certe a condannare nessuno, per cui, ad oggi, la verità giudiziaria è lontana dall’identificare i responsabili di quel doppio omicidio. Una cosa è certa, dice Pietro Scaglione, il nipote: “Mio nonno (riconosciuto “vittima del dovere” dal Ministero della Giustizia, previo parere del Csm) fu ucciso per avere svolto la sua attività giudiziaria in modo “specchiato e inflessibile” “.

Alessio Gaggero

La guerra in casa dei cambogiani e degli americani

Il 4 maggio del 1970, improvvisamente, la Guerra del Vietnam deflagrò all’interno degli Stati Uniti, assumendo le sembianze di una sorta di guerra in casa. Da anni il popolo americano vedeva sugli schermi televisivi i reportage del conflitto in corso in Vietnam, ma quel maggio di 49 anni fa, dal Sud Est Asiatico il conflitto esplose sul suolo statunitense. Quel 4 maggio, per gli statunitensi quella divenne assai simile ad una guerra in casa loro. Divenne, cioè, una realtà incontrovertibile, e ineludibile, l’esistenza di un fronte interno, lontano migliaia di chilometri da quello in cui si fronteggiavano, da un lato, l’esercito del Nord Vietnam e le forze comuniste del Sud Vietnam sue alleate, che aspiravano all’unione del Vietnam intero in unico Stato, sotto un regime comunista, e, dall’altro, le forze armate sud-vietnamite e quelle americane. La dimostrazione drammatica, per gli americani, della tangibile esistenza di una guerra in casa loro, il 4 maggio del ’70 fu rappresentata da 13 giovani studenti colpiti da circa 65 proiettili, sparati, in 13 secondi, da 28 soldati della Guardia Nazionale, alla Kent State University dell’Ohio. Dei 4 studenti che persero la vita, uno, William Schroeder, non era coinvolto nella dimostrazione che la Guardia Nazionale era andata a reprimere. Schroeder era membro del capitolo del servizio militare universitario.

Quel lunedì 4 maggio del 1970 gli oltre mille soldati della Guardia Nazionale erano stati inviati a reprimere l’occupazione dell’università statale della città di Kent da parte di circa 3.000 studenti contrari all’invasione della Cambogia da parte delle forze armate statunitensi, avviata pochi giorni prima, il 29 aprile, dal presidente degli Stati Uniti Richard M. Nixon [1]. Anche per i cambogiani, quel conflitto combattuto al di là dei loro confini, rispetto al quale erano stati fin lì neutrali, diventava una guerra in casa loro. Le vittime cambogiane nel giro di pochi anni diventarono milioni e gli orrori crebbero fino a rivaleggiare con quelli del nazifascismo.

«La teoria del pazzo» di Richard Nixon

Quella in Vietnam per gli americani era diventata una vera e propria guerra fin dal 1965 e poco alla volta aveva iniziato a dividere il popolo americano [2]. Nixon, eletto presidente nel novembre del ’68, proprio grazie alle frustrazioni e al dissenso sul conflitto in Vietnam svoltosi sotto l’amministrazione del democratico Lyndon Johnson, su una cosa era irremovibile: non aveva nessuna intenzione di diventare «il primo presidente degli Stati Uniti che perde una guerra». E pensava che gli USA avrebbero potuto battere il Nord Vietnam non sul campo di battaglia, ma su quello psicologico. Si trattava di terrorizzare i comunisti, per indurli a sottomettersi alle sue proposte di accordo [3]. Così, in seguito, Nixon disse al Capo di gabinetto della Casa Bianca, H. R. Haldeman:

«La chiamo la “teoria del pazzo”. Voglio che i nordvietnamiti credano che ho raggiunto il punto in cui farei qualsiasi cosa pur di porre fine alla guerra. Faremo giungere alla loro orecchie, che “per Dio, sapete che Nixon è ossessionato dai comunisti. Non riusciamo a fermarlo quando è arrabbiato. E ricordatevi che tiene il dito sul bottone nucleare”, Vedrai che Ho Chi Min in persona in due giorni sarà a Parigi a chiedere la pace».

L’ambigua politica del principe cambogiano Nordom Sihanouk

Coerentemente con questa impostazione, dopo il giuramento come presidente (20 gennaio 1969), Richard Nixon decise che il suo primo obiettivo era la Cambogia. Qui, il principe Nordom Sihanouk, ottenuta l’indipendenza dalla Francia nel 1954, aveva condotto una politica alquanto ambigua e ondivaga. Confinante con la Tailandia e con il Vietnam, nemici tradizionali che più volte avevano tentato di invaderla nel corso dei secoli, la Cambogia aveva chiesto dapprima la protezione agli USA, ma quando, dalla primavera del ’65, le forze armate americane si impegnarono a difesa del Vietnam del Sud, il principe Sihanouk si avvicinò alla Cina, arrivando a rompere i rapporti con gli americani. Prevedendo la vittoria dei comunisti vietnamiti rispose positivamente alla richiesta di questi di poter usare il territorio cambogiano vicino alla frontiera con il Sud Vietnam per farvi passare armi e rifornimenti e installarvi proprie basi.

Il «diritto di caccia illimitata» a vietcong e nordvietnamiti in Cambogia e 14 mesi dii bombardamenti «di breve durata»

Il 29 dicembre del ’67, però, in un’intervista a Stanely Karnow, pubblicata sul Washington Post, Sihanouk disse che avrebbe concesso agli Stati Uniti un «diritto di caccia illimitata» a vietcong e nordvietnamiti in Cambogia, purché non venisse colpito alcun cittadino cambogiano [4]. Il presidente Lyndon Johnson, però, in quel momento era indisponibile ad estendere la guerra.

Era disponibile, invece, il suo successore, Nixon [5]. Il 17 marzo 1969, un paio di mesi dopo essersi insediato alla Casa Bianca, Nixon ordinò il bombardamento sulla Cambogia, come rappresaglia contro una rinnovata offensiva dei comunisti vietnamiti nel Sud Vietnam.

Quest’operazione, che era stata definita di “breve durata”, durò di fatto per 14 mesi ininterrotti [6]. L’efficacia dei bombardamenti americani sulla Cambogia si rivelò da subito alquanto dubbia. I nordvietnamiti parevano tutt’altro che scoraggiati. Ma questa tattica rientrava tra le ambiguità e le oscillazioni dell’amministrazione Nixon rispetto al Sud Est Asiatico: Nixon, infatti, ripeteva che, come già per la guerra in Corea, voleva raggiungere «con il Nord Vietnam una pace, sì, ma con onore»[7]. Era uno slogan che politicamente gli giovava. Il popolo americano, secondo i sondaggi, nella primavera del ’69 aveva un’elevata fiducia nelle capacità del presidente di fronteggiare la questione vietnamita [8].

L’operazione Phoenix e la crescita del dissenso interno, preludio alla successiva guerra in casa

Il 15 ottobre del 1969, però, un movimento di protesta si legò alle voci critiche sollevatesi al Senato e al Congresso da parte di membri del Partito Democratico e da repubblicani indipendenti [9]. Era un movimento moderato, portato avanti da appartenenti alla classe media e non solo da studenti e hippies [10]. Circa 250.000 persone marciarono su Washington, al seguito di diverse personalità, tra cui la vedova di Martin Luther King [11]. A motivare quelle persone era anche la rivelazione di una discutibilissima operazione della CIA, l’operazione Phoenix: funzionari, collaboratori e sostenitori dei comunisti nel Vietnam del Sud erano stati uccisi in quest’attività segreta, per un totale di 6.187. Ma tra le vittime vi erano anche semplici contadini, denunciati da vicini invidiosi. Frequente poi era stato il ricorso alla tortura.

Il discorso di Nixon sulla «maggioranza silenziosa»

Nixon reagì con un discorso, il 3 novembre, in cui, lanciò un appello al popolo americano [12].

«Questa sera, a voi, grande maggioranza silenziosa dei miei compatrioti americani, chiedo il vostro sostegno. Uniamoci per la pace. Uniamoci contro la sconfitta. Dobbiamo capire questo: i nordvietnamiti non possono sconfiggere o umiliare gli Stati Uniti. Solo gli americani lo possono fare».

Il successo del discorso di Nixon fu impressionante. Gli indici di gradimento del presidente salirono notevolmente e migliaia di lettere e telegrammi di sostegno giunsero alla Casa Bianca.

«Abbiamo cominciato a prendere a calci nel culo quei bastardi di progressisti e continueremo a farlo» (Richard M. Nixon)

Per Nixon era più di una vittoria politica. Era una vittoria personale all’interno del suo antico conflitto contro intellettuali, liberal e progressisti. Con i suoi collaboratori esultò dicendo: «Abbiamo cominciato a prendere a calci nel culo quei bastardi di progressisti e continueremo a farlo». Poi incaricò il vicepresidente Spiro Agnew di somministrare quei calci. Costui attaccò subito la stampa e i telegiornali.

Li definì «un’élite ristretta e non eletta», che «non rappresenta, ripeto, non rappresenta il punto di vista dell’America». I democratici reagirono qualificando tali affermazioni come un sollecitare «gli istinti più bassi del pubblico» [13].

Le fatali oscillazioni, e la deposizione, del principe Sihanouk e il linciaggio dei vietnamiti in Cambogia

Come reazione ai bombardamenti sulle loro basi in Cambogia, i nordvietnamiti decisero si infiltrare 12.000 guerriglieri del movimento comunista cambogiano, che avevano addestrato nel Nord Vietnam. Erano i khmer-rossi. Ciononostante, nel gennaio del 1970, Sihanouk decise di non rinunciare all’annuale cura dimagrante in una clinica della Costa Azzurra [14]. Così il suo primo ministro, il generale Lon Nol e il vice di questi, principe Sosowath Sirik Matak  – poiché le bustarelle intascate per consentire il traffico di armi verso le basi nordvietnamite cambogiane gli sembravano poca cosa rispetto a quanto avrebbero potuto lucrare da un massiccio sostegno americano -, ai primi di marzo, esortarono i giovani cambogiani a saccheggiare le delegazioni vietnamite e vietcong presenti in Cambogia. Mentre una folla di cambogiani assetati di sangue, in un’esplosione di antico odio etnico, massacrava innocenti vietnamiti residenti in Cambogia, Lon Nol e Sirik Matak, che Nixon in via riservata aveva deciso di appoggiare, fornendo loro personale della CIA e soldati cambogiani addestrati segretamente in Sud Vietnam, ordinarono ai comunisti vietnamiti di andarsene dalle loro basi cambogiane lungo il confine con il Vietnam e programmarono di deporre il principe Sihanouk. Lo fecero il 18 marzo 1970, mentre costui, dopo aver cercato vanamente un appoggio presso i sovietici, ripartendo da Mosca, stava per recarsi a Pechino.

Il sanguinoso caos cambogiano e l’invasione americana

Nel giro di dieci giorni la Cambogia era nel caos. Bande rivali cambogiane si ammazzavano tra loro, arrivando a mangiare il fegato e il cuore degli avversari assassinati. Vigilantes cambogiani, organizzati dalla polizia e da funzionari governativi, davano la caccia ai residenti vietnamiti, bambini e donne inclusi. Unità sudvietnamite, accompagnate da istruttori e consiglieri americani, penetravano segretamente in Cambogia, mentre i nordvietnamiti e i khmer-rossi nelle loro basi lungo il confine vietnamita combattevano con successo contro l’esercito cambogiano. Sihanouk, a Pechino cercò l’appoggio della Francia, ma subito dopo annunciò che avrebbe appoggiato i comunisti, cambogiani e nordvietnamiti, «per liberare la patria». Nixon, il 26 aprile superò ogni indugio e decise di procedere con l’invasione della Cambogia. Annunciò tale mossa la sera del 30 aprile in un discorso televisivo. Presentò l’operazione come una mossa tattica di secondaria importanza, tesa solo a colpire le basi comuniste in Cambogia, così da poter più velocemente concludere vittoriosamente il conflitto con i nordvietnamiti. Lo stava allargando, invece, portando la guerra in casa dei cambogiani. Mentre parlava, infatti, 20.000 militari sudvietnamiti e americani stavano attaccando le basi nordvietnamite e vietcong in Cambogia.

La sparatoria del 4 maggio alla Kent State Univerity fa dilagare la guerra in casa negli USA

Se la maggioranza degli americani continuava ad appoggiare il presidente, i politici democratici, la stampa, gli insegnanti, molti dipendenti dell’amministrazione federale, parecchi imprenditori e liberi professionisti erano angosciati e nettamente contrarsi all’estensione della guerra in casa cambogiana. L’invasione della Cambogia avrebbe dovuto essere deliberata dal Congresso, inoltre contraddiceva l’impegno di Nixon di porre fine alla guerra in Vietnam. Alla Kent State University gli studenti pacifisti tentarono di occupare l’edificio in cui venivano addestrati gli ufficiali della riserva. Il governatore James Rhodes, un nixoniano di ferro, promise ai dimostranti che li avrebbe «fatti fuori» e inviò la Guardia Nazionale per imporre l’ordine. Come abbiamo visto, persero la vita quattro giovani, di cui uno che non era un dimostrante pacifista. Quelle morti fecero esplodere la protesta in tutti gli Stati Uniti. Più di 400 università e scuole superiori furono chiuse per gli scioperi di insegnanti e studenti. Oltre 100.000 persone marciarono su Washington, circondando la Casa Bianca e altri uffici governativi. La polizia e le forze armate tornarono a sparare in altre manifestazioni, uccidendo di nuovo. Una sera, Nixon, accompagnato dal suo valletto andò al Lincoln Memorial, dove i giovani dissidenti tenevano una veglia notturna. Fece uno strano monologo, nel tentativo di esprimere loro la sua comprensione e vicinanza. Pochi giorni dopo, però, ordinò la formazione di un gruppo segreto per spiare gli oppositori, sia i politici democratici che quelli esterni al partito Democratico. Quando gli fu fatto notare che lo spionaggio interno era illegale, rispose:

«Quando lo fa il presidente, allora è legale».

Alberto Quattrocolo

 

[1] Sulla rubrica Corsi e Ricorsi abbiamo fatto riferimento alla figura di Richard Nixon nell’ambito della caccia alle streghe anticomunista, avviata nella seconda metà degli anni Quaranta e divenuta “maccartismo” dal 1950, nel post sull’elezione di John Kennedy alla carica di presidente, di cui egli era l’avversario del partito Repubblicano, nel post dedicato alla fallita invasione di Cuba, nel post sui bombardamenti nel Nord Vietnam, in quello sull’eccidio di My Lai e in quello sullo scandalo Watergate

[2] Abbiamo parlato qui, sulla rubrica, Corsi e Ricorsi, dell’incidente del golfo del Tonchino, verificatosi sotto la presidenza di Lyndon Johnson, già vicepresidente di John F. Kennedy e subentrato a questi al momento del suo assassinio il 22 novembre del 1963 (lo abbiamo ricordato qui). Johnson aveva vinto poi le elezioni del 1964, con un successo travolgente grazie al suo programma di estensione e rafforzamento del Welfare State (il programma della Great Society), ma alla fine del suo mandato lui e il suo partito, quello democratico, erano in una grave crisi di consensi. Nel marzo del 1968, a circa 9 mesi dalle nuove elezioni presidenziali, il candidato repubblicano Richard M. Nixon affermò che aveva «un piano segreto per il Vietnam». Era una balla. Non aveva alcun piano. Però, aveva compreso che l’escalation militare che Lyndon Johnson stava portando avanti era inutile, poiché la vittoria sul campo di battaglia era impossibile.

[3] Come aveva fatto con la Corea del Nord il presidente Dwight Eisenhower, di cui Nixon era stato vicepresidente. Eisenhower durante i negoziati con i nordcoreani, all’inizio del 1953, per superare lo stallo, aveva fatto sapere loro di essere disposto ad impiegare la bomba atomica se non si ammorbidivano, ottenendo un concreto progresso. Quindici anni dopo Nixon intendeva emulare il suo precedente capo.

[4] Poi nel gennaio del 1968, ripeté la stessa proposta all’ambasciatore americano in Cina, Chester Bowles, in visita ufficiale nella capitale cambogiana Phnompenh. Infatti, nel 1967, la Cina, sprofondata com’era nell’isolamento della “rivoluzione culturale” di Mao Zedong, non rappresentava più una solida protezione per il principe Nordom Sihanouk, il quale osservava con apprensione la concentrazione di forze nordvietnamite vietcong (i comunisti del Sud Vietnam che conducevano la guerriglia contro il governo filoamericano di Saigon).

[5] Costui, una settimana dopo il giuramento, ascoltò la proposta del nuovo capo delle forze armate americane in Vietnam, il generale Creighton Abrams, succeduto al gen. Westomerland. Abrams raccomandò un bombardamento aereo di breve durata sulle basi cambogiane dei vietcong, sostenendo che vi fosse il quartiere generale comunista e che nessun cambogiano abitava nei paraggi. Si seppe poi che Abrams mentiva consapevolmente: quelle aree erano popolate di civili. I cambogiani cominciavano a vivere il conflitto del Vietnam come una guerra in casa loro. Da lì a poco, la conta delle vittime sarebbe salita a livello di centinaia di migliaia

[6] Non potendo continuare a bombardare il Nord Vietnam, come aveva fatto Lyndon Johnson, per non pregiudicare i tentativi di dialogo in corso a Parigi con il Vietnam del Nord, Nixon aveva deciso di mostrare la sua faccia feroce sulla formalmente neutrale Cambogia. Naturalmente era indispensabile che i bombardamenti restassero segreti, sia per evitare una crisi internazionale che per non risvegliare il sentimento pacifista negli USA. In maggio, però, il New York Times, con uno scoop, rivelò i bombardamenti. La notizia negli USA non sollevò la reazione pubblica temuta da Nixon. Costui e il suo consigliere per la sicurezza, Henry Kissinger, però, s’infuriarono e chiesero al direttore dell’FBI, Edgar J. Hoover, di aiutarli a soffocare queste manifestazioni giornalistiche antipatriottiche. L’FBI mise sotto controllo i telefoni di 14 giornalisti e di 13 funzionari del governo. Erano i primi abusi di autorità da parte di Nixon e dei suoi collaboratori che sarebbero emersi nel corso dell’inchiesta sul Watergate.

[7] Nixon cercò di influenzare l’URSS, proponendo anche a costoro di far pervenire al Vietnam del Nord, la “teoria del pazzo”, ma i sovietici, sapendo che, senza l’appoggio sovietico, Ho Chi Min e i suoi si sarebbero immediatamente spostati verso la Cina, risposero che ad essi interessava migliorare le relazioni con gli USA «a prescindere dal Vietnam». Nixon, allora, contemplò l’alternativa della «vietnamizzazione del conflitto»: un ritiro delle truppe combattenti da Vietnam del Sud, per lasciare a questo la responsabilità della guerra in casa loro. Il che, però avrebbe inevitabilmente determinato la vittoria delle forze comuniste del Vietnam del Nord. Per scongiurare tale eventualità, il presidente aveva in programma di riempire l’esercito del Sud Vietnam di consiglieri, attrezzature, bombardieri B-52, ecc. Contemporaneamente, però, Nixon intendeva negoziare direttamente con i nordvietnamiti, escludendo dalle trattative il governo sudvietnamita, per proteggere il quale le truppe americane erano lì almeno dalla primavera del ’65A luglio di quell’anno scrisse una lettera a Ho Chi Min in cui auspicava che una conferenza tra di essi posse fine al sanguinoso conflitto, facendogli anche pervenire un ultimatum: se entro il 1° novembre non si verificava una svolta diplomatica avrebbe fatto ricorso a misure di «grande efficacia e potenza». Il 2 settembre, però, il settantanovenne leader nordvietnamita morì. E la risposta di Ho Chi Min, già malato, probabilmente non realmente sua, alla lettera di Nixon fu un freddo rifiuto. La sconfitta del Vietnam del Sud e dei loro alleati americani era per essi un dovere sacro.

[8] Il presidente, però, frustrato dall’immutabilità del conflitto, decise infine di riprendere i bombardamenti sul Vietnam del Nord, che erano stati interrotti da Johnson nel novembre del ’68.

[9] Costoro avevano proposto risoluzioni per impegnare il governo a ritirare tutti i soldati americani dal Vietnam entro la fine del ’70.

[10] Era un movimento promosso da un ex studente di teologia, il venticinquenne Sam Brown, intenzionato a radicare la protesta, declinata in termini non violenti, nelle comunità, quindi al di fuori dalle università.

[11] Vi aderirono anche diverse star hollywoodiane (Warren Beatty, Jane Fonda, Joanne Woodward, Paul Newman e Marlon Brando, tra le altre, come abbiamo visto nei post Paul Newman, un uomo oggiQuando Marlon Brando rifiutò l’Oscar perché «non siamo umani»).

[12] In quel discorso confermò la sua intenzione di negoziare la cessazione delle ostilità con il governo del Nord Vietnam, a condizione che riconoscesse quello del Sud, e contestualmente ricordò di  essere disposto ad assumere «misure forte ed efficaci» di tipo bellico

[13] Ma la reazione più significativa fu quella del movimento di protesta. Dodici giorni dopo, il 15 novembre 1969, la manifestazione ebbe un’adesione superiore a quella del mese prima. Infatti, il 12 novembre erano emersi i fatti relativi all’eccidio di civili sudvietnamiti My Lai da parte di soldati americani (l’abbiamo ricordato nel post 12 novembre 1969: il giornalista freelance Seymour Hersh scopre l’eccidio di My Lai). Da quel momento in poi, la guerra del Vietnam per una corposa minoranza degli americani diventò «la guerra di Nixon». Pochi mesi dopo divenne anche una guerra in casa, combattuta con fucili a baionette innestate nel campus di un’università statale.

[14] Sihanouk a quel tempo poteva ancora contare sulla lealtà dei contadini, agli occhi dei quali era un dio-re, per quanto s’impoverissero ogni anno di più per le sue forsennate politiche economiche, ma non più sulle classi medie di Phnompenh.

Fonti

AA.VV., NAM – cronaca della guerra in Vietnam 1965-1975, Novara, De Agostini, 1988,

Stanley Karnow, Storia della guerra del Vietnam, Milano, Rizzoli, 1985,

Neil Sheehan, Vietnam. Una sporca bugia, Milano, Edizioni Piemme, 2003

www.it.wikipedia.org

La profezia di John Doe

Usciva il 3 maggio del 1941 nelle sale cinematografiche di tutti gli Stati Uniti Arriva John Doe, diretto da uno dei registi di maggiore successo commerciale e critico dell’epoca, l’italo-americano Frank Capra [1]. Il regista e il suo sceneggiatore di fiducia, Robert Riskin, entrambi produttori del film, si erano avventurati in un’opera piuttosto rischiosa, non solo per gli alti cosi produttivi, dovuti alle impegnative scene di massa e alla presenza di star quali Gary Cooper e Barbara Stanwick, ma anche sul piano politico. Tuttavia, Capra e Riskin credevano fortissimamente nel progetto e ne sentivano tutta l’urgenza.

Arriva John Doe e la situazione politica internazionale

Arriva John Doe era stato scritto e girato mentre in Europa e in Africa infuriava, da circa 2 anni, la Seconda Guerra Mondiale e l’Inghilterra da sola fronteggiava le armate di Hitler e Mussolini, che ormai dominavano l’intero continente europeo. Fino a quel momento il governo degli Stati Uniti, guidato dal democratico Franklin Delano Roosevelt, al suo terzo mandato (era stato eletto presidente degli Stati Uniti la prima volta nel 1932 ed era stato rieletto nel ’36 e poi di nuovo nel ‘40), era bloccato fin dall’agosto ’35 dalla mozione Pittman sulla neutralità e dall’insediamento in posti chiave di senatori repubblicani e di democratici conservatori (soprattutto degli Stati del Sud) determinati a tenere gli USA fuori dal conflitto, così come la maggioranza degli americani. Capra e Riskin, perciò, pur preoccupati al pari di Roosevelt e della minoranza degli americano liberal e progressista  dal dilagare dell’ideologia fascista nel mondo, sapevano che la maggior parte degli americani non avrebbe gradito un’opera apertamente interventista e antifascista. Decisero così di collocarsi sulla scia delle precedenti produzioni realizzate insieme, che avevano ottenuto un notevole apprezzamento da parte del pubblico e della critica.

John Doe e i suoi predecessori impegnati nella lotta contro il potere

Nel corso degli anni Trenta Frank Capra si era piazzato alle vette del box office con diverse pellicole molto apprezzate anche dalla critica. Tra Accadde una notte (1934), scritto da Riskin, che era stato premiato con ben 5 Oscar (miglior film, miglior regia, miglior sceneggiatura, miglior attore protagonista – Clark Gable – e miglior attrice protagonista – Claudette Colbert) e Orizzonte Perduto (1937), premiato per il montaggio e la scenografia, aveva realizzato la sua prima opera di schietto contenuto sociale: È  arrivata la felicità (1936). Il primo dei suoi film interpretato da Gary Cooper, nei panni di Longfellow Deed, era anche la prima pellicola che eleggeva a protagonista un cittadino comune in lotta con le manovre losche di plutocrati e politici corrotti. A questo, film che gli aveva fruttato un altro Oscar per la regia, erano seguite due opere con James Stewart, sempre sceneggiate da RiskinL’eterna illusione (1938) e Mr. Smith va a Washington (1939) –, di cui soprattutto la seconda proseguiva il discorso avviato da È  arrivata la felicità. Anche qui il protagonista, Jefferson Smith, era un uomo comune che diventa eroe per caso nel combattere da solo per il bene dell’intera comunità, sorretto solo dalla propria forza morale, contro esponenti corrotti e malintenzionati del potere politico e finanziario. Loschi e avidi figuri, determinati, prima a strumentalizzare la sua goffa eccentricità e la sua ingenua timidezza, poi a distruggerlo agli occhi della collettività. Così, Capra e Riskin, quando si misero all’opera per Arriva John Doe, decisero che avrebbero concluso la trilogia sociale avviata nel ’36, ma spostandone un po’ l’asse.

Il maggiore rilievo politico di Arriva John Doe

Se Capra e Riskin erano consci dei rischi commerciali legati alla produzione di un’opera dichiaratamente antifascista, erano, però, anche persuasi del fatto che il pubblico avrebbe risposto positivamente ad un film, che, come i precedenti successi, avesse posto al centro un altro uomo comune. John Doe – che è l’equivalente del nostro Mario Rossi -, quindi, doveva essere soltanto un po’ più emarginato di Deeds e Smith, e come loro alle prese con l’opportunismo, la corruzione e l’immoralità di un potente. Ma, in tal caso, questo era incarnata non da un finanziere o da un politico qualsiasi, ma da un magnate dell’editoria (Mr. Norton, interpretato da Edward Arnold), intenzionato a diventare presidente degli Stati Uniti, con l’inganno e, soprattutto, con la manipolazione delle masse. Non contava molto, dunque, per i due autori delineare precisamente i contenuti fascisti del suo progetto politico. Era sufficiente, ai loro fini, esplicitare che si trattava di un programma di destra decisamente autoritario, ma rivestito di populismo.

Il lato oscuro del populismo denunciato da Arriva John Doe

Il populismo era sembrato essere proprio il credo di Capra e di Riskin, non solo in È  arrivata la felicità e Mr. Smith va a Washington, ma anche nelle altre pellicole di quel decennio [2]. Con Arriva John Doe, tuttavia, anche il populismo veniva messo in discussione. Sull’idealismo dei loro film degli anni Trenta, con il loro lieto fine rassicurante e liberatorio, scendeva ora il sipario. Arriva John Doe mostrava senza mezze misure come il populismo, anche quello più ingenuo, politicamente neutro e benintenzionato, contenesse al proprio interno la possibilità di essere strumentalizzato e pervertito alla stessa stregua delle visioni politiche organizzate e sviluppate dai partiti. In particolare, denunciavano Robert Riskin e Frank Capra, il populismo si prestava ad essere strumentalizzato dalla destra, specie da quella più reazionaria e filofascista.

Le ombre di Arriva di John Doe sul binomio populismo – onestà

L’aspetto più sinistramente pessimista di Arriva John Doe, quello che probabilmente ha fatto mancare all’opera il successo commerciale e critico cercato dai due autori-produttori, però, non risiede soltanto nell’avvertimento sui rischi che anche il più idealistico movimento populista possa essere inventato e manovrato da chi aspira al potere, per realizzare i propri interessi imprenditoriali e porre fine al sistema liberal-democratico. Ciò che rende profetico quel film è, da un lato, l’allarme che lancia sul falso mito dell’onestà della gente comune, dall’altro, il suo porre in dubbio l’affidabilità del buon senso del popolo, mostrandone l’incapacità di riconoscere chi, blandendoli, intende servirsi dei sentimenti collettivi [3].

Questo risvolto, oggi, in Italia, non meno che negli USA e in altri parti d’Europa, renderebbe una pellicola come Arriva John Doe un film particolarmente scomodo, forse ancor più di quanto non lo fosse ai tempi della sua uscita.

Il volto oscuro della folla

Neanche il popolo, l’insieme degli uomini comuni, dunque,  viene particolarmente lusingato in questo film. Le masse dei John Doe e dei Jane Doe che aderiscono a quel movimento, perché sembra ad essi il primo interlocutore collettivo in cui saranno protagonisti diretti, non brillano certo per perspicacia. Lusingati da un oratore (“Long” John Willough – John Doe) che dice loro che essi sono i veri buoni, i depositari autentici dei valori dell’onestà e dell’altruismo, non si chiedono chi e perché finanzi e gestisca una così complessa macchina organizzativa e propagandistica. Ai loro occhi il movimento è intrinsecamente affidabile non solo in quanto predica la solidarietà, ma perché quanto mai distante dalla politica fin lì conosciuta. Anzi, rifiutandosi di scrutare con occhio critico l’impiego capillare e mastodontico di tutti i mezzi di comunicazione possibili da parte del movimento dei Circoli di John Doe, questo gli pare essere la quintessenza dell’onestà. E perciò d’istinto lo contrappongono positivamente alle meschinerie dei partiti tradizionali. Ai cui esponenti i membri dei Circoli di John Doe non consentono di partecipare. Né i politici dei due maggiori partiti si permettono di mettere in discussione pubblicamente la purezza di quel movimento, essendo consci che il farlo significherebbe, in quel momento, commettere un suicidio politico. Come fa notare un personaggio in quel movimento può riconoscersi il 90% della popolazione. E questa può diventare la percentuale dei voti che potrebbe ottenere alle prime elezioni. Anzi, più che una possibilità, l’attesa di quel successo elettorale è esattamente lo scopo per cui quel movimento è stato inventato, organizzato e finanziato.

La pericolosamente manovrabile simbiosi tra il movimento populista dei circoli di John Doe e gli iscritti

Frank Capra, peraltro, ebbe l’abilità, anche, scegliendo un interprete come Gary Cooper, di sapere, grazie a pochi impercettibili passaggi, farci cogliere come il movimento dei Circoli di John Doe sia caratterizzato dalla creazione di un legame emotivamente fortissimo tra il suo portavoce, Gary Cooper (in realtà, un burattino i cui fili sono tirati dall’imprenditore Norton), e i suoi aderenti. Vi è tra Cooper e i membri dei Club una sorta di entusiastica e acritica identificazione totale, in cui ciascuno si specchia e si lusinga nell’altro. Questa simbiosi è la premessa necessaria per i fini, prima, elettorali e, poi, politici, che l’imprenditore Norton persegue. Poiché, assicurando la permanenza dell’emotiva adesione di massa, consentirà di potere poi condurre quegli elettori laddove l’opportunismo politico e le ambizioni del suoi vero padrone vorranno.

Non stupisce, dunque, che Frank Capra, per tutta la vita un convinto repubblicano conservatore, sia tornato a denunciare i rischi della demagogia populista 7 anni dopo, in pieno maccartismo (sul maccartismo si può vedere il post A cavallo della paranoia). Realizzando Lo Stato dell’Unione (1948), affiderà ad un attore che, come Gary Cooper, era per gli spettatori sinonimo di onestà, Spencer Tracy (ne abbiamo parlato nella rubrica Corsi e Ricorsi, nel post L’umanità di Spencer Tracy, il fascismo e l’America First), il ruolo di un candidato repubblicano alle presidenziale, scelto e manovrato dai cinici vertici del partito, per il suo appeal populista.

 

Alberto Quattrocolo

[1] Arriva John Doe era stato proiettato in anteprima il 12 marzo a New York City, Los Angeles e Miami. Uscirà in Italia soltanto nel 1948.

[2] Negli anni del New Deal di Roosevelt, anzi del secondo New Deal, decisamente più progressista del primo, i film di Frank Capra non erano un’esaltazione delle politiche economico-sociali sviluppate dal Partito Democratico al potere, con la loro complessa attuazione organizzativa, che orientava, smistava e addirittura creava lavoro. La visione capriana rinviava piuttosto ad una sorta di Old Deal: una celebrazione dell’iniziativa individuale, non intralciata dalla macchina governativa, che sapeva tradursi spontaneamente in solidarietà sociale e reciproca comprensione. Certamente gli stava a cuore la realtà sociale, come confermò nel ’71, nella sua autobiografia, Il nome sopra il titolo.

«Volevo cantare le canzoni degli operai oppressi, degli sfruttati, degli afflitti, dei poveri. Volevo stare al fianco degli eterni sognatori e condividere l’offesa di tutti coloro che erano disprezzati per motivi di  azza e di censo. Soprattutto, volevo combattere per le loro cause sugli chermi del mondo intero».

Però, in tutti i suoi film guardava con sospetto programmi e ideologie. La sua era la fiducia cieca nell’integrità morale degli sfruttati e degli oppressi, cioè, del pubblico dei suoi film, che egli senza sforzo riusciva a far sentire apprezzato e rispettato.

[3] Infatti, i due poveri diavoli protagonisti, l’homeless “Long” John Willough, alias John Doe (Gary Cooper), e la giornalista Ann Mitchell (Barbara Stanwick), non possono affatto dirsi del tutto integerrimi, essendosi entrambi lasciati comprare e manipolare da Norton. Né può essere definito spontaneo e puro il movimento dei Circoli di John Doe, anche se coloro che vi aderiscono lo ritengono tale. Anzi, paradossalmente, proprio nel momento in cui il personaggio di Cooper tenta di di dire la verità, smette di essere creduto e viene disprezzato dalla folla. Solo uno sparuto gruppo di seguaci, indisposti a rinunciare all’idealizzazione originaria, gli resterà accanto, assicurando un happy end, assai poco consolatorio.

Fonti

La visione del film

AA.VV., Il cinema, Grande Storia Illustrata, Vol. II., Istituto Geografico De Agostini, Novara, 1981

AA.VV., Storia del cinema mondiale, Giulio Einaudi Editore, Torino, 2000

1997, muore Paulo Freire, ideatore della “pedagogia degli oppressi”

Non è possibile stare nel mondo senza fare storia, senza essere da essa plasmati, senza fare cultura, senza ‘trattare’ la propria presenza nel mondo, senza sognare, senza cantare, senza fare musica, senza dipingere, senza prendersi cura della terra, delle acque, senza usare le mani, senza scolpire, senza fare filosofia, senza punti di vista sul mondo, senza fare scienza, o teologia, senza timore davanti al mistero, senza imparare, senza insegnare, senza idee di formazione, senza fare politica.

Il 2 maggio 1997 muore per un attacco cardiaco Paulo Freire, pedagogista e teorico dell’educazione. Settantacinque anni dedicati “agli straccioni di ogni parte del mondo” per liberarli dall’oppressione attraverso l’educazione, intesa come pratica di libertà: idee maturate attraverso l’esperienza in Pernambuco, regione del Brasile che all’epoca aveva quindici milioni di analfabeti (su una popolazione di 25 milioni), approfondite durante la prigionia politica e l’esilio. Freire risveglia negli oppressi la coscienza del proprio valore, mette a punto un rivoluzionario metodo psicosociale e lo sperimenta sul campo: nel 1962, in soli 45 giorni, alfabetizza trecento tagliatori di canna da zucchero ad Angicos, nello stato di Rio Grande do Norte.

È un risultato sorprendente e il ministro dell’Istruzione lo chiama a coordinare il programma di alfabetizzazione nazionale, avviato nei primi mesi del ’64: con l’appoggio del governo, delle correnti politiche di sinistra e della Chiesa, nascono più di ventimila nuclei di alfabetizzazione in tutto il Paese, una rivoluzione senza precedenti. Gli educatori entrano nel mondo e nel linguaggio degli studenti e trovano con loro le parole generatrici – ad esempio, favelas – in grado di esprimere emozioni e realtà del quotidiano, in modo che discutendo di quelle parole gli allievi possano riconoscere la loro stessa vita; scomponendole e ricomponendole, trovano i fonemi fondamentali della lingua, con cui poter poi formare tutte le altre parole. Si costruisce così un percorso di apprendimento basato sul dialogo, inteso come strumento conoscitivo reciproco.

Il metodo Freire insegna agli adulti a leggere e scrivere in 40 ore (“chi ha fame ha fretta”, diceva), ma soprattutto a capire meglio il mondo, partendo dalla constatazione che un analfabeta che non conosca le ragioni del suo analfabetismo, anche se comincia ad acquisire nozioni, ritornerà all’analfabetismo: per questo l’educazione è anche educazione politica.

Ma alfabetizzare gli adulti significa anche far conquistare loro il diritto al voto. E così, nonostante il fondamento francescano, la sua pedagogia è ritenuta eversiva e, dopo il colpo di stato militare del ’64, Freire finisce in carcere per settanta giorni. Il nuovo governo abolisce il suo metodo educativo.

Dopo la prigionia, il pedagogista va in esilio in Bolivia, e poi, a causa del colpo di Stato, in Cile, dove lavora per cinque anni presso l’Istituto cileno per la Riforma Agraria e concepisce la sua opera più nota, la “Pedagogia degli oppressi” (1968), tradotta in più di 20 lingue ma pubblicata in Brasile solo nel ‘74. Nel ‘69 gli è offerto un posto di visiting professor all’Università di Harvard, in seguito lavora a Ginevra come consigliere educativo speciale del Consiglio Ecumenico delle Chiese e quindi si occupa della riforma educativa nelle colonie portoghesi in Africa, in particolare in Guinea Bissau e Mozambico, dove, per dieci anni, lavora all’educazione alla libertà dopo il colonialismo e scrive “Pedagogia in cammino, lettere dalla Guinea”.

La figura di Paulo Freire non può essere scollegata dalla realtà del Brasile a partire dagli anni Sessanta, dalle comunità di base e dal concetto di coscientizzazione. La sua esperienza umana, educativa e pedagogica prende le mosse da un’esigenza imprescindibile di concretezza, dalla necessità di un rapporto stretto e vitale con la realtà, fatto innanzitutto di ascolto, attenzione, conoscenza.

Il suo lavoro fonda la pedagogia critica e contribuisce a una filosofia dell’educazione ispirata a Platone tanto quanto ai pensatori moderni marxisti e anticolonialisti. Di fatto, la “pedagogia degli oppressi” può essere letta come uno sviluppo de “I dannati della Terra” di Frantz Fanon, che poneva una forte enfasi sulla necessità di fornire ai popoli nativi un’educazione che non fosse semplicemente un’estensione della cultura del colonizzatore.

L’educazione è concepita per la liberazione, come prassi trasformatrice, un atto organizzato collettivamente. Freire sottolinea la differenza fra prendere coscienza (atto intellettuale) e coscientizzazione (che implica un coinvolgimento più profondo). Autentico umanista, insiste sulla necessità di una nuova razionalità bagnata di emozioni, su una concezione della conoscenza che non separi aspetti cognitivi ed affettivi. Per questo l’educazione deve partire da una migliore conoscenza di ciò che già sappiamo, leggendolo non solo con gli occhi, ma con tutti i sensi: si tratta di conoscere per cambiare, aprendo la strada a una società della cittadinanza, aperta, libera.

Freire denuncia a più riprese “la realtà brutale” in cui l’autentica vocazione umana viene negata nell’ingiustizia, nello sfruttamento, nella violenza degli oppressori, in cui prevale a volte un ordine ingiusto, altre volte la “falsa generosità, che si alimenta con la morte, lo scoraggiamento e la miseria”, altre ancora “il potere invisibile dell’addomesticamento alienante”, la “burocratizzazione della mente”, uno stato di estraniazione, di conformismo dell’individuo, di accomodamento. Comunque, l’errore e l’ingiustizia fondamentale consistono nel vivere la realtà come fatalità, nel guardare “ai fatti come a qualcosa di già consumato, come a qualcosa che è successo perché doveva succedere”, alla “storia come determinismo e non come possibilità”.

All’interno di un regime basato su rapporti di forza, Freire individua i processi di disumanizzazione e prescrizione: la prima riguarda la violazione dei diritti, l’ingiustizia sociale, la fame e la negazione di accesso alla conoscenza, mentre la seconda concerne l’introiezione dei valori degli oppressori, al punto che la percezione di cambiamento è intesa nello svoltare da oppresso in oppressore. Al fine di contrastare i primi due processi, Freire introduce il concetto di “inserzione critica”, fondata sulla presa di coscienza della condizione di uomo come tale e non come cosa o strumento, e sull’educazione problematizzante, intesa come dialogo.

A questo tipo di educazione Freire contrappone quella che definisce “educazione depositaria” (oppure bancaria), così definita perché l’intervento educativo diventa un atto del depositare (come nelle banche), dividendo rigidamente le persone tra coloro che sanno e coloro che non sanno: ai primi spetta comunicare agli altri il frutto del loro sapere, trasmettere loro la sicurezza che credono di possedere, insieme alle norme di comportamento; dai secondi si pretende l’umiltà di imparare, obbedire ed eseguire quanto viene loro detto.

Tale visione, secondo Freire adottata da ogni tipo di dominatore, lascia il mondo esattamente come lo trova, perché riduce l’uomo a un mero esecutore di ordini. L’educazione depositaria perpetua e aggrava l’opposizione oppressore-oppresso, facendosi paladina di una concezione del sapere, della scienza, della storia in possesso soltanto di alcuni, mentre gli altri, la maggioranza, vengono alienati in una condizione di minorità e ignoranza. In questa “cultura del silenzio”, gli uomini, ridotti al mutismo, all’analfabetismo cronico, rimangono “semplicemente nel mondo, e non con il mondo e con gli altri. Uomini spettatori e non ri-creatori del mondo.”.

L’analfabetismo – l’essere senza parola – è una piaga culturale, la cui componente più grave è proprio il mutismo globale di chi non possiede lo strumento essenziale, la parola autentica, che gli permetta di “leggere” il mondo e la storia e di “scrivere” con le proprie mani e con la propria azione qualcosa di nuovo, che contribuisca a dare un nome al mondo stesso: “Se il parlare autenticamente, che è lavoro, che è prassi, significa trasformare il mondo, parlare non è privilegio di alcuni uomini, ma il diritto di tutti gli uomini.”.

L’educazione comincia dalla consapevolezza che cambiare è difficile, ma è possibile, dalla fattiva sostituzione della “ribellione come denuncia” alla passiva rassegnazione: io, essere umano, “ho il diritto di provare collera, di manifestarla, di averla come motivazione per la mia lotta”. Il metodo di questa “lotta” è soltanto l’educazione autentica, dialogica, democratica, e sue dimensioni esistenziali imprescindibili sono la ricerca e la curiosità, il continuo porsi domande e cercare risposte, in particolare rispetto alla propria realtà di uomini.

In questa prospettiva l’educazione, chiamata a non essere sterile e a-storica ma ad entrare criticamente in dialogo costruttivo con la realtà, con la cultura, non può non farsi “educazione politica”, impegno attivo di ciascuno a “partecipare”, a essere attore protagonista di cambiamento del mondo che gli viene consegnato: gli uomini sono tenuti, attraverso essa, a superare la “schizofrenia storica” che li vuole assenti dal mondo e ad essere veramente “bagnati di realtà”.

Nel 1980, Freire ritorna in Brasile e ricomincia a studiare per cogliere i cambiamenti nel suo Paese. Diventa supervisore per il programma di educazione degli adulti, riceve il premio Unesco per la pace e 29 Paesi in tutto il mondo gli conferiscono la laurea honoris causa. Nell’88 diventa assessore all’educazione nel Comune di San Paolo, mettendo in piedi una grande rivoluzione culturale anche con temi trasversali, come l’eco pedagogia, e lì rimane fino alla morte. La moglie Anna Maria, nel 2007, otterrà le scuse ufficiali dal governo del Brasile per l’esilio a cui era stato costretto. Scuse che il governo ha esteso “a ogni brasiliano analfabeta”.

Silvia Boverini

Fonti:
https://it.wikipedia.org; G. Milan, “Alla scoperta di Paulo Freire nella pedagogia attuale”, http://www.giovaniemissione.it; http://paulofreire.it; B. Buonocore, “Paulo Freire”, http://nuovadidattica.lascuolaconvoi.it; A. M. de Luca, “Paulo Freire, il maestro degli oppressi: un ricordo a vent’anni dalla scomparsa”, www.repubblica.it

Quella festa del primo maggio trasformata nella prima strage della Repubblica

Sul pianoro a metà strada tra i comuni di Piana degli Albanesi, San Giuseppe Jato e San Cipirello, in provincia di Palermo, circa 2.000 persone si erano ritrovate per festeggiare il primo maggio del 1947.

Democrazia, pace, terra e libertà

Il regime fascista aveva cancellato questa festa, sostituendola con quella del 20 aprile, il Natale di Roma. Ma la dittatura fascista era finita. La Seconda Guerra Mondiale era finita. Mussolini era morto due anni prima, il 28 aprile del 1945, e il suo cadavere era stato esposto e dileggiato dalla folla il giorno dopo (lo abbiamo ricordato qui, su questa rubrica, Corsi e Ricorsi). Il 30 aprile si era suicidato Hitler. In Italia, l’anno prima di quel sanguinoso primo maggio del 1947, esattamente il 2 giugno, col Referendum sulla forma di Stato, la maggioranza degli italiani aveva deciso che l’Italia non sarebbe più stata una monarchia, ma una repubblica. Ed erano stati eletti contestualmente i membri dell’Assemblea Costituente deputata a scrivere il testo della nuova costituzione repubblicana. Il 20 aprile del 1947 in Sicilia si erano svolte le elezioni dei membri dell’Assemblea regionale. Avevano votato uomini e donne, visto che era stato introdotto il suffragio universale. Insomma, a prima vista si sarebbe detto che l’incubo era finito. Che si era aperta una nuova fase. Un’era di pace, di libertà e di democrazia. I siciliani avevano eletto i loro legislatori regionali. E aveva ottenuto un successo notevole il Blocco del Popolo (29 seggi su 90, col voto del 32% degli elettori), costituito dall’alleanza tra i socialisti di Nenni e i comunisti di Togliatti. La Democrazia Cristiana aveva avuto soltanto il 21%, ottenendo 21 seggi. Erano lì, su quel pianoro, il primo maggio, quei circa 2000 siciliani, per festeggiare la vittoria elettorale. Molti di essi, infatti, erano agricoltori e contavano su quella novità politica per uscire dalla miseria e dall’ingiustizia derivante dal sistema del latifondo. La festa, infatti, era anche una manifestazione per la riforma agraria e in particolare contro il latifondismo, visto che, ancora nel ’46, in Sicilia, il latifondo rappresentava quasi il 28% dell’intera proprietà fondiaria contro il 17% della media nazionale [1].

La violenza mafiosa contro politici e sindacalisti di sinistra e contro il Blocco del Popolo nelle elezioni di aprile

Però le elezioni regionali, di cui il primo maggio 1947 quei lavoratori festeggiavano il risultato, non si erano svolte in un clima di legalità e sicurezza. La violenza mafiosa si era palesata con un’intensità non dissimile da quella fascista ai tempi delle elezioni del 1922 e del 1924. E i suoi bersagli erano sindacalisti e politici socialisti o comunisti.

Il terrorismo mafioso contro sindacalisti, politici e militanti di sinistra

Quindici di loro erano stati assassinati dal giugno del 1945 fino a quel primo maggio 1947 [2]. Si trattava di una vera e propria strategia del terrore che prendeva di mira sindacalisti, politici, contadini e operai di sinistra e che si era manifestata anche a ridosso delle elezioni. Il 4 gennaio era stato assassinato il dirigente comunista e del movimento contadino Accursio Miraglia (ne abbiamo parlato anche nel post sull’omicidio di Placido Rizzotto: Placido Rizzotto: «I nostri nemici non sono i padroni, ma noi stessi»). Il 17 gennaio era stato trucidato il militante comunista Pietro Macchiarella, mentre altri mafiosi avevano sparato tra i lavorati del Cantiere navale di Palermo.

«Chi voterà per il Blocco del popolo non avrà né padre né madre»

Salvatore Celeste, capomafia di Piana, al termine di un comizio aveva gridato:

«Voi mi conoscete! Chi voterà per il Blocco del popolo non avrà né padre né madre».

Ciononostante, il 32% dell’elettorato siciliano aveva votato per il Blocco del Popolo, ribaltando il risultato delle elezioni del 1946 per l’Assemblea costituente. In quell’occasione, infatti, la Democrazia Cristiana aveva ottenuto il 33,62% al 20,52%, mentre il PSI e il PCI aveva raggiunto, rispettivamente, appena il 12,25% il 7,91% [3].

Le minacce e gli “avvertimenti” ai manifestanti del primo maggio

Tra i partecipanti alla manifestazione per il primo maggio del 1947 qualcuno ricordò di aver sentito alcuni giorni prima, in paese, mormorare una frase premonitrice:

«Partirete cantando, tornerete piangendo».

La stessa mattina del primo maggio a San Giuseppe Jato una donna, moglie di un esponente qualunquista, aveva avvertito altre donne che intendevano recarsi alla manifestazione a Portella della Ginestra, dicendo loro:

«Stamattina vi finirà male».

A Piana un mafioso si era rivolto ai manifestanti con queste parole:

«Ah sì, festeggiate il primo maggio, ma vedrete stasera che festa!».

La strage del primo maggio a Portella della Ginestra

Nonostante le minacce e gli avvertimenti non si poteva immaginare che qualcuno potesse arrivare a sparare su una folla inerme. Era passato del tempo dai Fasci siciliani e dai massacri successivi. Cose che non si sarebbero ripetute, si pensava. In sostituzione di Girolamo Li Causi, deputato del PCI all’Assemblea Costituente e segretario regionale comunista, un calzolaio di San Giuseppe Jato, Giacomo Schirò, segretario della locale sezione socialista, decise di parlare alla folla. Dopo pochi minuti dall’inizio del suo discorso, all’improvviso, però, dalle colline circostanti il pianoro, partirono raffiche di mitra. Dapprima si credette che fossero scoppi di mortaretti. Non lo erano. La mascella di una bambina si coprì di sangue. Un bambino cadde colpito alla spalla. Qualcuno si abbatté al suolo senza rialzarsi. Tra questi un uomo con la testa maciullata. Una donna perdeva sangue dal petto crivellato sulla carcassa della sua cavalla. La gente cominciò a correre terrorizzata. Secondo le fonti ufficiali, quelle raffiche ammazzarono 9 adulti e 2 bambini e ferirono altre 27 persone, alcune delle quali morirono in seguito per i proiettili ricevuti. Tra i feriti due restarono invalidi per tutta la vita, una perse la vista e la parola e un altro l’uso della gamba destra. La carneficina durò in tutto un paio di minuti.

Il primo maggio 1947 a Portella della Ginestra era stata commessa la prima strage dell’Italia repubblicana.

Le reazioni alla strage del primo maggio.

La CGIL reagì alla strage con lo sciopero generale e accusando i latifondisti di tentare di «soffocare nel sangue le organizzazioni dei lavoratori». Ma l’Ispettore capo di polizia in Sicilia, Ettore Messana, qualificò il fatto come un episodio circoscritto, di carattere locale. In realtà erano state subito fermate 74 persone tra le quali dei noti mafiosi. E all’Assemblea Costituente il giorno dopo la strage del primo maggio, Girolamo Li Causi propose le sue accuse. Se già dopo le elezioni del 20 aprile, disse, c’era stata una campagna a base di provocazioni politiche e di intimidazioni, durante la strage il maresciallo dei carabinieri si era intrattenuto con dei mafiosi. Inoltre, denunciò, tra coloro che avevano aperto il fuoco sulla folla, si erano visti dei monarchici e dei membri del partito qualunquista. La sua accusa, però, venne interrotta dalle grida dei qualunquisti e di esponenti della destra presenti in Assemblea, mentre il ministro degli interni, il democristiano, Mario Scelba, sosteneva l’assenza di qualsiasi «movente politico». Secondo il ministro la strage del 1° maggio era stata solo un «fatto di delinquenza». Nei giorni seguenti i fermati vennero rilasciati, mentre l’ispettore Ettore Messana stabiliva che gli autori della strage erano Salvatore Giuliano e i suoi banditi. Nel frattempo, il 13 maggio, Alcide De Gasperi chiudeva il ciclo dei governi di unità nazionale, avviato con la fine della dittatura, cacciando i partiti socialisti e comunisti all’opposizione, mentre in Sicilia il democristiano Giuseppe Alessi dava vita ad un governo regionale, che escludeva il Blocco del Popolo, e si basava sull’appoggio dei partiti di destra oltre che della DC.

Il mistero sui mandanti della strage politica del primo maggio 1947

Nel 1948 Salvatore Giuliano scrisse una lettera all’Unità, in cui dichiarava che lo scopo della strage era di natura politica e alludeva apertamente a suoi rapporti con politici di spicco, incluso il ministro Scelba. Subito dopo molti membri della sua banda furono catturati. Il 5 luglio 1950 il bandito Giuliano venne ritrovato morto nel cortile della casa di un avvocato di Castelvetrano. Il Ministero dell’Interno comunicò che era stato ucciso, la notte precedente, in un conflitto a fuoco con un reparto dei carabinieri. Un articolo su L’Europeo, di Tommaso Besozzi, illustrò contraddizioni e incongruenze di quella versione, indicando, invece, come assassino di Salvatore Giuliano il suo luogotenente Gaspare Pisciotta, divenuto segretamente, poco prima della morte di Giuliano, un informatore dei carabinieri. Al processo di Viterbo per il massacro del 1° maggio a Portella della Ginestra, Pisciotta si autoaccusò dell’omicidio di Giuliano e accusò anche i deputati Bernardo Mattarella, Gianfranco Alliata, Tommaso Leone Marchesano e Mario Scelba di essere i mandanti politici della strage. Dichiarò:

«Servimmo con lealtà e disinteresse i separatisti, i monarchici, i democristiani e tutti gli appartenenti a tali partiti che sono a Roma con alte cariche, mentre noi siamo stati scaricati in carcere. Banditi, mafiosi e carabinieri eravamo la stessa cosa».

A gennaio del 1954, Pisciotta, detenuto all’Ucciardone, ritenendo di aver subito il carcere solo per avere servito lo Stato, chiese di parlare con il Procuratore della Repubblica di Palermo, Pietro Scaglione, per raccontargli la verità sui rapporti tra la banda di Giuliano e le autorità politiche. Scaglione ebbe un primo breve incontro con Pisciotta e lo rassicurò, dicendogli che si sarebbero rivisti dopo qualche giorno. Il 9 febbraio 1954, il giorno prima di incontrare Scaglione, Pisciotta morì avvelenato con un caffè corretto con la stricnina.

Pietro Scaglione verrà ucciso da Cosa Nostra quindici anni dopo.

Alberto Quattrocolo

[1] Già nell’ottobre del 1944, 14 mesi dopo lo sbarco in Sicilia delle forze anglo-americane, che avevano liberato l’isola da quelle nazifasciste, i contadini avevano occupato le terre incolte. L’occupazione era stata legalizzata da Fausto Gullo, il Ministro dell’Agricoltura del secondo governo Badoglio, nel quale erano rappresentati i partiti antifascisti, dopo vent’anni di dittatura. Gullo, comunista, tentando di rimediare alla povertà diffusa, aveva adottato alcuni decreti per permettere l’occupazione dei terreni non utilizzati e imporre una ripartizione dei raccolti che favorisse gli agricoltori anziché i proprietari, come invece prevedevano le consuetudini fino ad allora vigenti in Sicilia. Poi, però, i contadini siciliani persero questo loro alleato. Finita la guerra, nel Secondo governo di Alcide De Gasperi, Gullo fu sostituito all’Agricoltura dal possidente terriero democristiano Antonio Segni (Gullo prese il posto di Palmiro Togliatti come Ministro di grazia e giustizia).

[2] Andrea Raia (05/08/1944), che a Casteldaccia (Pa) si ribellava alla mafia in nome dei diritti dei contadini. Nunzio Passafiume (07/06/1945), sindacalista che lottava per l’occupazione delle terre in mano alla mafia. Agostino D’Alessandro (11/09/1945), segretario della Camera del lavoro di Ficarazzi (Pa). Giuseppe Scalia (25/11/1945), segretario della Camera del lavoro di Cattolica Eraclea (Ag). Giuseppe Puntarello (04/12/1945), dirigente della Camera del lavoro di Ventimiglia di Sicilia (Pa). Gaetano Guarino(16/05/1946), sindaco socialista di Favara e fondatore di una cooperativa agricola. Pino Camilleri (28/06/1946), sindaco socialista di Naro e organizzatore delle lotte contadine. Girolamo Scaccia e Giovanni Castiglione (22/09/1946), entrambi contadini ad Alia, in provincia di Palermo, uccisi nel corso di un attentato alla Camera del lavoro. Giovanni Severino (25/11/1946), segretario della Camera del lavoro di Jappolo Giancaxio (Ag). Filippo Forno (29/11/1946), contadino e sindacalista di Comitini (Ag). Nicolò Azoti(23/12/1946), segretario della Camera del lavoro di Baucina (Pa). Accursio Miraglia (04/01/1947), segretario della Camera del lavoro di Sciacca (Ag). Pietro Macchiarella (17/01/1947), militante del Partito comunista, impegnato nelle lotte contadine. Nunzio Sansone (13/02/1947), militante comunista, impegnato nella lotta per la riforma agraria, a Villabate, in provincia di Palermo. Leonardo Salvia (13/02/1947), impegnato nelle lotte contadine a Partinico (Pa).

[3] L’erosione democristiana fu recuperata dalle liste di destra: il Blocco LiberalQualunquista conquistò infatti 287.698 voti, pari al 14,8 % e 14 seggi; il Partito Nazionale Monarchico ebbe 185.423 voti, cioè il 9,5 %, quindi nove seggi. Il Movimento Indipendentista Siciliano (MIS), invece, ottenne solo 171.470 voti, corrispondente all’8,8 % e a otto seggi.Il PSU (futuro PSDI) ebbe 4 seggi, 3 li ebbero i Repubblicani, e 2 l’Unione Democratica Siciliana. Il Fronte dell’Uomo Qualunque ebbe un solo seggio.

Fonti

Santino Umberto, La democrazia bloccata. La strage di Portella della Ginestra e l’emarginazione delle sinistre, in Manali Pietro (a cura di), Portella della Ginestra 50 anni dopo (1947-1997), S. Sciascia editore, Caltanissetta-Roma 1999

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