Il massacro fascista dei cristiani etiopici a Debra Libanos

Il monastero cristiano copto di Debra Libanos, fondato nel XIII secolo, a circa 80 km da Adis Abeba, la capitale dell’Etiopia, divenne tristemente noto per via delle efferatezze della violenza fascista degli occupanti italiani. Il villaggio conventuale di Debra Libanos, infatti, tra il 21 e il 29 maggio 1937, entrò nella storia, nelle pagine più nere del colonialismo europeo in Africa, ma una storia che noi italiani non volemmo – e non vogliamo – conoscere né ricordare e ancor meno vogliamo (e ci fanno) studiare a scuola. Applicando un programma di sterminio, infatti, le truppe coloniali italiane, comandate dal generale Piero Maletti, per ordine del viceré, di Etiopia Rodolfo Graziani, massacrarono gli appartenenti alla chiesa copta etiopica presenti nella città conventuale di Debra Libanos. L’obiettivo della strage non era soltanto il conseguimento della sottomissione definitiva della chiesa cristiano copta e di quei pochi membri non trucidati e non ancora deportati della classe dirigente etiopica.

«Passi pertanto per le armi tutti monaci indistintamente, compreso vice-priore»

Il 19 maggio 1937, le truppe coloniali italiane avevano circondato la città-convento di Debra Libanos. Alle sette di sera, il generale Maletti ricevette da Rodolfo Graziani, nominato, un anno prima, il 20 maggio 1936, dal Capo del Governo, Benito Mussolini, viceré, governatore generale e comandante superiore delle truppe di occupazione, un telegramma. A Maletti veniva ordinato di uccidere «tutti [i] monaci indistintamente, compreso [il] vice-priore».

Il telegramma si chiudeva con la richiesta del viceré al generale di dargli conferma dell’esecuzione dell’ordine e di comunicargli il numero delle persone trucidate. Contemporaneamente, il viceré Graziani assicurò l‘ex ministro delle Colonie, diventato Ministro dell’Africa Italiana, Alessandro Lessona, che le esecuzioni sarebbero state

«effettuate in luoghi isolati e che nessuno – ribadisco: nessuno – può esserne testimone».

 

L’esecuzione fascista di 320 etiopici colpevoli di essere cristiani

Il generale Maletti, quindi, cercò un luogo adatto, in prossimità della città conventuale di Debra Libanos, che si prestasse alla comoda realizzabilità del massacro e alla sua segretezza. Maletti trovò quanto faceva al suo caso nella località di Laga Wolde, una spianata disabitata e raggiungibile dai camion, chiusa ad ovest da cinque colline e ad est dal fiume Finche Wenz. Separati sommariamente i religiosi dagli occasionali pellegrini, il 21 maggio, Maletti alle 13,00 in punto comunicò di aver fatto fucilare 320 persone. Due ore e mezza dopo il viceré Graziani fece arrivare a Roma un telegramma in cui assicurava che il plotone d’esecuzione aveva tolto la vita a «297 monaci, incluso il vice-priore, e 23 laici sospetti di connivenza».

 Un plotone d’esecuzione di religione musulmana

Per il massacro Maletti non si era servito degli eritrei arruolati nelle truppe coloniali italiane, essendo questi di religione cristiana. Il governo fascista aveva usato le truppe eritree, cristiano copte nella repressione della resistenza in Libia, approfittando, esaltando e strumentalizzando il loro odio religioso nei confronti dei resistenti libici (lo abbiamo ricordato nel post L’uso fascista dell’ odio religioso in Africa). Campione assoluto di questa operazione spregiudicata e criminale era stato Graziani, stimolato ed entusiasticamente sostenuto da Mussolini [1].

Nell’aprile del ’37, Graziani aveva scritto al generale Pietro Maletti:

«I mussulmani in tutto Impero debbono rappresentare nostra riserva di fronte qualsiasi movimento insurrezionale dello elemento copto. (…) Occorre perciò fin da ora curare l’elemento mussulmano et poi, se proprio occorra, impiegarlo anche in situazione attuale costituendo bande et battaglioni di sicuro rendimento».

Così, Maletti, per la realizzazione del bagno di sangue di Debra Libanos, impiegò gli ascari libici e somali, di fede musulmana, e, come scrisse, «i feroci eviratori galla della banda Mohammed Sultan: 1.500 uomini armati di pugnale, di lance e di vecchi fucili, agili come scimmie, liberi da ogni vincolo formale tattico e guidati dal loro istinto infallibile».

Furono pertanto gli ascari islamici a scaricare dai camion 320 esseri umani, a farli sedere lungo l’argine del fiume in secca, allineati, con la schiena rivolta verso il plotone di esecuzione. Poi facevano fuoco, e un ufficiale italiano sparava un colpo di grazia, vicino all’orecchio, a quelli che erano rimasti in vita.

Nessuno fu risparmiato

Qualcuno di coloro che si trovavano a Debra Libanos, però, era stato risparmiato fino a quel pomeriggio del 21 maggio 1937. Come relazionò Graziani al ministro Lessona, erano stati «risparmiati i giovani diaconi, i maestri e altro personale d’ordine». Costoro erano stati rinchiusi nelle chiese di Debra Berhàn, mentre il convento di Debra Libanos era stato chiuso. Tre giorni dopo, però, il viceré Graziani ordinava a Maletti di procedere alla «liquidazione completa». Maletti, allora, fece scavare due fosse in località Engecha, a pochi km da Debra Berhàn e il 26 maggio faceva a pezzi con le mitragliatrici 129 diaconi. Come scrisse Angelo Del Boca, «martiri giovanetti che la cristianità non ricorda e non piange perché africani».

Le vittime furono di più, molte di più.

In realtà, però, non furono ammazzate soltanto le persone indicate nei rapporti ufficiali. Uno studio dei professori Ian l. Campbell e Degife Gabre-Tsadik, condotto tra il 1991 e il 1994 provò che il 21 maggio erano state ammazzate tra le 1.000 e le 1.600 persone. Inoltre, un successivo studio, completato nel ’98, evidenziava che il 24 maggio a Engecha oltre ai diaconi di Debra Libanos, inizialmente risparmiati, erano state ammazzate altre 276 persone, fra insegnanti, studenti di teologia, monaci e sacerdoti appartenenti ad altri monasteri cristiani. Sicché il totale del massacro del 24 maggio sarebbe di 400 e quello complessivo ammonterebbe ad una cifra oscillante tra 1.423 e 2.033 vittime. Questa macabra contabilità va, poi, integrata, con i massacri compiuti nei giorni immediatamente precedenti da Maletti nella sua marcia su Debra Libanos. Infatti, ricevuto l’ordine di Graziani, egli era partito, il 16 maggio, da Debra Berhàn, con le sue truppe, alla volta della città conventuale, seminando la morte lungo il percorso. Nei suoi rapporti riferì di aver fatto incendiare 115.422 abitazioni (tucul), 3 chiese, un convento, dei cui monaci aveva ordinato la fucilazione e sterminato 2.523 partigiani etiopici.

Le premesse e le conseguenze dei massacri di Debra Libanos

Perché ammazzare preti, insegnanti e studenti, rei soltanto di predicare e studiare il cristianesimo? Cosa avevano fatto di male a Mussolini e al suo pupillo Graziani?

Abbiamo ricordato su questa rubrica, Corsi e Ricorsi, che Benito Mussolini aveva voluto l’invasione dell’Etiopia, senza farla precedere da una dichiarazione di guerra, per potersi pavoneggiare come l’uomo della provvidenza che aveva riportato l’Italia ai fasti dell’Impero romano. Nonostante l’uso di un’immensa quantità di uomini e mezzi, nonostante l’uso dei gas sulle truppe etiopi, sui ribelli e su pacifici pastori e contadini (si veda il post 27 ottobre ’35: l’Italia va a tutto gas… in Etiopia), dopo un anno e mezzo di combattimenti e stragi di civili, gli etiopici non si erano rassegnati alla dominazione italiana. E, il 19 febbraio del 1937, due giovani studenti di origine eritrea avevano compiuto un attentato ai danni del viceré d’Etiopia, Rodolfo Graziani. Come rammentato nel post La strage di Adis Abeba: una vergogna tutta italiana, la reazione disposta da Mussolini era stata di una ferocia rara. Non soltanto gli italiani residenti ad Adis Abeba, le camicie nere in prima fila, si erano lanciati in efferati linciaggi per le strade della città, ammazzando donne, vecchi e bambini, ma poi, in conformità, all’ordine del duce («tutti i civili e i religiosi etiopi sospetti devono essere passati per le armi e senza indugi»), erano stati fucilati un altro migliaio di civili. Inoltre, sempre, con l’autorizzazione di Mussolini, erano stati deportati in campi di concentramento e, addirittura, in strutture penali italiane, tutti gli appartenenti, attuali o potenziali, alla classe dirigente etiopica che era stato possibile catturare (notabili, giovani cadetti, studenti, laureati nelle università europee e statunitensi…). Inoltre, si erano massacrati anche i poveri cantastorie e gli eremiti (abbiamo rievocato questo orrore nel post Il massacro, tutto italiano, dei cantastorie etiopi). Ma l’idea di Graziani e Mussolini era che, per sottomettere del tutto l’indomita popolazione etiope, occorresse eliminare anche ciò che spiritualmente la sorreggeva. Non potendo ammazzare la religione, pensarono di ammazzare i religiosi, cioè il clero cristiano-copto [2].

Neppure questo disegno criminale, però, raggiunse l‘obiettivo. Come ammise, indirettamente, lo stesso Graziani in uno dei suoi tanti rapporti al governo di Roma, le continue violenze avevano ingrossato lo schieramento degli insorti [3].

Alberto Quattrocolo

[1] Il 18 marzo di quel ’37, cioè circa due mesi prima, Benito Mussolini, in visita in Libia, ricevuta la Spada dell’Islam, in qualità di Protettore dell’Islam, dalle mani di un capo berbero, sostenitore dell’alleanza con gli italiani, disse solennemente:

«L’Italia fascista intende assicurare alle popolazioni musulmane della Libia e dell’Etiopia la pace, la giustizia, il benessere, il rispetto alle leggi del Profeta e vuole inoltre dimostrare la sua simpatia all’Islam e ai Musulmani del mondo intero».

[2] Fu mostrando come prova un documento redatto in modo vago dal magistrato militare, che aveva investigato sull’attentato, il maggiore Franceschini, che avrebbe provato la correità dell’intera comunità di Debra Libanos, che Graziani impartì a Maletti l’ordine di andare a Debra Libanos e fucilare tutti i monaci del convento.

[3] Deluso per la mancata sottomissione dell’Etiopia, Mussolini, l’11 novembre del 1937, richiamò Graziani in Italia, sostituendolo con Amedeo di Savoia, duca di Aosta. Poi nel 1940. Quando fece entrare l’Italia in guerra accanto alla Germania nazista, il duce affidò a Graziani il compito della difesa della Libia dalle truppe inglesi, quindi, nell’autunno del 1943, lo nominò Ministro per la Guerra nell’orrenda Repubblica di Salò. Il 25 aprile del 1945, Graziani non seguì il duce in fuga verso la Svizzera e non finì a piazzale Loreto (che abbiamo ricordato in questo post). Si arrese agli americani. «Al processo», ricorda Del Boca, «fra le imputazioni mancava ogni riferimento ai crimini commessi in Africa. Inutilmente il governo etiopico avrebbe chiesto la sua estradizione. Oggi, a Filettino, suo paese natale, è venerato come un santo».

Fonti

Angelo Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale – 3. La caduta dell’Impero, Mondadori, Milano, 1996
Angelo Del Boca, Italiani, brava gente?, Neri Pozza, Vicenza, 2014
Matteo Dominioni, Lo sfascio dell’impero. Gli italiani in Etiopia 1936-1941, Editori Laterza, Roma-Bari, 2008
Nicola Labanca, Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, Il Mulino, Milano, 2015
Giorgio Rochat, Le guerre italiane in Libia e in Etiopia dal 1896 al 1939, Gaspari Editore, Udine, 2009.

A undici anni dall’ultimo proiettile, tornano le BR

Roberto Ruffilli, questo il nome dell’ultima vittima delle Brigate Rosse. Il professore e senatore della Democrazia cristiana fu stroncato nel 1988, poco prima che scissioni interne e arresti portassero al disgregarsi dell’organizzazione terroristica che rapì e assassinò Aldo Moro. Per diciotto anni contribuì a rendere tali gli anni di piombo. Ne passarono poi undici senza bombe o proiettili che portassero il marchio della stella a cinque punte. La mattina del 20 maggio 1999, però, quel passato tornò a far paura. A uccidere.

Professore di diritto del lavoro tra Catania, Napoli e Roma, fu anche amministratore e consigliere dell’Ente Nazionale Assistenza al Volo, nonché consulente del Ministero del lavoro e della previdenza sociale. Agli occhi degli estremisti armati, un servitore dello Stato.

Grazie ai testimoni, la ricostruzione giudiziaria della dinamica fu piuttosto lineare. D’Antona esce di casa verso le 8.00, percorre a piedi la sua strada fino a un cartellone pubblicitario, che lo cela agli sguardi che arrivano dalla carreggiata; qui viene bloccato da due persone, già appostate in un furgone lì vicino da quasi tre ore: gli scaricano addosso tutto il caricatore, per assicurarsi che non riprenda mai più a respirare, e se ne vanno in direzioni opposte. La vita del professore si ferma, il terrore ricomincia.

Bastano poche ore e inizia a circolare un lungo documento di rivendicazione dell’agguato:

Il giorno 20 maggio 1999, a Roma, le Brigate Rosse per la Costruzione del Partito Combattente hanno colpito Massimo D’Antona, consigliere legislativo del Ministro del Lavoro Bassolino e rappresentante dell’Esecutivo al tavolo permanente del “Patto per l’occupazione e lo sviluppo”. […]

In quegli anni era infatti in atto un tentativo trasversale di ristrutturazione del mondo del lavoro. Quel Patto per l’occupazione e lo sviluppo ne faceva parte, ma non piaceva ai nuovi terroristi rossi, che lo consideravano:

[…] centrale nella contraddizione classe/Stato, perno su cui l’equilibrio politico dominante intende procedere nell’attuazione di un processo di complessiva ristrutturazione e riforma economico-sociale, di riadeguamento delle forme del dominio statuale, base politica interna del rinnovato ruolo dell’Italia nelle politiche centrali dell’imperialismo.

Le Nuove Brigate Rosse, o Brigate Rosse per la Costruzione del Partito Combattente, sorsero dalle ceneri della vecchia organizzazione e tentarono di riprenderne l’opera, andando a colpire  uomini dello stato e personalità cardine.

Per quattro anni riuscirono a tenere viva la lotta armata di matrice comunista a fine eversivo: D’Antona fu, infatti, solo la prima delle vittime. Nel 2002 colpirono Marco Biagi, altro consulente del Ministero del lavoro, promotore di una riforma del lavoro, la cui legge prese il suo nome. L’anno successivo, temendo di essere scoperti dagli agenti della PolFer, Galesi e Lioce aprono il fuoco sul treno Roma-Firenze su cui stanno viaggiando. La testa dell’organizzazione cade in quell’occasione: Galesi, dopo aver ucciso un agente, viene ferito a morte, mentre Lioce viene catturata. Le Nuove BR vengono sostanzialmente smantellate, anche grazie alle numerose e dure condanne inflitte agli attentatori.

 

Alessio Gaggero

La strage nazifascista al Passo del Turchino

In diciassette erano scampati alla strage della Benedicta (alla quale su questa rubrica, Corsi e Ricorsi di Me.Dia.Re. abbiamo dedicato un post). Finiti in prigione furono tra coloro che vennero prelevati dal carcere genovese di Marassi, caricati su dei camion e portati, oltre il passo del Turchino, giù per un paio di km nei prati del Bric Busa.

Erano le prime ore del mattino del 19 maggio del 1944. L’Italia del Nord era sotto il dominio della Repubblica Sociale Italiana ed occupata dalle truppe del Terzo Reich. A lottare contro i fascisti italiani e contro i tedeschi c’erano i partigiani.

Qualche giorno prima di quel 19 maggio ’44, vale a dire il 15, alle sette di sera uno di loro travestito da tenente tedesco era entrato nel cinema Odeon di Genova, requisito dal comando tedesco per essere destinato all’uso esclusivo dei soldati tedeschi. Il partigiano riuscì ad uccidere quattro marinai tedeschi e e a ferirne altri 16.

La rappresaglia terroristica fatta dai nazifascisti superò il rapporto di 10 a 1 previsto dal bando di Kesselring, già messo in atto nell’eccidio delle Fosse Ardeatine. Infatti, oltre ai diciasette di cui si è fatto cenno, altri quarantadue antifascisti furono prelevati dal carcere di Marassi. Cinquantanove in tutto. Di cui molti sotto i vent’anni.

Quel mattino del 19 maggio del 1944 furono spinti a gruppi di sei su delle tavole, allungate su una grande fossa, che il giorno prima un gruppo di ebrei era stato costretto a scavare, in modo tale che ognuno dei destinati all’esecuzione, prima di cadervi dentro dopo la scarica di mitra, potesse vedere i cadaveri dei suoi compagni.

Per la strage del Turchino, come per quella della Benedicta e per quelli di Portofino e di Cravasco, in cui i nazifascisti trucidarono complessivamente 246 persone, Siegfried Engel, capo delle SS a Genova, conosciuto come il «boia di Genova», fu condannato all’ergastolo in Italia, soltanto, nel 1999. Però, non scontò mai la pena in quanto la prassi diplomatica tedesca non accettava l’estradizione. Nel 2002, novantatreenne, Engel venne stato processato ad Amburgo, dove venne condannato a sette anni di reclusione per crimini di guerra. Non li scontò per via dell’età avanzata. Morì nel 2006, a 97 anni, senza aver fatto un giorno di carcere.

Quanto osservato a proposito della Benedicta vale anche per questa strage del passo del Turchino e per le tante altre commesse da fascisti e nazisti.

«Questa paradossale dilazione temporale, connessa a ragioni di politica internazionale e interna, ha inciso pesantemente sulla possibilità di pervenire a una più chiara disamina dell’occupazione tedesca e dei rapporti tra le sue strutture di comando e la RSI, e ha contribuito alla creazione di meccanismi degenerativi di rimozione o falsificazione della memoria, in gran parte impedendo l’operazione “pedagogica” consistente nell’evidenziazione degli orrori del nazifascismo attraverso le ricostruzioni processuali, e soprattutto mediante le narrazioni, in sede dibattimentale, dei testimoni, vittime di tali orrori.

La mancanza di un processo unitario per le stragi nazifasciste ha comportato la dispersione dell’attenzione processuale nei rivoli rappresentati da vicende giudiziarie slegate fra loro, frammentate nel tempo e nello spazio: mancò una visione d’insieme e uno sforzo interpretativo volto a dar conto in una chiave complessiva dell’intero fenomeno. Eppure, già all’epoca, da parte degli Alleati fu osservato che i vari eccidi perpetrati nella nostra penisola apparivano non già frutto di ideazioni fra loro slegate, né conseguenza di ordini provenienti da comandanti sadici o crudeli, ma erano invece riconducibili entro lo schema unitario della “machinery of reprisals” (rappresaglia), al fine di terrorizzare le popolazioni civili e indurle ad abbandonare ogni collaborazione con il movimento resistenziale.

[…] nella magistratura ordinaria o militare mancò qualsiasi segnale di “rottura” al momento del passaggio dal precedente regime al nuovo ordinamento costituzionale, e “l’amministrazione della giustizia si trovò ad affrontare i temi cruciali connessi alle immani e tragiche vicende del conflitto mondiale, della guerra civile […] e del crollo del regime in un contesto di sostanziale continuità con l’ordinamento giudiziario, le prassi di gestione e gli atteggiamenti culturali ereditati dal regime fascista”.

Paradossalmente, i processi celebrati dalla magistratura ordinaria nell’immediato dopoguerra a carico dei criminali nazifascisti risultarono di gran lunga inferiori rispetto a quelli concernenti i presunti illeciti commessi dai partigiani durante la lotta resistenziale.

Nel 1960 la Procura Generale presso il Tribunale Supremo Militare, al fine di dare una parvenza di legalità a una situazione di assoluto stallo investigativo, adottò provvedimenti abnormi di “archiviazione provvisoria”.

Tutti gli incartamenti relativi alle stragi naziste perpetrate nel nostro Paese vennero poi rinvenuti nel 1994 nel cosiddetto “armadio della vergogna”, posto in una stanza da anni vuota e inutilizzata, e le cui ante, quasi simbolicamente, erano rivolte contro il muro.

La mancata celebrazione di processi a carico dei criminali nazisti ebbe un ulteriore effetto perverso, in quanto contribuì a determinare nell’opinione pubblica il convincimento che in guerra ogni comportamento posto in essere dal nemico possa considerarsi pienamente legittimo e che le stragi dei civili costituiscano un portato inevitabile del conflitto, sottratto all’area di competenza della giustizia.

D’altro canto i parenti delle vittime, constatando che l’apparato giudiziario non si indirizzava contro gli autori delle stragi, spesso finirono per ritenere che la responsabilità degli eccidi dovesse essere sostanzialmente attribuita a coloro che, con le loro azioni di guerriglia, avevano determinato tali cruenti reazioni. In altre parole, come scrisse lo storico Giovanni Continipoiché “quasi mai si erano processati e condannati i colpevoli, i superstiti furono incapaci di dimenticare, obbligati a ripensare ancora e ancora le azioni passate […] per comprendere perché la strage fosse avvenuta; crebbe così un racconto incessante, fatto di lunghe catene causali che venivano reiteratamente raccontate, con il quale si cercava di identificare il senso di quegli eventi terribili e che spesso individuò il colpevole, un capro espiatorio trovato di norma all’interno della comunità stessa. E non c’è dubbio che i partigiani, per colpire i quali spesso le stragi erano state compiute, si prestassero molto bene ad incarnare quel ruolo.”» (Silvia Boverini, La strage nazifascista della Benedicta, https://www.me-dia-re.it/la-strage-nazifascista-della-benedicta/)

Alberto Quattrocolo

 

 

Desaparecidos

I desaparecidos sono, in italiano, gli spariti. Un termine che di per sé potrebbe essere neutro, privo di risvolti giuridici, etici, morali, politici e storici. Ma, quando si sente o si legge questa parola, desaparecidos, la mente va immediatamente a coloro che furono fatti sparire da una delle più feroci dittature tra quelle che, complice la C.I.A., si affermarono in America Latina. Il 18 maggio del 1976, in Argentina, vennero ritrovati centoventisei corpi crivellati da raffiche di mitra. Erano i cadaveri di centoventisei desaparecidos.

30.000 desaparecidos

La parola desaparecidos era già stata impiegata per i 40.000 fatti sparire in Cile (delle sanguinose vicende cilene abbiamo parlato nel post 3 novembre 1970, Salvador Allende è presidente del Cile, all’interno di questa rubrica, Corsi e Ricorsi dell’Associazione Me.Dia.Re.),  durante la dittatura di Augusto Pinochet, ma fu con gli orrori della dittatura argentina che il termine si affermerà con questo particolare significato. In Argentina, infatti, delle 40.000 morti persone uccise a seguito del colpo di stato e della presa di potere (la notte del 24 marzo 1976) da parte del generale Jorge Rafael Videla Redondo, sono ben 30.000 gli spariti, i desaparecidos. Trentamila, tre quarti del totale, sono coloro che furono fatti sparire dal regime fascista di Videla e alle cui famiglie non fu mai comunicata la sorte. Trentamila persone che verranno inutilmente ricercati dalla Madri di Plaza de Mayo. Trentamila esseri umani che sparirono perché persone sospettate di appartenere ad organizzazioni studentesche, sindacali, politiche oppure perché ritenuti in grado di svolgere una qualsiasi attività interferente con la politica marziale della Giunta militare.

I rapimenti notturni, i «vuelos de la muerte»

Videla (poi condannato all’ergastolo per crimini contro l’umanità e morto in carcere), non volendo che il mondo conoscesse la natura sanguinaria del suo regime, optò per una modalità di realizzazione della repressione che fosse caratterizzata dalla segretezza più assoluta. Evitò così che la sua dittatura generasse immagini come quelle sugli orrori cileni, in particolare, quelle delle migliaia di persone detenute nello Stadio di Santiago del Cile, che fecero inorridire il mondo. Ed ottenne un altro risultato: far sparire le persone, anziché arrestarle pubblicamente, procurava una sensazione di tenebrosa, imprevenibile, costante esposizione alla minaccia di un oscuro potentissimo controllore. I rapimenti, infatti, avvenivano in piena notte. E dopo della persona sequestrata nessuno sapeva più niente.

«Solo Dio toglie la vita. Ma Dio è occupato altrove, e siamo noi a doverci occupare di questo compito in Argentina» (Ramón Camps)

Non soltanto nessuna notizia veniva più data dalle autorità, ma i desaparecidos venivano rinchiusi in luoghi segreti per essere poi soppressi. E anche la soppressione era realizzata in modo tale da preservare la segretezza degli omicidi. Ad esempio, ricorrendo ai «vuelos de la muerte». Caricati su aerei, migliaia di oppositori del regime, vennero lanciati sul Rio de La Plata o sull’Oceano Atlantico, per far sparire ogni traccia. A volte erano buttati in mare squartati, affinché gli squali arrivassero più rapidamente a sbranarli.

Il generale Ramón Camps, capo della Polizia Federale, disse:

«Solo Dio toglie la vita. Ma Dio è occupato altrove, e siamo noi a doverci occupare di questo compito in Argentina».

Le donne in stato di gravidanza venivano anch’esse uccise, ma dopo il parto, così i loro neonati venivano dati in adozione a funzionari, poliziotti e militari oppure venduti all’estero.

È vero, però, che certi centri di detenzione clandestini divennero vere e proprie carceri, acquisendo una sinistra notorietà. Tra queste la sede della scuola di addestramento della Marina Militare (ESMA), a Buenos Aires.

La guerra sporca

Videla, che, per la sua disumanità, oltre che per i suoi baffetti, venne chiamato l’Hitler della Pampa, ripeté in più occasioni le parole che erano state dette dal generale Ibérico Saint-Jean, governatore de facto della provincia di Buenos Aires:

«Prima elimineremo i sovversivi, poi i loro collaboratori, poi i loro simpatizzanti, successivamente quelli che resteranno indifferenti e infine gli indecisi».

Queste parole sintetizzavano efficacemente la «guerra sporca» («guerra sucia»), cioè il programma di repressione violenta finalizzato a cancellare la cosiddetta «sovversione». Per il regime di Videla erano sovversivi non soltanto i guerriglieri marxisti o peronisti attivi in Argentina dal 1970, ma chiunque esprimesse un dissenso nell’ambiente culturale, politico, sociale, sindacale e universitario. Nei confronti di costoro, oltre a 2.300 omicidi politici, fu scatenata una campagna repressiva di brutale ferocia. Non solo arresti e detenzioni senza procedimenti giudiziari, ma anche torture, oltre alle sparizioni già dette.

Terrorismo di Stato

Fin da subito la Giunta sospese le libertà civili e sindacali e condusse un’esplicita repressione nei confronti della sinistra, anche se il Partito Comunista, allineato a Mosca, appoggiò il governo militare, dato che l’U.R.S.S. non si schierò contro questa giunta fascista essendo l’Argentina un importantissimo fornitore di grano. Ma, com detto, accanto alla repressione alla luce del sole c’era la «guerra sporca». Il piano repressivo perseguito dalla giunta militare era molto più radicale, infatti, di quello dichiarato. L’apparato della repressione divenne rapidamente non soltanto illegale anche secondo le norme fasciste introdotte dalla Giunta, ma anche clandestino. E non poteva essere diversamente, essendo deputato a realizzare di fatto un terrorismo di Stato.

L’escalation della repressione arrivò, infatti, a colpire non soltanto attivisti politici o dissidenti dichiarati del regime, ma anche chi aveva, anche in modo indiretto, simpatizzato per una qualsiasi associazione attiva in ambito sociale o umanitario o qualsiasi organizzazione studentesca. Molti desaparecidos furono così persone che non avevano svolto né erano coinvolte in alcun modo in attività di opposizione al regime.

Le madri e le nonne di Plaza de Mayo

Le vittime di questa ondata di morte e di terrore furono riconosciute solo grazie alle dichiarazioni di morte presunta, ottenute dalle Madri di Plaza de Mayo, nel 1983, con l’appoggio di movimenti per i diritti umani, come Amnesty International. Due anni dopo, furono avviati i procedimenti penali nei confronti degli appartenenti alla Giunta militare.

Accanto alle Madri di Paza de Mayo era stata fondata anche l’associazione Nonne di Plaza de Mayo, con lo scopo di individuare e restituire alle famiglie legittime tutti i bambini figli di donne fatte sparire e dati in adozione.

A dónde van los desaparecidos

Tra le tante opere (saggi, romanzi, film, quadri, ecc.) dedicati ai desaparecidos, si può ricordare anche la canzone Despariciones, del cantante, attore, politico panamensi Rubén Blades. Una canzone, cantata anche da Mana, che dà voce al dolore, alla rabbia, alla denuncia e all’amore.

«Que alguien me diga si han visto a mi esposo
preguntaba la Doña
Se llama Ernesto X, tiene cuarenta años
trabaja de celador, en un negocio de carros
llevaba camisa oscura y pantalón claro
Salió anoche y no ha regresado
y no sé ya qué pensar
Pues esto, antes no me había pasado
ooo…

Llevo tres días
buscando a mi hermana
se llama Altagracia
igual que la abuela
salió del trabajo pa´ la escuela
llevaba unos Jeans y una camisa clara
no ha sido el novio, el tipo está en su casa
no saben de ella en la PSN ni en el hospital
ooo….

Que alguién me diga si han visto a mi hijo
es estudiante de pre-medicina
se llama Agustín y es un buen muchacho
a veces es terco cuando opina
lo han detenido, no sé qué fuerza
pantalón claro, camisa a rayas
pasó anteayer

A dónde van los desaparecidos?
Busca en el agua y en los matorrales
Y por qué es que se desaparecen?
por qué no todos somos iguales
Y cuándo vuelve el desaparacido?
Cada ves que lo trae el pensamiento
cómo se le habla al desaparecido
con la emoción apretando por dentro
oh…….

Clara, Clara, Clara Quiñones se llama mi madre
ella es, ella es un alma de Dios
no se mete con nadie
Y se la han llevado de testigo
por un asunto que es nada más conmigo
y fue a entregarme hoy por la tarde
y ahora dicen que no saben quién se la llevó
del cuartel

Anoche escuché varias explosiones
patún pata patún pete
tiro de escopeta y de revolver
carros acelerados frenos gritos
eco de botas en la calle
toque de puertas por dioses platos rotos
estaban dando la telenovela
por eso nadie miró pa’fuera

A dónde van los desaparecidos?
Busca en el agua y en los matorrales
Y por qué es que se desaparecen?
por qué no todos somos iguales
Y cuándo vuelve el desaparecido?
Cada ves que lo trae el pensamiento
cómo se le habla al desaparecido
con la emoción apretando por dentro» .

La traduzione in italiano, grosso modo, è così:

Qualcuno mi dica se ha visto mio marito,
chiedeva la signora,
Si chiama Ernesto X, ha quarant’anni,
fa il sorvegliante in una concessionaria,
portava una camicia scura e pantaloni chiari.
È uscito ieri sera e non è ritornato
e non so più cosa pensare
perché non mi era mai successo prima

Sono tre giorni
che cerco mia sorella
si chiama Altagracia
come la nonna
è uscita dal lavoro per andare a scuola
portava i jeans e una camicia chiara
non è stato il fidanzato, il tipo è a casa sua
non sanno niente di lei alla PSN né all’ospedale

Qualcuno mi dica se ha visto mio figlio,
studia medicina
si chiama Augustín ed è un bravo ragazzo
a volte cocciuto nell’esprimere le proprie idee
lo hanno trattenuto, non so chi
pantaloni chiari, camicia a righe
è successo l’altroieri.

Dove vanno gli scomparsi?
cerca nell’acqua e tra i cespugli
il motivo per cui scompaiono
è che non siamo tutti uguali
e quando lo scomparso torna
ogni volta che il pensiero lo richiama
come si parla allo scomparso,
con l’emozione che stringe il cuore!

Clara, Clara, Clara Quiñones si chiama mia madre
lei è, lei è un’anima di Dio
e non da retta a nessuno
l’hanno presa come testimone
per una faccenda che riguarda solo me
e che è venuta a riferirmi stasera
e ora dicono che non sanno chi se l’è portata via
dalla caserma.

Stanotte ho sentito delle esplosioni
patún pata patún pete
colpi di fucile e di pistola
macchine in corsa, frenate, grida
eco di stivali nella strada,
colpi alle porte, imprecazioni, piatti rotti
c’era la telenovela
per questo nessuno si è affacciato a guardare.

Dove vanno gli scomparsi?
cerca nell’acqua e tra i cespugli
il motivo per cui scompaiono
è che non siamo tutti uguali
e quando lo scomparso torna
ogni volta che il pensiero lo richiama
come si parla allo scomparso,
con l’emozione che stringe il cuore!

 

Alberto Quattrocolo

 

Un colpo alla testa uccide il commissario Calabresi

Di origine romana, Luigi Calabresi studiò giurisprudenza in Sapienza, ma, alla carriera forense, preferì quella nelle forze dell’ordine: nel 1965, a 28 anni, prese servizio come vicecommissario a Milano. Il percorso lavorativo in Questura lo portò fino a rivestire il ruolo di vice capo dell’Ufficio politico, passando per quello di Commissario capo. Nel frattempo, era riuscito anche a costruirsi una famiglia: Gemma, la moglie, era incinta del terzo figlio quando diventò vedova; Mario sarà direttore de La Repubblica fino a gennaio 2019.

La mattina del 17 maggio 1972 gli fu tolto tutto. Da poco uscito di casa, stava raggiungendo l’auto per andare, con ogni probabilità, in ufficio; davanti al civico 6 di corso Vercelli, fu colpito da un proiettile alla schiena e uno alla testa. Morirà poco dopo in ospedale, a 34 anni.

C’è un fatto, grave, che molti hanno legato all’omicidio Calabresi: la morte di Giuseppe Pinelli nel 1969. Il commissario, che all’epoca era incaricato di indagare sugli attentati per mezzo di bombe, dovette ampliare il proprio raggio d’azione alla strage di piazza Fontana. Le relative indagini portarono a convocare in Questura Pinelli, ferroviere che lavorava nella stazione di Porta Garibaldi. Trattenuto ben oltre i limiti previsti per legge, dopo tre giorni costui precipitò proprio dalla finestra dell’ufficio del commissario, per poi spirare qualche ora più tardi al Fatebenefratelli.

L’opinione pubblica si scagliò contro le forze dell’ordine, chiedendo il riconoscimento dell’omicidio e attribuendone il concorso anche a Calabresi e al questore, ritenuti essere presenti nella stanza al momento del fatto. Le dichiarazioni di tutti, compresi i cinque agenti che effettivamente si trovavano in quell’ufficio, portarono a escludere la presenza dei due ufficiali. Di più, l’inchiesta, conclusasi nel 1975, definì la morte come accidentale: “l’improvvisa alterazione del centro di equilibrio”, che portò alla caduta, fu provocata da un improvviso malore di Pinelli.

Il mondo sociale, politico e culturale facente capo alla sinistra si ribellò fortemente alla sentenza, facendo anche chiari riferimenti alla responsabilità del questore e del commissario. Di conseguenza, il movente dell’omicidio di Calabresi fu spesso rintracciato in ciò che accadde quel giorno del 1969 nel suo ufficio. Altre ipotesi portavano a sospettare degli ambienti della destra estrema, in considerazione del fatto che il commissario stava conducendo un’indagine sul traffico d’armi e finanziamenti agli eversori tedeschi. Ad ogni modo, le indagini ufficiali non portarono ad alcun rinvio a giudizio.

Almeno, fino a quando Leonardo Marino non decise di raccontare la propria versione. Nel luglio 1988, infatti, l’ex militante di Lotta Continua raccontò alle forze dell’ordine di aver partecipato attivamente all’omicidio, ordinato, a suo dire, da Adriano Sofri e Giorgio Pietrostefani. Dunque, sedici anni dopo i fatti, si aprì finalmente il processo. Per chiuderlo, ce ne vollero altrettanti. Sofri, Bompressi (l’esecutore materiale) e Pietrostefani furono condannati a 22 anni carcere.

Alessio Gaggero

Quando Rom e Sinti difesero i loro figli ad Auschwitz

Non a tutti è noto che anche i popoli Rom e  Sinti furono perseguitati e sterminati dai nazisti. E ancor meno noto è che anch’essi, all’interno del lager, come, ad esempio, gli ebrei e i soldati russi detenuti a Sobibor, tentarono di ribellarsi ai loro aguzzini, che li torturavano e massacravano.

«Sapevamo che ci stavano portando a morire nelle camere a gas e abbiamo preso la decisione migliore. Piuttosto che obbedire agli ordini dei carnefici nazisti avremmo sfidato la morte, lottando con onore e dignità».

Con queste paroleil 16 maggio del 2010, si espresse Raymond Guerenè, durante la prima cerimonia europea di rievocazione dell’olocausto nazista delle popolazioni Rom e Sinti. Costui faceva parte di quel gruppo di Rom e Sinti rinchiusi ad Auschwitz che, il 16 maggio 1944, si era ribellato alle SS.

L’ordine di Himmler di internare tutti i Rom e Sinti ad Auschwitz

Abbiamo già ricordato su questa rubrica, Corsi e Ricorsi (nel post 1942, Himmler emana il decreto per internare gli zingari ad Auschwitz), che il 16 dicembre 1942, Heinrich Himmler (a capo delle forze di sicurezza del Terzo Reich dal 1939), aveva emesso l’ordine di internare tutti gli appartenenti al popolo Rom ad Auschwitz. Qui, a costoro sarebbe stato apposto sul petto un triangolo nero con una Z, che stava per Zingari (Zigeuneri). Si trattava dell’ultima mostruoso passaggio della traduzione in atto dell’odio dei nazionalsocialisti verso i popoli del vento (rom e Sinti, che venivano chiamati zingari). Già alla metà degli anni trenta, poco dopo la presa del potere da parte di Hitler, era stato istituito un ufficio centrale per la lotta alla piaga zingara. I nazisti come tanti altri razzisti, prima e dopo di loro, odiavano visceralmente i Rom e i Sinti. Ma a differenza di altri razzisti, si erano preoccupati anche di sostenere una teoria scientifica in base alla quale definirli come una razza, oltreché impura (cioè non “ariana”), anche degenerata e geneticamente criminale. In virtù di tale assunto, non si erano fatti alcuno scrupolo nell’emanare delle leggi di sterilizzazione forzata, applicandola su 30.000 donne, né, come vedremo, di sottoporli poi agli “studi” (vale a dire a impiegarli come cavie umane in mostruosi esperimenti, ammantati di fasulla rilevanza scientifica) del dottor Mengele sui gemelli e sui bambini. Né vi furono, poi, remore di sorta, quando vennero ordinate le deportazioni nei lager.

La persecuzione del fascismo italiano contro Rom e Sinti

Le leggi razziali introdotte dal regime fascista nel 1938, oltre che gli ebrei erano indirizzate a colpire anche le comunità dei Rom e dei stini. Di costoro furono internati furono circa 25.000 individui. Gli ebrei furono 7.000. Le prime disposizioni in danno di Rom e Sinti vennero emanate l’11 settembre 1940. A tutte le prefetture d’Italia fu trasmessa una circolare dal capo della polizia Arturo Bocchini che disponeva l’internamento di tutti gli “zingari” italiani. Questo provvedimento era “giustificato” sulla base dei loro comportamenti antinazionali e del loro coinvolgimento in crimini gravi. In ragione di queste premesse, a dir poco frutto di generalizzazioni razziste, ne veniva ordinato il rastrellamento, da eseguirsi celermente, provincia per provincia. I luoghi di detenzione erano nelle isole Tremiti, dove già erano stati spediti i deportati dalla Libia (ne abbiamo parlato nei post L’uso fascista dell’ odio religioso in Africa e 25 ottobre 1911: gli italiani iniziano a deportare i libici in Italia), presso Agnone nel convento di San Bernardino, in Sardegna a Perdasdefogu, e poi dalle parti di Teramo, Campobasso, Viterbo, e a Colle Fiorito nella provincia di Roma.

Pořajmos

Pořajmos, che può essere tradotto in italiano con parole quali “grande divoramento” o “devastazione”, è il termine impiegato da Rom e Sinti per indicare lo sterminio del proprio popolo perpetrato da parte dei nazisti nel corso della Seconda Guerra Mondiale. Una vera e propria “pulizia etnica”. Oltre 500mila persone Rom e Sinti vennero ammazzate nei campi di sterminio. Ma a questo numero vanno aggiunti coloro che furono uccisi durante le incursioni nei campi nomadi nelle sommarie esecuzioni di massa che precedevano le registrazioni. Le condizioni di vita nel settore in cui erano detenuti Rom e Sinti ad Auschwitz-Birkenau erano tali da far diffondere impressionanti epidemie di tifo, di vaiolo e di  dissenteria, le quali  decimarono la popolazione del campo. Inoltre i medici tedeschi che operavano all’interno per svolgere i loro esperimenti, come il capitano delle SS Josef Mengele, selezionavano le loro cavie anche tra Rom e Sinti. Mengele, infatti, per i suoi test aveva selezionato gemelli e nani, anche tra gli appartenenti alle famiglie Rom e Sinti del campo. In tutto circa 35mila Rom, adulti e adolescenti, erano prigionieri in altri campi di concentramento tedeschi. Anche qui venivano selezionati per ricerche ed esperimenti “scientifici” realizzati nei campi stessi o in istituti poco distanti. Dopo gli ebrei e i polacchi, i rom sono stati per numero il terzo gruppo nazionale sterminato dai nazisti ad Auschwitz-Birkenau.

La rivolta dei Rom e Sinti del 16 maggio 1944.

Alla fine di marzo, le SS avevano ammazzato nelle camere a gas di Auschwitz circa 1.700 Rom, molti dei quali già malati, che erano appena stati deportati dalla regione di Bialystock. Poi, il 16 maggio del 1944, gli amministratori del campo decisero di sterminare tutti gli abitanti dello Zigeunerlager. Cioè, circa 5mila uomini, donne e bambini, Rom, Sinti e Manush. Per eseguire l’operazione, le guardie delle SS circondarono il settore nel quale costoro erano detenuti, per essere certi che nessuno gli  sfuggisse. Però, quando fu loro ordinato di uscire, i Rom e i Sinti si rifiutarono. Erano stati avvertiti di quel che stava per accadere loro e si erano armati con quanto avevano potuto trovare:  pietre, tubi di ferro, vanghe e vari altri attrezzi che usavano  normalmente per il lavoro forzato.

«Non vi daremo i nostri piccoli»

In tal modo riuscirono ad uccidere 11 SS e a ferirne diverse altre. Così gli ufficiali delle SS, sapendo che il tempo e diverse altre condizioni erano a tutto loro favore, decisero di evitare altri rischi ed elusero lo scontro diretto contro quei Rom, che per quanto stremati, ebbero la soddisfazione di vedere i loro persecutori e assassini ritirarsi.

Quelle donne e quegli uomini, senza alcuna speranza erano decisi a tentare di difendere i loro bambini con le poche  forze rimastegli.

«Non vi daremo i nostri piccoli perché li facciate uscire dai vostri camini. I vostri medici ne hanno già straziati tanti, sperimentando la loro scienza mostruosa su di loro» gridarono.

Lo sterminio dei Rom e Sinti nelle camere a gas di Birkenau

Poco per volta, però, tra la fine della primavera e l’inizio dell’estate, i nazisti trasferirono 3mila tra Rom e Sinti ancora in grado di lavorare ad Auschwitz I e in altri campi di concentramento dislocati in Germania. Poi, il 2 agosto,  le SS deportarono i restanti 2.898, la maggior parte dei quali erano malati, anziani, donne e bambini. Furono uccisi quasi tutti nelle camere a gas di Birkenau. Alcuni ragazzini, che erano riusciti a nascondersi durante le operazioni di trasferimento, vennero scoperti  e trucidati nei giorni seguenti. Almeno 19mila dei 23mila Rom e Sinti di Auschwitz furono eliminati nel lager.

Durante il processo di Norimberga non verrà ammessa la costituzione di parte civile dei superstiti Rom e Sinti e, nel 1953, la legge sugli indennizzi che stabiliva un risarcimento a coloro che erano stati perseguitati per motivi politici, di razza e religione, non riconoscerà nulla a Rom e Sinti. Il Porrajmos verrà ufficialmente riconosciuto dalla US Holocaust Memorial Museum di Washington solo nel 1994.

Alberto Quattrocolo

Fonti:

Boursier, Lo sterminio degli zingari durante la seconda guerra mondiale, www.storiaxxisecolo.it

Antonella De Biasi, Auschwitz, la rivolta degli ultimi, www.patriaindipendente.i

Tomasone, Il genocidio nazista dei rom, www.akra.it

Mino Piane, Auschwitz: 16 Maggio 44, la rivolta di Rom e Sinti contro le SS, www.blastingnews.com

 

1988, inizia il ritiro delle truppe sovietiche dall’Afghanistan

Il 15 maggio 1988, dopo 9 anni di conflitto, l’Armata Rossa sovietica iniziò le operazioni di disimpegno dall’Afghanistan di circa 100.000 uomini di svariate divisioni, brigate e reggimenti d’assalto, mezzi blindati e corazzati, squadroni di caccia e di elicotteri d’attacco, consulenti militari, personale del GRU e del KGB; la maggior parte dell’esercito sovietico era dispiegata nelle grandi città e negli aeroporti principali, dai quali partivano i “raid senza quartiere sulla popolazione”, tutti situati nelle province orientali.

Gli accordi di Ginevra del 1988 tra Afghanistan e Pakistan, con l’URSS e gli Stati Uniti come garanti, posero fine all’intervento sovietico nella guerra civile afgana e stabilirono un meticoloso piano di ritiro, elaborato dallo Stato Maggiore sovietico, che attraverso una completa copertura aerea e il fuoco di sbarramento delle batterie di artiglieria intendeva limitare ulteriori perdite – si registrarono tuttavia 500 caduti.

La ritirata si concluse il 15 febbraio dell’anno seguente, quando l’ultimo generale lasciò la “tomba degli imperi”: lo precedeva una lunga fila di blindati e di uomini con il kalashnikov in spalla, la tel’njaška sotto la mimetica, il volto segnato e tanti compagni lasciati sul campo. Quell’immagine fu il simbolo della vittoria dei mujaheddin, che combattendo una guerra di liberazione, e “per procura” allo stesso tempo, poterono festeggiare la cacciata del secondo esercito più potente del mondo dalla loro terra.

Dall’esterno era difficile capire quanto la guerra afgana avesse pesato nell’Unione Sovietica. L’assenza di pubbliche manifestazioni di dissenso, del tipo di quelle che caratterizzarono l’America durante la guerra del Vietnam, non deve ingannare: fin dall’inizio i sovietici hanno odiato questa guerra, comprendendo appieno l’inaccettabilità delle motivazioni ufficiali. E questa non fu l’ultima delle ragioni che diedero a Gorbaciov la forza di mettere la questione all’ordine del giorno: già due anni prima, al XXVII Congresso del partito, il Presidente aveva parlato per la prima volta di “piaga purulenta” dell’Afghanistan. La nuova politica della glasnost e l’attenuazione della censura consentirono ai giornalisti sovietici di dare descrizioni più veritiere di quanto stava accadendo in Afghanistan, rendendo edotta la popolazione delle reali condizioni in cui si trovava a operare il “limitato contingente di truppe sovietiche”; il nuovo clima contagiò le stesse forze armate, tra alti ufficiali che manifestavano aperto dissenso e reduci che raccontavano le loro reali esperienze: “all’inizio eravamo elettrizzati. Ci dissero che stavamo andando a combattere contro gli Americani. Solo che quando arrivammo, degli Americani non c’era traccia. Dovevamo combattere contro fantasmi che apparivano e scomparivano nella notte. La popolazione civile era ovviamente ostile. Noi non capivamo loro e loro non capivano noi.”.

L’invasione sovietica dell’Afghanistan, da molti definita il “Vietnam russo”, che preannunciò la definitiva caduta dell’URSS e devastò lo stato afgano, aveva avuto inizio il 24 dicembre 1979, dopo lunghi tentennamenti seguiti al colpo di stato messo in atto nell’aprile ‘78 dal Partito Democratico Popolare dell’Afghanistan (PDPA), quando il presidente Mohammed Daoud Khan, in carica dal 1973 dopo aver detronizzato il re, venne ucciso, e il potere fu assunto da Mohammed Taraki, uomo poco gradito alle gerarchie religiose. Nasceva con lui la “Repubblica Democratica dell’Afghanistan”.

La “rivoluzione d’aprile” del 1978 era stata salutata come la speranza di un nuovo Afghanistan. Duecentomila famiglie contadine ricevettero le terre ridistribuite con la riforma agraria. Fu abolito l’ushur, la decima dovuta dai braccianti ai latifondisti, i prezzi dei beni primari furono calmierati, i servizi sociali garantiti a tutti dallo stato, i sindacati legalizzati. Partì una campagna di alfabetizzazione e scolarizzazione di massa; nelle aree rurali vennero costruite scuole e cliniche mediche; iniziò un piano di emancipazione delle donne: le bambine finalmente poterono andare a scuola e, per legge, non furono più oggetto di scambio economico nei tradizionali matrimoni combinati.

Nonostante la laicizzazione dello Stato, la religione islamica non venne penalizzata; tuttavia, le gerarchie religiose islamiche afgane iniziarono a denunciare la soppressione della libertà religiosa da parte del governo: in realtà, come spiegarono allora il New York Times e la BBC, era la riforma agraria ad aver suscitato la loro opposizione, dato che i religiosi erano anche proprietari delle terre e beneficiari delle decime. E furono questi a fomentare l’opposizione armata, la jihad dei mujaheddin (santi guerrieri) contro “il regime dei comunisti atei senza Dio”.

Taraki rifiutò seccamente questa definizione, preferendo quella di “rivoluzionario” e “nazionalista”. Anche in politica estera il nuovo governo afgano scelse il non allineamento, limitando i rapporti con l’URSS di Leonid Breznev ad accordi di cooperazione commerciale.

Ma a Washington il caso afgano suscitò grande preoccupazione e molti alla CIA, al Pentagono e al Dipartimento di Stato suggerirono al presidente Jimmy Carter di sostenere la nascente guerriglia afgana in funzione antisovietica, procurandosi un nuovo fedele alleato regionale in sostituzione dell’Iran, appena perduto con la rivoluzione khomeinista del gennaio ‘79. Molti alla Casa Bianca osservarono che armare i mujaheddin afgani era avventato, per il rischio di provocare un intervento armato dell’URSS, oltre che per la pericolosità potenziale di allevare una simile forza integralista islamica. Ma l’idea di far impantanare l’URSS in un “suo Vietnam” fece accantonare i dubbi, e il 3 luglio ‘79 Carter firmò la prima direttiva per l’organizzazione degli aiuti bellici ed economici segreti ai mujaheddin afgani, convinto di siglare la condanna a morte del nemico sovietico.

La CIA costruì praticamente dal nulla un’enorme rete internazionale che coinvolgeva tutti i paesi arabi, Arabia Saudita in testa, allo scopo di far arrivare ai mujaheddin fiumi di denaro e armi, nonché migliaia di volontari della guerra santa. Come base logistica dell’operazione fu scelto il fidato Pakistan, al confine meridionale afgano. Qui la CIA e i servizi segreti militari pachistani costruirono campi di addestramento e centri di reclutamento. Usando una strategia già sperimentata altrove, l’intelligence Usa promosse e gestì direttamente in loco la produzione e il traffico di oppio per autofinanziare in nero l’operazione. Fu così che l’eroina afgana iniziò a invadere le strade d’America e d’Europa.

I mujaheddin afgani diventarono rapidamente una potente forza militare capace di minacciare la tenuta del governo di Taraki: a metà del ’79, le formazioni della guerriglia islamica riunite in un unico fronte di resistenza sostenuto da Iran, Pakistan e Cina, controllavano quasi l’80% del territorio.  Rifiutando le ripetute richieste afgane d’aiuto militare, l’URSS rimase sostanzialmente fuori dalla guerra civile, fin quando, a settembre, Taraki fu ucciso dal suo vice Hafizullah Amin, che salì al potere e subito fece quello che Taraki non aveva mai fatto: perseguitare l’opposizione politica islamica, finendo per rafforzarla e radicalizzarla.

Per il Cremlino, Amin era un uomo della CIA (e i suoi trascorsi negli Usa sembravano confermarlo): la sua scelta di uccidere Taraki, amato dagli afgani, era incomprensibile, la sua politica repressiva dannosa, le sue posizioni ideologiche ambigue, un affronto i suoi incontri con l’incaricato di affari USA a Kabul. Il 24 dicembre Breznev ordinò all’Armata Rossa di invadere il paese.

La guerra afgano-sovietica finì lasciandosi dietro morti e feriti su tutti i fronti, un territorio devastato e una guerra civile tra contrapposte fazioni di mujaheddin che si contenderanno per anni il controllo del paese.

La guerra in Afghanistan fu anche una delle cause che concorsero alla dissoluzione dell’Unione Sovietica. Il conflitto cambiò la percezione dei leader sovietici sull’uso della forza e sull’intervento militare in paesi stranieri per mantenere salda l’URSS; accelerò glasnost e perestrojka e stimolò la nascita di nuove forme di partecipazione politica critiche verso il partito comunista, a cominciare dai numerosi e attivi veterani (soprannominati Afgantsy); screditò l’immagine dell’Armata Rossa, rafforzando le spinte indipendentiste delle repubbliche sovietiche, le quali vedevano l’intervento in Afghanistan come una guerra russa combattuta da soldati non russi.

Le cifre ufficiali parlarono di 15.000 caduti sul fronte sovietico, ma ricerche più recenti hanno valutato almeno 26.000 morti, 50.000 feriti e 300 dispersi, oltre al fatto che quasi il 90% dei combattenti contrassero malattie a causa delle pessime condizioni climatiche e sanitarie.

Calcolare le perdite afgane è difficile, visto che i combattimenti non si arrestarono con il ritiro sovietico, ma proseguirono per molti anni: le stime vanno da 670.000 a 2 milioni di civili afgani morti, 1.200.000 disabili e circa 3 milioni di feriti, causati tanto dalle azioni sovietiche quanto dai razzi dei mujaheddin; i caduti delle forze governative si stimano intorno a 18.000 uomini, per i mujaheddin intorno a 75.000 – 90.000 morti.

Più di 5 milioni di afgani (un terzo della popolazione prebellica) trovarono rifugio nei campi profughi allestiti in Pakistan o in Iran, con ulteriori 2 milioni di profughi interni al paese; nel corso degli anni Ottanta gli afgani da soli costituivano la metà dei rifugiati presenti in tutto il mondo. Le condizioni di vita nei campi profughi mieterono ulteriori vittime.

Il paese era stato devastato dai combattimenti: Kandahar, seconda città del paese, scese da una popolazione di 200.000 abitanti a non più di 25.000 a causa delle campagne di bombardamento aereo dei sovietici; il sistema di irrigazione del paese, di vitale importanza dato il clima arido, uscì quasi completamente distrutto dal conflitto, rendendo incoltivabili molte zone. Tra i 10 e i 16 milioni di mine furono sparse per tutto il paese da entrambi i contendenti, continuando a provocare vittime anni dopo la fine dei combattimenti e impedendo il ritorno di molti rifugiati alle loro case.

Sulla pelle degli afgani, gli Stati Uniti avevano vinto la loro jihad contro l’URSS, senza immaginare che presto la jihad si sarebbe rivoltata contro di loro.

Silvia Boverini

Fonti:
D. Bartoccini, “Trent’anni fa la ritirata dell’Armata Rossa dall’Afghanistan”, https://it.insideover.com; A. Jacoviello, “La ritirata sovietica dall’ Afghanistan sarà ‘onorevole’”, https://ricerca.repubblica.it; M. Liberti, “L’invasione sovietica dell’Afghanistan – il Vietnam russo”, www.instoria.it; www.studiperlapace.it; E. Piovesana, “Afghanistan, 24 dicembre 1979”, http://it.peacereporter.net; https://milanoinmovimento.com; www.it.wikipedia.org

La dignità di Toscanini contro la violenza fascista

La sera del 14 maggio del 1931, Arturo Toscanini, allora cinquantacinquenne, al Teatro Comunale di Bologna, si rifiutò di eseguire gli inni “Giovinezza” e “Marcia Reale”. Sapeva cosa rischiava, ma com’era sua abitudine, non era disposto a negoziare, a fare baratti, tra la propria dignità e la prepotenza del regime fascista.

L’opposizione di Toscanini al regime fascista

Arturo Toscanini era giù una celebrità mondiale. E per Benito Mussolini, giunto quasi al nono anno dalla presa del potere (abbiamo ricordato in un post di Corsi e Ricorsi come, a seguito della marcia su Roma, il 31 ottobre del 1922 Mussolini avesse ottenuto dal re Vittorio Emanuele III l’incarico di Presidente del Consiglio), il non averlo schierato dalla propria parte era peggio che un’onta. Gli creava un non trascurabile imbarazzo politico, per la fama internazionale di Toscanini e il rispetto e l’ammirazione che ovunque lo accompagnavano. Inoltre, quel direttore costituiva uno spina nel fianco rispetto, sia all’immagine di un popolo unanimemente fascista, che la propaganda del regime cercava di proiettare in patria e all’estero, sia alla soggezione che intendeva incutere su tutti gli attuali e futuri dissidenti. Si potevano far assassinare, bastonare per strada, sbattere in carcere o al confino i politici antifascisti, per quanto fossero noti e apprezzati anche all’estero. Si potevano azzittire con l’intimidazione, l’olio di ricino e la violenza gli altri meno noti oppositori, ma perseguire legalmente Toscanini era una faccenda politicamente un po’ più complicata. Però, per Mussolini era anche insopportabile avere un tale oppositore esplicito alla fascistizzazione sia dello Stato che della società, che stava attuando, fin dal 3 dicembre del ’22, cioè dall’approvazione della legge che gli garantiva i pieni poteri.

L’opera di fascistizzazione dell’Italia

Dopo aver cancellato ogni briciola di libertà di stampa, di riunione, di associazione e di manifestazione del pensiero, dopo aver eliminato ogni rappresentanza sindacale al di fuori di quella fascista, dopo aver eliminato la separazione dei poteri, assoggettando il potere legislativo a quello del governo, avendo reso questo di fatto un braccio esecutivo del Partito Nazionale Fascista, l’unico partito esistente (si veda su questa rubrica il post Verso uno Stato etico, religioso e sociale), avendo sciolto e dichiarato illegali tutti gli altri, avendo istituito dei tribunali speciali e una polizia segreta per perseguitare gli oppositori (abbiamo ricordato queste involuzioni in diversi post, tra i quali quello su Le prime leggi fascistissime), Mussolini era riuscito a sradicare quasi ogni forma di dissenso. Poi, con un’opera minuziosa, aveva proseguito la soppressione dei minuscoli spazi di libertà residui. Il decreto legge del 24 dicembre del 1925 aveva disposto la rimozione dal servizio per tutti i funzionari statali (quindi anche gli insegnanti) i quali non dessero «per ragioni di manifestazioni compiute in ufficio o fuori di ufficio piena garanzia di un fedele adempimento dei propri doveri o si ponessero in condizioni di incompatibilità con le generali direttive politiche del governo». Inoltre, per cercare di azzittire anche quei dissidenti che, per non finire in galera o al confino, erano espatriati, con un’altra norma del periodo era stata inflitta la perdita della cittadinanza italiana per chi all’estero commetteva o concorreva a commettere fatti diretti a turbare l’ordine pubblico nel Regno, o volti alla diminuzione del buon nome o del prestigio dell’Italia, anche se il fatto non costituiva reato. Del resto il 26 maggio 1927 alla CameraMussolini aveva pronunciato un discorso destinato a fare (“tristemente”) epoca.

«In Italia non c’è posto per gli antifascisti; c’è posto solo per i fascisti, e per gli a-fascisti quando siano cittadini probi ed esemplari».

Da candidato per la lista dei fasci di combattimento ad oppositore del fascismo

Ma Toscanini non era un a-fascista. Era un anti-fascista dichiarato da più di 10 anni.

Figlio di un sarto garibaldino (era nato a Parma,  il 25 marzo 1867), Toscanini era un patriota di idee socialiste e, quando era già famoso su entrambe le sponde dell’Atlantico, si era schierato per l’intervento dell’Italia nella Prima Guerra Mondiale, quindi aveva inizialmente aderito al programma fascista (il programma di San Sepolcro). Sicché nel novembre 1919 si era candidato alle elezioni politiche, nel collegio di Milano, nella lista dei fasci di combattimento, non venendo eletto. Realizzando, poi, che il fascismo era in realtà una forza reazionaria di estrema destra, ne aveva preso le distanze. Ciononostante, nel 1920, aveva appoggiato l’impresa dannunziana di Fiume. Poi, però, si era andato dissociando anche dal nazionalismo, divenendo un forte oppositore di Mussolini ben prima della marcia su Roma.

L’antifascismo di Toscanini e la reazione del regime

Grazie all’enorme prestigio internazionale di cui Arturo Toscanini godeva, la sua aperta critica al regime non gli impedì di mantenere l’Orchestra del Teatro alla Scala sostanzialmente autonoma fino al  1929. Ma ciò non significava che egli fosse sceso a compromessi con i fascisti. Ad esempio si era rifiutato di dirigere la prima di “Turandot” del suo amico Giacomo Puccini, se Mussolini fosse stato presente in sala. Naturalmente gli sgherri del duce non erano rimasti inattivi di fronte a questi atteggiamenti di aperta ostilità. In primo luogo, tentarono di ridurre il suo prestigio, imbastendo una campagna di stampa intesa a delegittimarlo. Subì, così, attacchi sia sul piano artistico che su quello personale. Inoltre le autorità si misero a spiarlo e ad intercettargli a tutto spiano le telefonate e la corrispondenza, premurandosi anche di ritirare a lui e ai suoi famigliari, sia pure temporaneamente, il  passaporto.

L’aggressione del 14 maggio 1931

Il 14 maggio 1931, Toscanini doveva dirigere al Teatro Comunale di Bologna un concerto in commemorazione di Giuseppe Martucci.  Ma, come abbiamo anticipato, si era rifiutato da subito di eseguire come introduzione “Giovinezza” e “Marcia Reale”, in presenza di figure di spicco del regime come Leandro Arpinati e Costanzo Ciano, nonché di vari gerarchi. Vista la sua irremovibilità, era stata tolta ogni ufficialità al concerto, facendo venire meno la necessità di esecuzione di quegli inni. Ma quando Toscanini, giunse in macchina davanti al teatro con la figlia Wally, fu circondato e aggredito da un gruppo di fascisti. Violentemente schiaffeggiato sulla guancia sinistra e tempestato di pugni sul viso e sul collo dalle camicie nere, venne difeso dal suo autista. Costui riuscì a spingerlo in auto e ad all0ntanarsi. Ma le camicie nere si presentarono al suo hotel, urlandogli di andarsene.

Verso le 2 di notte, dopo aver inviato un telegramma di protesta a Mussolini, senza neppure farsi vistare da un medico, se ne andò a Milano. E da qui, Toscanini si recò a New York.

 

«Anche nella lotta contro i criminali fascisti lei ha mostrato di essere un uomo di grandissima dignità» (Albert Einstein).

Mentre il duce aggiungeva tasselli alla fascistizzazione dell’Italia a tutti i livelli, introducendo anche quell’obbligo del giuramento dei professori universitari, cui soltanto 12 opposero un rifiuto su 1.200 (lo abbiamo ricordato qui), Toscanini, continuava a dirigere dei concerti in Europa (ma non più in Italia, dove tornerà soltanto alla fine della Seconda guerra mondiale).  Nel 1933, però, quando il nazismo salì al potere, si rifiutò di avere rapporti anche con la Germania e respinse energicamente un invito personale di Adolf Hitler a quello che sarebbe stato il suo terzo Festival di Bayreuth. Nel 1938, dopo l’annessione dell’Austria da parte della Germania, abbandonò anche il Festival di Salisburgo. E, quando il governo italiano avviò una politica antisemita, con le leggi razziali del 1938, Toscanini fece infuriare Mussolini, avendole definite, in una conversazione telefonica intercettata, «roba da Medioevo». Nel ’39, anche a causa della crescente e dilagante persecuzione razziale, si stabilì negli Stati Uniti d’America. Qui continuò a usare la musica per sensibilizzare alla lotta contro il fascismo e il nazismo, offrendo sostegno economico e morale a coloro che cercavano rifugio in America, fossero ebrei o oppositori politici.

Quando, dopo l’attacco giapponese, del 7 dicembre 1941, a Pearl Harbour, gli USA entrarono in guerra, Toscanini decise che avrebbe diretto esclusivamente concerti di beneficenza, di raccolta fondi per lo sforzo bellico e la Croce Rossa e a favore delle forze armate statunitensi.

Il 13 settembre 1943, su Life fu pubblicato un suo lungo articolo, intitolato “Appello al Popolo d’America”. L’articolo prendeva spunto da una precedente lettera inviata al presidente Franklin Delano Roosevelt,

in cui dopo aver scritto «Le assicuro, caro presidente, che persevero nella causa della libertà, la cosa più bella cui aspira l’umanità», proseguiva chiedendo che gli Alleati permettessero «ai nostri volontari di combattere contro gli odiati nazisti sotto la bandiera italiana e in condizioni sostanzialmente simili a quelle dei combattenti della Francia Libera . Solo in questo modo noi italiani possiamo concepire la resa incondizionata delle nostre forze armate senza ledere il nostro senso dell’onore».

Albert Einstein gli scrisse:

«Anche nella lotta contro i criminali fascisti lei ha mostrato di essere un uomo di grandissima dignità. Sento pure la più profonda gratitudine per quanto avete fatto sperare con la vostra opera di promozione di valori, inestimabile, per la nuova Orchestra di Palestina di prossima costituzione. Il fatto che esista un simile uomo nel mio tempo compensa molte delle delusioni che si è continuamente costretti a subire».

 

Alberto Quattrocolo

Quando Churchill promise lacrime e sangue

Il 13 maggio del 1940, Winston Churchill, nel discorso di insediamento del governo di cui era Primo Ministro, si rivolse ai membri della Camera dei Comuni e al popolo britannico con queste parole:

«Non posso promettervi altro che sangue, fatica, lacrime e sudore. Chiedete, qual è la nostra politica? Rispondo che è condurre la guerra per mare, per terra e nel cielo con tutta la forza e tutto lo spirito battagliero che Dio può infonderci; condurre la guerra contro una tirannide mostruosa che non ha l’eguale nel tetro, miserabile catalogo del crimine umano. Questa è la nostra politica. Chiedete qual è il nostro scopo? Rispondo con una parola sola: vittoria, vittoria ad ogni costo, vittoria nonostante ogni terrore, vittoria, per quanto la strada possa essere lunga e dura. Senza vittoria infatti non c’è sopravvivenza».

Anthony Storr, lo psichiatra e saggista inglese anni dopo, parlando della personalità di Winston Churchill, disse:

«Se fosse stato un uomo di umore costante ed equilibrato non avrebbe mai potuto ispirare la nazione. Nel 1940, quando tutti i pronostici erano contro l’Inghilterra, un leader di giudizio ponderato avrebbe molto probabilmente concluso che eravamo finiti».

 

La voce inascoltata di Winston Churchill e il dilagare del nazismo in Europa

Da circa cinque anni, vanamente, Winston Churchill metteva in guardia i suoi colleghi politici, il popolo britannico e chiunque in Europa e negli USA fosse disposto ad ascoltarlo, sulla pericolosità di Adolf Hitler e sul rischio rappresentato da un’alleanza tra costui e Mussolini.

L’isolamento di Churchill e dei suoi allarmi sulle mire hitleriane prima della guerra

Aveva dato l’allarme quando l’Italia fascista nel 1935 aveva invaso l’Etiopia (all’invasione e alle stragi italiane in Etiopia abbiamo dedicato diversi post su Corsi e Ricorsi), senza ottenere comprensione sui pericoli che aveva segnalato. Aveva inutilmente sollecitato una reazione forte da parte anglofrancese quando, nel 1936, la Germania nazista aveva occupato e rimilitarizzato la Renania. Nuovamente, aveva pubblicamente disapprovato l’accordo, caldeggiato e negoziato dal Primo Ministro britannico Neville Chamberlain, del partito conservatore, firmato a Monaco, nel settembre del ’38, da Gran Bretagna, Italia, Francia e Germania, a spese della Cecoslovacchia, l’unica democrazia esistente nella parte orientale dell’Europa, che veniva lasciato sbranare dalle insaziabili fauci di Hitler [1].

Le proposte inascoltate del Primo Lord dell’Ammiragliato

Quando, il 1º settembre 1939, i tedeschi invasero la Polonia (dopo aver stipulato nel mese di agosto un accordo con i russi, il Patto Molotov-Ribbentrop, in virtù dei quali le truppe sovietiche occuparono anch’esse una parte della Polonia), Winston Churchill, come membro della Camera dei Comuni, sollecitò direttamente e indirettamente il Primo Ministro britannico Neville Chamberlain ad inviare un ultimatum alla Germania [2]. Su pressione della Camera, il Primo Ministro inviò l’ultimatum ad Adolf Hitler per chiedere la cessazione delle ostilità e poco prima invitò Churchill a entrare nel Gabinetto di guerra, di prossima costituzione. Il 3 settembre, scaduto l’ultimatum, la Gran Bretagna e la Francia si trovarono in guerra con la Germania. Quel giorno Chamberlain convocò Churchill nel suo ufficio e gli offrì di ricoprire (nuovamente) l’incarico di Primo Lord dell’Ammiragliato. Il giorno dopo Churchill suggerì caldamente  di attaccare immediatamente le armate tedesche che si trovavano sulla Linea Sigfrido (18.00 fortificazioni, lungo i confini occidentali della Germania, distribuite su una linea di 630 km, che partiva dalla regione di Aquisgrana ed arrivava al confine con la Svizzera), per alleggerire la pressione tedesca sui polacchi, ma non gli venne dato ascolto. I governi del Regno Unito e della Francia mantennero sostanzialmente inerti i loro eserciti, permettendo così alle truppe naziste di avanzare indisturbate in Europa orientale. Come correttamente temeva Churchill, questo atteggiamento anglofrancese alimentava la convinzione di Hitler che le potenze occidentali non volessero davvero combatterlo.

Winston Churchill: «Era come se tutta la mia vita fosse stata una lunga preparazione a quel momento»

Anche un altro, non meno importante, suggerimento di Churchill venne respinto: minare le acque territoriali della Norvegia per bloccare l’afflusso di materie prime, all’industria bellica tedesca. Ancora nel febbraio del 1940, il Gabinetto si oppose a questa proposta. E, come aveva previsto Churchill, Hitler se ne avvantaggiò. Comprendendo che la Gran Bretagna intendeva occupare la Norvegia per tagliare alla Germania quell’afflusso di materie prime, aveva predisposto l’invasione di quel Paese e le sue armate, in poche settimane, occuparono la Danimarca e la Norvegia.

Il fallimento norvegese sancì la totale disintegrazione della credibilità politica di Chamberlain. Nel dibattito alla Camera laburisti, liberali e conservatori esplicitarono la loro radicale disapprovazione sul modo con il quale veniva condotta la guerra [3].  Chamberlain, tuttavia, non presentò subito le dimissioni al re, Giorgio VI. Comunicò, invece, al sovrano che intendeva formare un governo di coalizione che comprendesse anche il Partito Laburista [4].

Quel pomeriggio, il leader laburista Clement Attlee fece sapere che avrebbe negato qualsiasi supporto a un governo guidato ancora da Neville Chamberlain. Costui, durante un incontro con Halifax e Churchill, disse che avrebbe raccomandato al re di nominare Churchill come Primo Ministro. Nelle prime ore del mattino del 10 maggio Giorgio VI convocò Churchill a Buckingham Palace.

«Suppongo che non sappiate perché vi ho fatto venire», disse il re sorridendo. «Maestà, non riesco davvero a immaginarlo», fu la risposta di Churchill. Il re rise e gli chiese di formare il nuovo governo. Churchill accettò e comunicò a Giorgio VI i nomi di coloro che intendeva inserire nel nuovo governo. Tra questi vi erano 4 laburisti, incluso il loro leader Clement Attlee [5]. In seguito confidò «Era come se tutta la mia vita fosse stata una lunga preparazione a quel momento».

Winston Churchill: «Vi prometto soltanto sangue, fatica, lacrime e sudore»

Nella primavera del 1940 la Gran Bretagna era ad un centimetro dal baratro. L’Europa, invece, stava già sprofondando dentro quasi tutta quanta. La civiltà stessa era pressoché finita. Dilagavano ad occidente, dopo aver divorato la parte orientale dell’Europa, le armate di Hitler, cui presto si sarebbero unite quelle di Mussolini, il quale aveva già deciso a quel tempo di cessare la neutralità dell’Italia e di entrare in guerra contro la Francia e l’Inghilterra, al fianco della Germania [6].

Quel pomeriggio del 13 maggio Churchill e gli altri membri del nuovo governo erano quanto mai angosciati ed erano tutti concordi sul fatto che non vi fosse motivo per edulcorare l’amarissima verità. Perciò, Churchill esordì nella prima riunione con i suoi ministri dicendo «Vi prometto soltanto sangue, fatica, lacrime e sudore». Queste parole, come si è scritto in apertura, furono pronunciate anche nel suo discorso alla Camera dei Comuni. Ma in questa occasione Churchill dichiarò anche:

«Mi assumo questo compito con ottimismo e speranza. Sono certo che la nostra causa non sarà lasciata cadere dagli uomini. In questo momento mi sento autorizzato a chiedere l’aiuto di tutti e vi dico: “Venite, dunque, procediamo insieme unendo le nostre forze”».

Quando tornò a Downing Street, il nuovo Primo Ministro seppe che le forze tedesche stavano penetrando sempre più profondamente in Olanda, Belgio e Francia.

Alberto Quattrocolo

 

[1] Scrivendo a Lord Moyne, poco prima che il patto di Monaco, che avrebbe smembrato la Cecoslovacchia a beneficio del Terzo Reich, Churchill aveva lucidamente analizzato e previsto quanto sarebbe accaduto di lì a poco:

«Sembra che ci troviamo di fronte alla penosa alternativa tra guerra e vergogna per avere trascurato la nostra difesa e gestito male il problema tedesco negli ultimi cinque anni. Ho la sensazione che sceglieremo la vergogna, per ritrovarci poco dopo in guerra in condizioni ancora più avverse di oggi».

Churchill ebbe l’amarissima consolazione di sentirsi dare ragione un giorno dopo l’altro dal succedersi dei fatti esattamente come egli li aveva previsti.

[2] Nel marzo del 1939, in violazione degli accordi di Monaco, Hitler aveva invaso la Cecoslovacchia (su questa rubrica abbiamo dedicato a quest’aggressione il post 1939, invasione tedesca della Cecoslovacchia), annettendola al Reich, e Churchill, all’epoca semplice deputato, aveva scritto al Primo Ministro inglese, Neville Chamberlain, che quegli accordi aveva caldeggiato e firmato, invitandolo a predisporre le difese antiaeree sul territorio britannico. Il 7 aprile, quando l’Italia fascista aveva invaso l’Albania (abbiamo ricordato questa occupazione nel post In Albania non portammo ordine, giustizia e pace), Churchill aveva colto un altro inquietante segnale sulla convergenza delle mire espansionistiche e sull’inestinguibile e narcisistica bramosia dei due dittatori fascisti. Così, pur essendo inesorabilmente anticomunista, sostenne la necessità di coinvolgere l’Unione Sovietica in un sistema di deterrenza internazionale antinazista.

[3] Churchill, invece, in nome della lealtà dovuta da un ministro al proprio governo, difese Chamberlain. Lo aveva avversato con asprezza prima e dopo che aveva firmato il patto di Monaco, aveva denunciato gli aspetti catastrofici del suo ostinato tentativo di accordarsi con il dittatore nazista, ma aveva sempre riconosciuto che Chamberlain era in buona fede e che davvero era convinto di riuscire, con la sua politica accomodante vero Hitler, a preservare la pace. E non intendeva colpirlo alle spalle.

[4] Nel caso in cui i laburisti avessero posto la condizione che egli lasciasse la carica, Chamberlain disse al re che avrebbe voluto che a subentrargli fosse Lord Halifax, non Churchill. Quando il 9 maggio la notizia sulle intenzioni di Chamberlain circolò Lord Salisbury, disse: «Nel corso della giornata bisogna nominare Winston Primo Ministro». Del resto Halifax fece sapere che non avrebbe potuto accettare l’incarico in quanto, quale membro della Camera dei Lord, non avrebbe potuto partecipare ai dibattiti alla Camera dei Comuni

[5] Come primo atto Winston Churchill scrisse a Chamberlain per ringraziarlo del suo supporto.

[6] Temendolo, ma non volendo sprecare la minima possibilità di poter dissuadere il dittatore italiano dal gettarsi nella mischia, Churchill, il pomeriggio del 13 maggio accolse il suggerimento di Halifax, di fare un appello a Mussolini. Dunque, scrisse al Capo del Governo italiano:

«È troppo tardi per impedire che scorra un fiume di sangue tra il popolo inglese e quello italiano? L’Inghilterra andrà avanti fino in fondo, anche da sola, come ci è già accaduto, e ho valide ragioni per ritenere che verremo aiutati in misura crescente dagli Stati Uniti, o meglio da tutta l’America».

Fonti

Martin Gilbert, Churchill, Arnoldo Mondadori Editori S.p.A., Milano, 1992

John Lukacs, Churchill. Visionario, Statista, Storico, Collana Storica, Corbaccio, Milano, 2003

Ernesto Ragionieri, Churchill, Sellerio, Palermo, 2002

L’indipendenza di Kate Hepburn

Avrebbe compiuto 104 anni, oggi, Katharine Hepburn. Era nata il 12 maggio del 1907 ad Hartford, nel Connecticut. Eppure ancora oggi, oltre cent’anni dopo la sua nascita, e a quasi sei anni dalla sua morte (avvenuta il 29 giugno del 2003), resta il simbolo di una donna eccezionalmente moderna, non soltanto al passo coi suoi tempi, ma in anticipo su questi. Combatté le battaglie in cui credeva, nella vita privata, in quella professionale e in ambito culturale, politico e sociale. E lasciò, da questo punto di vista, un’eredità che disperdere sarebbe assai più che un peccato.

La sua era una famiglia assai agiata e colta, appartenente all’élite. Un’élite anche intellettuale. Saldamente inserita nella cerchia progressista e liberale dell’East Coast. Il padre era infatti uno dei più famosi urologi americani. E la madre era stata una “suffragetta”, termine con il quale si indicavano le donne che lottavano per l’affermazione dei diritti delle donne, a partire dall’elementare diritto di voto. Entrambi i genitori sostennero Katharine Hepburn nelle sue aspirazioni artistiche e nello sviluppo della propria emancipazione e realizzazione di sé.  aveva cominciato a recitare già da piccola negli spettacoli “femministi” organizzati dalla madre.

Pur essendo una persona introspettiva, più portata a pensieri profondi e più maturo rispetto dei suoi coetanei, all’esterno mostrava soprattutto una forza e una determinazione, che la facevano apparire aspra o, addirittura, arrogante. Più probabilmente era sofferente e arrabbiata. La sua infanzia, infatti, pur caratterizzata dalla piacevolezza, dai vantaggi e dalle prerogative proprie dei privilegiati, fu funestata dalla tragica morte del fratello. Una morte la cui causa non fu mai chiarita (suicidio o incidente), che graverà per sempre sempre come un oscuro macigno sull’animo della Hepburn.

Dopo la laurea al Bryn Mawr, college frequentato dai rampolli dell’upper-class, a ventiquattro anni sposò un agente di cambio Ludlow Smith. Divorziarono dopo soli cinque anni. Anche sul piano professionale quello non fu un periodo felicissimo. Non riusciva a far emergere stabilmente il suo talento. E ne risentiva sia la sua carriera teatrale.

Poi arrivò l’occasione della sua prima prova cinematografica, Febbre di vivere (1932),  accanto ad un gigante come John Barrymore, e sotto la direzione di George Cukor. Come abbiamo visto nella nota 1 del post L’umanità di Spencer Tracy, il fascismo e l’America First si trattò della prima di diverse collaborazioni felicissime tra Cukor e la Hepburn. Fin da questa prima pellicola l’attrice ebbe modo di esprimere una personalità forte. Aspetto che risultò ancora più evidente in La falena d’argento (1933), diretto da Dorothy Azner, una delle rarissime registe dell’epoca. Interpretando un’aviatrice emancipata e ribelle, la Hepburn forniva il ritratto di una figura molto simile a se stessa oltre che alla madre. Il film non fu un successo commerciale, ma le recensioni sulla sua interpretazione  furono positive. Al suo terzo film, la Hepburn ottenne la consacrazione come una delle principali attrici hollywoodiane. La gloria del mattino (1933, di Lowell Sherman) le procurò il suo primo Oscar come migliore attrice. Anche in tal caso  il suo era un personaggio contro le regole, una persona diffidente nei confronti dei dettami non scritti della società e insofferente verso le rigidità dei ruoli tradizionali.

Per tutti gli anni Trenta Katharine Hepburn, incarnò, dunque, nelle sale cinematografiche il simbolo della ragazza moderna e libera. E libera era anche nella vita privata. Tanto da potersi permettere una relazione sentimentale, non condizionata da alcun vissuto di soggezione, con Howard Hughes. Costui, peraltro, l’aiutò quando cominciò ad avere problemi con la casa cinematografica per la quale lavorava, la RKO Pictures. Lasciata Hollywood, la Hepburn era tornata al teatro, ottenendo la parte della protagonista nella nuova commedia di Philip Barry, “Scandalo a Filadelfia”. Comprendendo come la parte fosse perfetta per lei, Hughes le comprò i diritti cinematografici. Portando sullo schermo il ruolo dell’ereditiera capricciosa protagonista di Scandalo a Filadelfia (1940), prodotto dalla MGM, interpretato con Cary Grant e James Stewart (che vinse l’Oscar come attore non protagonista) e diretto dall’amico George Cukor, il successo commerciale le arrise nuovamente.

Due anni più tardi avvenne l’incontro della sua vita, quello con Spencer Tracy. E rispetto alla loro storia d’amore si rimanda al post L’attualità e la verità di Indovina chi viene a cena, sempre pubblicato su Corsi e Ricorsi, limitandosi a ricordare che Tracy rappresenterà per venticinque anni non solo uno straordinario partner artistico di Katharine Hepburn, ma anche il grande amore della sua vita.

Se sono ancora moltissimi i ruoli memorabili portati ancora sullo schermo prima dei cinque anni di sospensione per assistere Tracy, gravemente malato, vale la pena porre in rilievo come spicchino in particolare quelli che la videro a confronto con partner maschili di splendida bravura. Da La Regina d’Africa (1951, di John Huston), al fianco di un grande Humphrey Bogart (premiato con l’Oscar), a Improvvisamente l’estate scorsa (1959, di J.L. Mankiewicz), accanto a Montgomery Clift.

Poi arrivò Indovina chi viene a cena (1967, di Stanley Kramer), con cui i due attori ritornarono davanti alla macchina da presa, nonostante le terribili condizioni di Tracy (che morì pochi giorno dopo la fine delle riprese). Il film procurò alla Hepburn il suo secondo Oscar.

Ma l’anno dopo ne arrivò un altro, il terzo, grazie a  (1969, di Anthony Harvey) di nuovo per un ruolo di donne forte e combattiva, Eleonora d’Aquitania, che interpretò duettando con un attore di classe inarrivabile come Peter O’Toole, nella parte di Enrico II.

Quattro Oscar vinti e dodici nomination in quasi cinquant’anni di carriera sono un record che nessun altra star ha mai registrato, ma un primato è costituito anche dalla validità e dalla varietà delle sue collaborazioni con attori come quelli citati e con altri di non minore forza scenica o levatura artistica: da Laurence Olivier a Burt Lancaster, da Yul Brynner a John Wayne, da Paul Scofield ad Henry Fonda. Accanto a Fonda e a sua figlia Jane Fonda, Kate Hepburn recitò infatti in Sul lago dorato (1981, di Mark Rydell), che fruttò tanto a lei quanto al suo partner cinematografico l’Oscar come migliore attore.

Ma la sua carriera non esprime che una parte, la più visibile, della natura anticonvenzionale di Katharine Hepburn. Anche il costante riserbo con cui ha tutelato la sua privacy denunciava la forza e l’indipendenza di questa donna, rispetto agli schemi comportamentali tipici delle celebrità. Al contrario di molte altre validissime attrici dell’altro ieri, di ieri e di oggi, la Hepburn non giocò mai la carta della propria bellezza, ma sempre quella della propria personalità. Se è già visto nei post sopra citati il suo impegno politico progressista e controcorrente (per esempio, antifascista e antinazista, antimaccartista, antirazzista), ma, soprattutto, cercò di infondere nelle donne il coraggio di avere fiducia in se stesse e di non lasciarsi condizionare dal ruolo imposto loro da una società testardamente maschilista. Del resto, affermò:

Se rispetti tutte le regole, ti perdi tutto il divertimento.

Alberto Quattrocolo