Il 14 luglio 2016 si consumò la strage di Nizza

Sono passati quattro anni da quando quel tristemente noto mezzo imboccò la promenade des Anglais, causando la morte di più di 80 persone, tra cui sei Italiani. Un uomo, un camion, una pedonale affollata. Tanto basta per incidersi a fuoco nei nostri ricordi. Verso le 22.30.

 

La tortura è reato anche in Italia dal 14 luglio 2017

In seguito alla condanna che il nostro paese aveva subito da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo nell’aprile 20151, il percorso parlamentare della legge sulla tortura vide una netta accelerazione: i giudici europei avevano invitato infatti l’Italia a “dotarsi di strumenti giuridici in grado di punire adeguatamente i responsabili di atti di tortura o altri maltrattamenti, impedendo loro di beneficiare di misure in contraddizione con la giurisprudenza della Corte”.

La strada verso il risultato che oggi ricordiamo si snodò per circa quattro anni, a partire da luglio 2013: il disegno di legge, firmato da Luigi Manconi del Partito Democratico, ha subito significative modifiche, tanto da indurre lo stesso senatore a non votarlo nel maggio dello scorso anno. Critiche alla versione definitiva furono mosse anche da parte di Amnesty International e Antigone. Il testo fu comunque sostenuto da PD e Alternativa popolare; ostacolato da Forza Italia, Lega Nord e Fratelli d’Italia; si astennero Movimento 5 Stelle, Sinistra Italiana, Scelta civica e Articolo 1 – Movimento democratici e progressisti.

Un testo controverso dunque, che apporta, tra le altre, le seguenti modifiche all’ordinamento vigente:

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  • Tortura: si punisce con la reclusione da 4 a 10 anni chi “con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa…, se il fatto è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona”.
  • Istigazione del pubblico ufficiale a commettere tortura: si applica la reclusione da 6 mesi a 3 anni al pubblico ufficiale o incaricato di un pubblico servizio “il quale, nell’esercizio delle funzioni o del servizio, istiga in modo concretamente idoneo altro pubblico ufficiale o altro incaricato di un pubblico servizio a commettere il delitto di tortura, se l’istigazione non è accolta ovvero se l’istigazione è accolta ma il delitto non è commesso“.
  • Prove illegittimamente acquisite: le dichiarazioni e le informazioni ottenute mediante il delitto di tortura sono inutilizzabili, salvo che contro le persone accusate di tale delitto e al solo fine di provarne la responsabilità penale.
  • Divieto di respingimento, espulsione o estradizione di una persona verso uno Stato, quando vi siano “fondati motivi di ritenere che essa rischi di essere sottoposta a tortura“; a tal fine si tiene conto anche dell’esistenza, in tale Stato, di violazioni sistematiche e gravi di diritti umani.
  • L’immunità diplomatica agli stranieri sottoposti a procedimento penale o condannati per il reato di tortura in altro Stato o da un tribunale internazionale è esclusa. Il soggetto è estradato verso lo Stato richiedente nel quale è in corso il procedimento penale o è stata pronunciata sentenza di condanna per il reato di tortura o, in caso di procedimento davanti a un tribunale internazionale, verso il tribunale stesso o lo Stato individuato ai sensi dello statuto del medesimo tribunale.

Alessio Gaggero

1 Nel caso Cestaro contro Italia, furono presi in considerazione i comportamenti tenuti dalle forze dell’ordine durante il G8 di Genova del 2001, all’interno della scuola Diaz. Il reato contestato è quello di tortura, non previsto dall’ordinamento penale allora vigente: si ritenne violato l’articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), secondo cui “Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”. L’Italia, presentando una legislazione inadeguata, secondo i giudici europei, fu condannata al risarcimento del danno morale per 45 mila euro.

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Il Manifesto della razza si presentò agli Italiani il 15 luglio 1938

Il 15 luglio ’38 apparve, su Il Giornale d’Italia, un documento che negli anni a seguire avrebbe segnato la vita di milioni di Italiani: Il Manifesto degli scienziati razzist1, più diffusamente conosciuto come Manifesto della razza. Su questa rubrica, Corsi e Ricorsi, abbiamo ricordato come da tale manifesto discendessero poi le leggi razziali (si veda il post 22/08/1938: censimento speciale nazionale degli ebrei in Italia).

Sulla natura razzista del regime e dell’ideologia fascista ci si è già soffermati in numerosi post dedicati ai crimini contro l’umanità commessi nell’occupazione dell’Etiopia e in Libia, nonché nel corso delle invasioni dell’Albania e della Slovenia. Del resto, come si leggerà più avanti, il Manifesto della razza afferma esplicitamente che “Tutta l’opera che finora ha fatto il Regime in Italia è in fondo del razzismo. Frequentissimo è stato sempre nei discorsi del Capo il richiamo ai concetti di razza.

Inutile dilungarsi in spiegazioni, il testo parla da sé.

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“LE RAZZE UMANE ESISTONO. L’esistenza delle razze umane non è già una astrazione del nostro spirito, ma corrisponde a una realtà fenomenica, materiale, percepibile con i nostri sensi. Questa realtà è rappresentata da masse, quasi sempre imponenti di milioni di uomini simili per caratteri fisici e psicologici che furono ereditati e che continuano a ereditarsi. Dire che esistono le razze umane non vuol dire a priori che esistono razze umane superiori o inferiori, ma soltanto che esistono razze umane differenti.

ESISTONO GRANDI RAZZE E PICCOLE RAZZE. Non bisogna soltanto ammettere che esistano i gruppi sistematici maggiori, che comunemente sono chiamati razze e che sono individualizzati solo da alcuni caratteri, ma bisogna anche ammettere che esistano gruppi sistematici minori (come per es. i nordici, i mediterranei, i dinarici, ecc.) individualizzati da un maggior numero di caratteri comuni. Questi gruppi costituiscono dal punto di vista biologico le vere razze, la esistenza delle quali è una verità evidente.

IL CONCETTO DI RAZZA È CONCETTO PURAMENTE BIOLOGICO. Esso quindi è basato su altre considerazioni che non i concetti di popolo e di nazione, fondati essenzialmente su considerazioni storiche, linguistiche, religiose. Però alla base delle differenze di popolo e di nazione stanno delle differenze di razza. Se gli Italiani sono differenti dai Francesi, dai Tedeschi, dai Turchi, dai Greci, ecc., non è solo perché essi hanno una lingua diversa e una storia diversa, ma perché la costituzione razziale di questi popoli è diversa. Sono state proporzioni diverse di razze differenti, che da tempo molto antico costituiscono i diversi popoli, sia che una razza abbia il dominio assoluto sulle altre, sia che tutte risultino fuse armonicamente, sia, infine, che persistano ancora inassimilate una alle altre le diverse razze.

LA POPOLAZIONE DELL’ITALIA ATTUALE È NELLA MAGGIORANZA DI ORIGINE ARIANA E LA SUA CIVILTÀ È ARIANA. Questa popolazione a civiltà ariana abita da diversi millenni la nostra penisola; ben poco è rimasto della civiltà delle genti preariane. L’origine degli Italiani attuali parte essenzialmente da elementi di quelle stesse razze che costituiscono e costituirono il tessuto perennemente vivo dell’Europa.

È UNA LEGGENDA L’APPORTO DI MASSE INGENTI DI UOMINI IN TEMPI STORICI. Dopo l’invasione dei Longobardi non ci sono stati in Italia altri notevoli movimenti di popoli capaci di influenzare la fisionomia razziale della nazione. Da ciò deriva che, mentre per altre nazioni europee la composizione razziale è variata notevolmente in tempi anche moderni, per l’Italia, nelle sue grandi linee, la composizione razziale di oggi è la stessa di quella che era mille anni fa: i quarantaquattro milioni d’Italiani di oggi rimontano quindi nella assoluta maggioranza a famiglie che abitano l’Italia da almeno un millennio.

ESISTE ORMAI UNA PURA “RAZZA ITALIANA”. Questo enunciato non è basato sulla confusione del concetto biologico di razza con il concetto storico–linguistico di popolo e di nazione ma sulla purissima parentela di sangue che unisce gli Italiani di oggi alle generazioni che da millenni popolano l’Italia. Questa antica purezza di sangue è il più grande titolo di nobiltà della Nazione italiana.

È TEMPO CHE GLI ITALIANI SI PROCLAMINO FRANCAMENTE RAZZISTI. Tutta l’opera che finora ha fatto il Regime in Italia è in fondo del razzismo. Frequentissimo è stato sempre nei discorsi del Capo il richiamo ai concetti di razza. La questione del razzismo in Italia deve essere trattata da un punto di vista puramente biologico, senza intenzioni filosofiche o religiose. La concezione del razzismo in Italia deve essere essenzialmente italiana e l’indirizzo ariano–nordico. Questo non vuole dire però introdurre in Italia le teorie del razzismo tedesco come sono o affermare che gli Italiani e gli Scandinavi sono la stessa cosa. Ma vuole soltanto additare agli Italiani un modello fisico e soprattutto psicologico di razza umana che per i suoi caratteri puramente europei si stacca completamente da tutte le razze extra–europee, questo vuol dire elevare l’italiano a un ideale di superiore coscienza di sé stesso e di maggiore responsabilità.

È NECESSARIO FARE UNA NETTA DISTINZIONE FRA I MEDITERRANEI D’EUROPA (OCCIDENTALI) DA UNA PARTE E GLI ORIENTALI E GLI AFRICANI DALL’ALTRA. Sono perciò da considerarsi pericolose le teorie che sostengono l’origine africana di alcuni popoli europei e comprendono in una comune razza mediterranea anche le popolazioni semitiche e camitiche stabilendo relazioni e simpatie ideologiche assolutamente inammissibili.

GLI EBREI NON APPARTENGONO ALLA RAZZA ITALIANA. Dei semiti che nel corso dei secoli sono approdati sul sacro suolo della nostra Patria nulla in generale è rimasto. Anche l’occupazione araba della Sicilia nulla ha lasciato all’infuori del ricordo di qualche nome; e del resto il processo di assimilazione fu sempre rapidissimo in Italia. Gli ebrei rappresentano l’unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia perché essa è costituita da elementi razziali non europei, diversi in modo assoluto dagli elementi che hanno dato origine agli Italiani.

I CARATTERI FISICI E PSICOLOGICI PURAMENTE EUROPEI DEGLI ITALIANI NON DEVONO ESSERE ALTERATI IN NESSUN MODO. L’unione è ammissibile solo nell’ambito delle razze europee, nel quale caso non si deve parlare di vero e proprio ibridismo, dato che queste razze appartengono a un ceppo comune e differiscono solo per alcuni caratteri, mentre sono uguali per moltissimi altri. Il carattere puramente europeo degli Italiani viene alterato dall’incrocio con qualsiasi razza extra–europea e portatrice di una civiltà diversa dalla millenaria civiltà degli ariani.”

A leggerla con la lente della psicologia sociale, salta immediatamente agl’occhi la sottolineatura dei diversi outgroup (le categorie sociali cui non si appartiene, contrapposte agli ingroup) che, sotto il profilo biologico, comporrebbero l’umanità: il concetto di ‘diverso da noi’ è spesso alla base di conflitti, tanto sociali quanto individuali, e, più è radicato (in questo caso, fino a livello cellulare), più è alto il muro che ci separa. Il discorso risulta molto lineare, se pensiamo che la dicotomia ingroup – outgroup si pone alla base di pregiudizio e discriminazione.

Ad ogni modo, le leggi razziali, di cui il Manifesto costituisce una delle pietre fondative, furono abrogate il 20 gennaio 1944, ad opera del Regno del Sud. Incalcolabili costi erano, tuttavia, già stati pagati. Su questa rubrica abbiamo ricordato alcuni episodi, tra i quali il rastrellamento del ghetto di Roma del 16 ottobre 1943.

Alessio Gaggero

1 È nota la testimonianza di Galeazzo Ciano, secondo cui Mussolini avrebbe redatto quasi esclusivamente di proprio pugno l’intero documento. Sembra infatti che, ad eccezione di Landra, allora assistente di antropologia a Roma, i firmatari non fossero stati consultati prima della pubblicazione. Il testo fu pubblicato originariamente in forma anonima su Il Giornale d’Italia con il titolo Il Fascismo e i problemi della razza, quindi ripubblicato sul numero uno della rivista La difesa della razza, il 5 agosto 1938, firmato da 10 scienziati

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Il 13 luglio del ’41 a Józefów 500 “uomini comuni” fucilarono 1500 bambini, donne e anziani.

Gli uomini del Battaglione 101 della Riserva di Polizia Tedesca erano uomini come altri. “Uomini comuni” li definì Christopher R. Browning che ne studiò le azioni. “Comuni”, lo erano nel senso che costoro erano operai, commercianti, artigiani, impiegati, da poco arruolati nella Polizia d’Ordine Tedesca, la Ordnungspolizei (Orpo). Non erano nazisti (il 75% di loro non era iscritto al Partito Nazionalsocialista), provenivano soprattutto da Amburgo, la città meno nazistificata della Germania. Gran parte di loro apparteneva ad una classe sociale che era antinazista per cultura politica e, comunque, erano di mezz’età, sicché avevano vissuto gli anni della formazione in epoca pre-nazista. E, soprattutto, non erano imbevuti di antisemitismo.

Il 13 luglio del 1942, all’alba, costoro entrarono nella cittadina polacca di Józefów radunarono con la forza i 1800 ebrei che vi vivevano, ne selezionarono circa 300 come abili al lavoro e uccisero a fucilate gli altri 1500, cioè per lo più bambini, donne e anziani. Li portarono in un bosco e in un solo giorno fucilarono millecinquecento esseri umani.

Vi furono costretti? No. Il loro comandante, il maggiore Wilhelm Trapp (soprannominato dai suoi poliziotti “papà Trapp” per il carattere affabile e l’atteggiamento sollecito e comprensivo), prima dell’inizio dell’azione, aveva proposto a chi non se la sentisse di svolgere il massacro di fare un passo avanti, assicurando che non vi sarebbe stata alcuna sanzione. Soltanto in 12, su 500 “uomini comuni”, si fecero avanti. E non subirono alcuna sanzione formale o informale. Così come non la subirono altri che dopo aver iniziato a sparare scoprirono di non poter continuare.

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Quella fu la prima fucilazione di ebrei compiuta dagli uomini del Battaglione 101, che si trovavano in Polonia da appena tre settimane e la gran parte dei quali erano stati da poco arruolati. Ma non fu la prima esecuzione realizzata dalla Polizia d’Ordine tedesca. Il primo massacro al quale l’Orpo prese parte avvenne circa un anno prima in Russia a Byalistok, dove, il 27 giugno, 2000 ebrei furono massacrati per le strade, nella piazza del mercato e nella sinagoga e il 12 luglio ne furono ammazzati altri 3000 (su questa rubrica, Corsi e Ricorsi, in altri due post, dedicati all’invasione nazista dell’Unione Sovietica, abbiamo parlato dell’esecuzione della politica del terrore pianificata da Adolf Hitler e dall’Alto comando tedesco, consistente nel massacrare i commissari politici, gli eventuali partigiani, depredare ogni tipo di risorsa, così provocando la morte per fame di milioni di persone, e nello sterminare gli ebrei: L’abominevole Operazione Barbarossa e Stalingrado: la ferocia, gli ordini, la morte, Hitler, Stalin… e «la dignità umana»).

Nonostante il gran numero di stragi commesse in Russia fin dall’inizio dell’invasione nazista,  cioè nella primavera del ‘41, occorre considerare che fino a metà marzo del 1942 erano state ammazzate il 20% del totale delle vittime dell’Olocausto. Nell’arco di 11 mesi, cioè a metà febbraio del ’43, il totale delle vittime complessive dell’Olocausto già uccise era salito all’80%. Lo sterminio si sviluppò, quindi, come una guerra-lampo efficacissima, parallelamente al peggiorare della situazione sul fronte russo, e si svolse prevalentemente in Polonia, interessando non soltanto città come Varsavia (si vedi il post Quelli del ghetto di Varsavia) e Łódź (abbiamo ricordato la liquidazione del ghetto di questa città nel post Il ghetto di Łódź viene liquidato), ma anche cittadine e paesi in cui gli ebrei in media superavano il 30% e potevano arrivare a costituire l’80 o il 90% della popolazione.

Ma tale carneficina non si effettuò solo nei campi di sterminio. Il 25 % delle vittime fu ucciso mediante fucilazione da plotoni d’esecuzione, come il Battaglione 101. Non da pochi individui addetti ai lager, ma da un’impressionante quantità di persone, che puntarono il fucile, mirarono e fecero fuoco contro altre, inermi, persone.

Solo il Battaglione 101 della Riserva di Polizia tedesca fucilò quasi 40.000 esseri umani in poco più di un anno (in prevalenza togliendo la vita a donne, bambini e anziani) e partecipò alla deportazione a Treblinka e allo sterminio di più di 45.000 individui.

Considerando i fatti esaminati e le parole che questi assassini dissero a guerra finita, spesso per auto-assolversi, Browning scrive:

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«Temo di vivere in un mondo in cui il conflitto e il razzismo sono onnipresenti, in cui i governi dispongono di poteri sempre più vasti di mobilitazione e di legittimazione, in cui il senso di responsabilità personale è sempre più attenuato dalla specializzazione e dalla burocrazia, e in cui il gruppo dei pari esercita notevoli pressioni sul comportamento e stabilisce le norme morali. Purtroppo, in un mondo come questo, i governi attuali con propositi di sterminio avranno buone possibilità di riuscita se tenteranno di indurre gli “uomini comuni” a diventare i loro “volenterosi carnefici”».

Non erano, per la maggior parte, nazisti né erano antisemiti, ma la distinzione, la polarizzazione, “noi-loro” gli consentì sia di premere il grilletto e uccidere coloro che, soprattutto in quanto bambini, donne o anziani o perché infermi, erano considerati non selezionabili per il lavoro, sia di scortare ai lager gli altri. Furono “capaci” di sospendere l’empatia, di non provare alcuna identificazione con le vittime grazie alla disumanizzazione dell’altro e ad altri meccanismi di neutralizzazione della responsabilità.

Nella prefazione del suo libro, Browning osserva:

«In ultima analisi, l’Olocausto fu possibile perché singoli esseri umani uccisero altri esseri umani in gran numero e per un lungo periodo di tempo».

Alberto Quattrocolo

Fonti: Browning C. R., Uomini comuni. Polizia tedesca e “soluzione finale” in Polonia. 1999, Einaudi, Torino.

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La RAF bombarda Torino nella notte tra il 12 e il 13 luglio 1943

La notte tra il 12 e il 13 luglio del 1943 ha luogo uno dei più violenti bombardamenti su Torino da parte della RAF (Royal Air Force, l’aviazione militare inglese). I morti sono 792. Le oltre 700 tonnellate di bombe sganciate sulla città provocano anche 914 feriti, complice, probabilmente, il ritardo nell’azionamento dell’allarme antiaereo: cadono prima i diversi tipi di ordigni e solo successivamente si sente la sirena.

Gli Inglesi non utilizzano un unico tipo di arma: si contano bombe dirompenti, al bosforo, spezzoni incendiari, bottiglie e bidoni di benzina al fosforo. La tattica prevede di intralciare il lavoro dei mezzi antincendio, che non dovrebbero riuscire a circolare durante l’attacco, favorendo il propagarsi incontrollato delle fiamme e moltiplicando, così, i danni1. I Vigili del fuoco di Torino, nonostante la caserma di Corso Regina Margherita sia colpita a sua volta, continuano il loro lavoro per oltre 50 ore, a volte riuscendo ad estrarre dalle macerie solo corpi senza vita, a volte di madri che abbracciano i loro bambini. Per alcuni di questi uomini arriveranno, in seguito, elogi ufficiali, ma nel durante importa solo quante vite si riescono a mettere in salvo.

Perché tanti, nel cercare un rifugio, si affidano a strutture che non possono proteggerli, come vecchie cantine: a volte la bomba colpisce edifici limitrofi, ma gli effetti collaterali causano comunque il crollo della casa soprastante. A quel punto si possono solo aspettare i soccorsi, sperando che arrivino in tempo. Altri, invece, hanno più fortuna: in quel periodo, nella Borgata Parella c’è una “fognatura bianca”, non ancora in funzione, né collegata con le costruzioni del luogo. Appena ci si rende conto del pericolo imminente, si alza il tombino prescelto e ci si cala nei meandri del sottosuolo, dove il terribile frastuono arriva attutito.

I bombardamenti si sentono e si vedono a terra (e sotto), ma anche in cielo: chi, magari ancora bambino, si attarda un attimo ad alzare lo sguardo, vede quello spettacolo terrificante che tanto gli ricorderà, in seguito, quello dei fuochi d’artificio, con bagliori che accecano e suoni che scuotono i timpani.

Nulla si salva dalle bombe. Strade, fabbriche, chiese; centro e periferia; persino il Cimitero Generale non ne esce illeso. E la città, nel suo insieme, si modifica: le produzioni sono progressivamente decentrate, così come la vita dei cittadini, che si rendono protagonisti del primo grande sgombero di Torino. Su 600.000 abitanti, 465.000 si sposteranno entro agosto. È così posta una delle importanti pietre che fonderanno il pendolarismo cittadino.

Alessio Gaggero

1 C’è anche chi sostiene che l’obiettivo non fosse circoscritto ad eliminare luoghi di rilevanza militare o industriale, ma più indirizzato a terrorizzare la popolazione. Per questo motivo, stante il largo utilizzo di armi incendiarie, tali attacchi furono da alcuni definiti ‘terroristici’.

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Giorgio Ambrosoli fu ucciso l’11 luglio 1979 per ordine di Michele Sindona

L’avvocato Giorgio Ambrosoli, commissario liquidatore della Banca Privata Finanziaria di Michele Sindona, fu ucciso la sera dell’11 luglio 1979 da un killer ingaggiato dallo stesso Sindona. Aveva 45 anni. Si era sposato quindici anni prima, con Anna Lorenza Gorla. Avevano tre figli, di undici, dieci e otto anni.

Era stato nominato liquidatore della banca di Sindona, dall’allora Governatore della Banca d’Italia Guido Carli, nel settembre del ’74 e aveva scoperto un verminaio.

Scoprì, infatti, che, oltre a profilarsi un crac multimiliardario e ad esservi gravi irregolarità e falsi nella contabilità, nella banca si nascondeva un sistema di scatole cinesi di società controllate.

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Dalla parte di Sindona e del suo piano di salvataggio della banca, a carico dei contribuenti, e contro l’attività di liquidazione e le indagini di Ambrosoli, si schierarono una parte della Democrazia Cristiana, incluso e in primis Giulio Andreotti, pezzi della finanza internazionale, Licio Gelli e la loggia P2, di cui faceva parte lo stesso Sindona: la sua tessera era la numero 0501 (a proposito della P2 si rinvia al post Il 23 settembre 1981 è istituita la Commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2, pubblicato su questa rubrica, Corsi e Ricorsi).

Benché sottoposto a pressioni terribili (tentativi di corruzione e minacce incluse, tra le quali le telefonate anonime, che si scoprì erano fatte dal massone Giacomo Vitale, cognato del boss mafioso Stefano Bontate), non trovò che l’appoggio di Ugo La Malfa, a livello politico, e del maresciallo della Guardia di Finanza, Silvio Novembre, che gli faceva, volontariamente, da guardia del corpo. Infatti, sebbene fosse stato oggetto di minacce di morte, ad Ambrosoli non era stata accordata alcuna protezione da parte dello Stato.

Nel suo lavoro poté contare, sì, sul sostegno di Paolo Baffi, divenuto Governatore della Banca d’Italia, e di Mario Sarcinelli, capo dell’Ufficio Vigilanza (che già aveva respinto il progetto di salvataggio della banca di Sindona elaborato dal senatore Gaetano Stammati, che era affiliato alla loggia P2 e dall’onorevole Franco Evangelisti), ma solo fino al marzo del 1979, allorché entrambi vennero accusati di favoreggiamento personale e interesse privato in atti d’ufficio, nell’ambito di un’indagine sul mancato esercizio della vigilanza sugli istituti di credito in relazione al caso Roberto Calvi-Banco Ambrosiano. Entrambi furono poi integralmente prosciolti in istruttoria nel 1981. Ma, nel frattempo, Baffi si era dimesso il 16 agosto 1979 (gli subentrò Carlo Azeglio Ciampi) e Sarcinelli era stato arrestato.

Il 25 febbraio del ’75 Ambrosoli aveva scritto una lettera alla moglie, che tutti chiamavano Annalori:

«È indubbio che, in ogni caso, pagherò a molto caro prezzo l’incarico: lo sapevo prima di accettarlo e quindi non mi lamento affatto perché per me è stata un’occasione unica di fare qualcosa per il Paese».

All’incirca quattro anni e quattro mesi dopo, la sera prima di firmare una dichiarazione formale relativa alla chiusura del suo lavoro di liquidatore, mentre si trovava davanti al portone di casa, il killer italo-americano William Joseph Aricò, pagato da Sindona, lo chiamò per nome, si scusò e gli sparò 4 colpi.

Sindona fu condannato dal tribunale federale di Manhattan a 25 anni di carcere, per 65 capi d’accusa, tra cui false dichiarazioni bancarie, appropriazione indebita di fondi bancari, frode e spergiuro. Il governo italiano, però, ottenne dagli USA l’estradizione perché Sindona potesse essere partecipare al processo per l’assassinio di Giorgio Ambrosoli.

Il 16 marzo 1985 Sindona venne condannato a 12 anni di prigione per frode e il 18 marzo dell’anno dopo fu condannato all’ergastolo quale mandante dell’omicidio Ambrosoli. Due giorni dopo ingerì  del caffè al cianuro di potassio nel supercarcere di Voghera e in conseguenza di questo avvelenamento morì il 20 marzo 1986. La sua morte fu archiviata come suicidio.

Alberto Quattrocolo

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Il 10 luglio del ’76 il giudice Occorsio fu ucciso da un terrorista neofascista di Ordine Nuovo

Venne ucciso da terroristi di estrema destra, il 10 luglio del 1976, il giudice Vittorio Occorsio. Aveva 47 anni.

Nell’aprile del ’76 era stato il primo magistrato a occuparsi della loggia massonica segreta denominata loggia P2 e anche il primo ad indagare sui legami tra terrorismo neofascista, massoneria e apparati deviati del SIFAR (Servizio informazioni forze armate).

Il magistrato – che quel sabato era privo di scorta, nonostante fosse già stato bersaglio di minacce da parte dell’estremismo nero – fu ucciso dai colpi di mitra sparatigli, a poche decine di metri da casa sua, mentre si apprestava a recarsi in ufficio a bordo della sua auto, da Pierluigi Concutelli, uno dei capi dell’organizzazione neofascista, Ordine Nuovo. Abbiamo parlato su questa rubrica, Corsi e Ricorsi, delle responsabilità di Ordine Nuovo nell’attentato di Peteano, che, il 13 maggio del ’72, uccise 3 carabinieri, e nella strage di piazza della Loggia del 28 maggio del ’74, che tolse la vita a 8 persone e provocò 100 feriti tra le persone riunite per chiedere verità sulla strage di piazza Fontana del 12 dicembre del 1969.

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Costui e il suo complice  Gianfranco Ferro furono condannati. Non sono mai stati scoperti, però, i mandanti del suo assassinio.

Nel 1967 come sostituto procuratore della Repubblica, Occorsio si occupò del processo contro i giornalisti Eugenio Scalfari e Lino Jannuzzi, che, con uno scoop su L’Espresso, avevano rivelato le trame del tentativo di colpo di Stato del luglio 1964. Si trattava del piano Solo, un tentativo di golpe, concepito nel 1964 dal Comandante dell’Arma dei Carabinieri, Giovanni de Lorenzo, mentre era in corso la crisi del primo Governo Moro (il primo governo di centro-sinistra nella storia della Repubblica, che vedeva al governo una coalizione con a capo la DC e che includeva anche il PSI). Le finalità del Piano Solo erano quelle di occupare i centri di potere dello Stato e imprigionare gli oppositori politici che,  secondo le valutazioni del SIFAR, il disciolto servizio di intelligence delle forze armate italiane, erano da considerarsi «sovversivi».

Il processo contro Scalfari e Jannuzzi, accusati di diffamazione da De Lorenzo, ebbe tra le altre peculiarità quella della requisitoria svolta da Occorsio, il quale chiese l’assoluzione sostenendo che i due giornalisti avevano esercitato il loro diritto di cronaca e di critica. In primo grado, però, la corte condannò Scalfari e Jannuzzi a 15 e a 14 mesi per diffamazione aggravata, ma poi la vicenda si concluse con la remissione della querela da parte di De Lorenzo.

Costui, che nel frattempo era diventato capo di stato maggiore dell’Esercito, a seguito dell’ inchiesta fu immediatamente rimosso. E in seguito fece carriera come politico di destra, dapprima nel Partito Monarchico e poi nel MSI.

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Occorsio, alla procura di Roma, dovette poi occuparsi anche della strage di Piazza Fontana, avvenuta il 12 dicembre 1969 a Milano ed eseguita dalla cellula veneta di Ordine nuovo.

In un primo tempo, Occorsio sembrò considerare seriamente la possibilità che gli autori fossero gli allora sospettati anarchici e Pietro Valpreda. Infatti, le informazioni fornite e fatte pervenire dai servizi segreti portavano in quella direzione. Occorsio, tuttavia si ricredette e lo dichiarò il 2 aprile 1972 in una intervista, affermando che quell’istruttoria «era tutta sbagliata».

Infatti, stavano emergendo elementi che portavano a ravvisare che la pista sa seguire fosse nera e non rossa. E lo stesso Occorsio, nel 1971, aveva avviato un’indagine su Ordine nuovo, accusato di ricostituzione del partito fascista.

Il tribunale accolse le richieste del Pubblico ministero Occorsio e anche il governo, riconobbe la minaccia costituita da Ordine Nuovo. Infatti, per volontà del ministro dell’Interno, il democristiano Paolo Emilio Taviani, impose lo scioglimento di Ordine nuovo.

Poi, in seguito alla strage del treno Italicus del 4 agosto 1974 (l’abbiamo ricordata qui), nuovamente commessa da terroristi neri, Occorsio mise in guardia rispetto al fatto che ad Arezzo l’estremismo eversivo di destra e il MSI erano parenti stretti. Quindi, passò ad indagare i legami tra Ordine Nuovo, esponenti della massoneria deviata e la criminalità. In particolare, inoltrando richieste ad hoc a tutte le questure, Occorsio stava anche cercando di costruire una mappatura del movimento massonico italiano.

Che le sue indagine non fossero campate in aria fu dimostrato dal fatto che nel covo del suo assassino, Concutelli, arrestato il 13 febbraio 1977, furono trovati gli 11 milioni di lire che costituivano il riscatto pagato al boss della malavita milanese Renato Vallanzasca per la liberazione di Emanuela Trapani.

Non soltanto le indagini che Occorsio svolse furono sottoposte a moltissimi ostacoli, anche coloro che indagarono sul suo omicidio dovettero incontrare difficoltà e depistaggi. Soprattutto in ordine alle richieste di informazioni riguardanti la loggia P2.

Concutelli fu, sì, condannato all’ergastolo con sentenza definitiva nel 1980, ma i giudici non credettero alla sua dichiarazione di essere oltre che esecutore anche il mandante dell’omicidio. Per acclarare chi vi fosse dietro l’assassinio di Occorsio fu istruito il processo Occorsio bis, che si concluse solo nel 1990, ma senza che i mandanti fossero accertati.

Occorsio si era occupato anche delle contorte trame del golpe Borghese, uno strano tentativo di colpo di Stato verificatosi l’8 dicembre del 1970 (ne abbiamo parlato nel post Quello strano colpo di Stato della notte dell’Immacolata), che forse riuscì, proprio nel suo non riuscire, essendo inserito in un quadro più ampio. In tal senso si era espresso Occorsio rispetto ad un diverso fenomeno, quello dei sequestri di persona, che secondo il magistrato andavano collocati in una più vasta prospettiva, quella della strategia della tensione tesa a dare luogo una svolta verso sistemi di governo meno pluralisti e meno democratici.

«Sono certo che dietro i sequestri ci siano delle organizzazioni massoniche deviate e naturalmente esponenti del mondo politico», disse all’amico e collega Ferdinando Imposimato. «Tutto questo rientra nella strategia della tensione: seminare il terrore tra gli italiani per spingerli a chiedere un governo forte, capace di ristabilire l’ordine

Alberto Quattrocolo

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Con lo sbarco in Sicilia, dopo 21 anni di regime, subisce un’accelerazione la fine del Fascismo

Lo sbarco in Sicilia da parte delle forze anglo-americane iniziò il 9 luglio 1943. La liberazione dell’isola dalle truppe naziste e fasciste si concluse circa il 17 agosto 1943, cioè quando il Governo Mussolini, dopo ventun’anni di regime fascista era caduto (abbiamo ricordato su questa rubrica, Corsi e Ricorsi, in questo post, l’avvio del primo governo presieduto da Mussolini il 31 ottobre del 1922, 8 giorni dopo la marcia su Roma).

Il duce fu sfiduciato, infatti, dal Gran Consiglio del Fascismo (abbiamo ricordato su questo post la sua istituzione) , nella seduta che si chiuse alle 2,40 del mattino del 25 luglio 1943 (l’abbiamo ricordata qui[1]. E il Re Vittorio Emanuele III, nel pomeriggio di quello stesso giorno, in primo luogo, lo sostituì con il Maresciallo Badoglio, quale presidente del Consiglio, facendolo immediatamente dopo arrestare, con la motivazione di aver portato il popolo italiano nel Secondo Conflitto Mondiale, alleandosi con la Germania di Hitler (si vedano i post Solo alcune migliaia di morti e 20 giugno 1940 l’attacco infame e fallimentare dell’Italia alla Francia), e di essere responsabile della disastrosa spedizione italiana (l’abbiamo ricordata in questo post) nella campagna di Russia.

Con lo sbarco in Sicilia, quindi, gli anglo-americani, invadendo la prima porzione dell’Europa, occupata dalle armate tedesche e italiane, contribuirono sia alla caduta di Mussolini, appunto dopo 21 anni di governo fascista, sia alla successiva firma dell’armistizio di Cassibile, nei pressi di Siracusa, il 3 settembre (annunciato cinque giorni dopo, l’8 settembre), con cui cessarono le ostilità tra l’Italia e gli Alleati (USAImpero Britannico, Francia, URSS, Cina).

In realtà, gli Alleati avevano già occupato, alcune settimane prima, l’11 giugno, dopo averla pesantemente bombardata, una piccola porzione del suolo italiano: l’isola di Pantelleria (con l’operazione Corkscrew).

L’operazione Husky, cioè lo sbarco in Sicilia da parte della 7ª Armata statunitense (comandata dal generale Patton) e dell’8ª Armata britannica (comandata da Montgomery), che avvenne nelle prime ore del 10 luglio 1943, preceduta da un fitto bombardamento navale e dal lancio di paracadutisti inglesi e americani, era il primo passo di un più ampio disegno delle forze anglo-americane, orientate a sconfiggere le forze tedesche e italiane presenti in Italia e poi a concentrare tutti gli sforzi contro la Germania nazista.

Non fu esattamente questa, poi, l’evoluzione del percorso immaginato. Ma, di fatto, come sopra accennato, quello sbarco diede un contributo determinante al crollo della credibilità del regime. Quest’ultima, certamente, era già assai indebolita dalla disastrosa conduzione della guerra sui diversi fronti, dall’Africa alla Russia, passando per i Balcani, dai bombardamenti alleati che riducevano in macerie fabbriche case. Però, oltre alle sconfitte militari vi era anche un crescente malcontento delle masse, che, già manifestatosi nell’estate del ’42, con scioperi isolati scoppiati a Torino e a Milano, andava assumendo un risvolto politico che si palesò nella larga adesione agli scioperi del ’43  [2]. Anche le vecchie classi dirigenti e alcuni degli alti dignitari fascisti avevano perso fiducia se non nel regime in sé, nel suo duce. Soprattutto, intendevano far uscire l’Italia dalla guerra prima che fosse trascinata con la Germania in una catastrofe irrimediabile. Anche l’Africa era ormai perduta, e per quanto il il 5 maggio Mussolini avesse dichiarato ai romani dal balcone di palazzo Venezia che le truppe italiane sarebbero tornate in Africa per riprendere a fondare un impero («torneremo!), ben pochi erano disposti ancora a credergli. Né, gli credevano un granché quando proclamava che uno sbarco alleato sul territorio italiano era cosa impossibile.

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Due settimane dopo la caduta di Pantelleria, il 24 giugno (un mese prima di essere destituito e arrestato), davanti al direttorio del Partito Nazionale Fascista (PNF), Benito Mussolini aveva modificato un po’ la sua retorica, pronunciando il discorso del “bagnasciuga”:

«Il popolo italiano è ormai convinto che è questione di vita o di morte. Bisogna che non appena il nemico tenterà di sbarcare, sia congelato su quella linea che i marinai chiamano del “bagnasciuga”, la linea della sabbia, dove l’acqua finisce e comincia la terra. Se per avventura dovessero penetrare, bisogna che le forze di riserva, che ci sono, si precipitino sugli sbarcati, annientandoli sino all’ultimo uomo. Di modo che si possa dire che essi hanno occupato un lembo della nostra patria, ma l’hanno occupato rimanendo per sempre in una posizione orizzontale, non verticale».

Gli inglesi, gli statunitensi e i canadesi, che sbarcarono fra Pachino e Siracusa e tra Licata e Gela, però, non restarono in posizione orizzontale sul “bagnasciuga”, cioè sulla battigia. Lo sbarco in Sicilia, infatti, riuscì e fu la prima grande operazione alleata nel nostro Paese, anzi, in effetti, una delle più grandi operazioni anfibie della Seconda Guerra Mondiale. E costituì l’inizio della campagna d’Italia, vale a dire della sua liberazione.

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La campagna d’Italia, però, che non fu così fulminea come in molti avevano creduto e sperato: non soltanto gli Alleati non riuscirono ad impedire la completa ritirata delle truppe italo-tedesche – che in buona parte ripararono in Calabria, dove l’8ª Armata giunse poi solo il 3 settembre -, ma non poterono impedire ai tedeschi di attestarsi su posizioni difensive e di tenersi pronti ad eseguire i piani concepiti in vista di un sempre più probabile voltafaccia del loro alleato italiano.

Il che avvenne l’8 settembre, quando il nuovo Presidente del Consiglio dei ministriPietro Badoglio, lesse il comunicato con cui informava il popolo italiano del sopra citato armistizio, firmato 5 giorni prima, annunciando, quindi, la cessazione delle ostilità tra il Regno d’Italia e gli Alleati.

Quello stesso giorno la 5ª Armata statunitense sbarcò a Salerno, ma, più o meno contemporaneamente, venne posta in esecuzione dai tedeschi l’Operazione Achse. Con tale operazione le forze armate tedesche provvidero a neutralizzare le forze armate italiane – rimaste disorientate, essendo lasciate prive di ordini, sopratutto rispetto a come comportarsi con gli ex alleati tedeschi, e del tutto scoordinate -, che erano schierate nei vari teatri bellici del Mediterraneo, e occuparono militarmente la parte della Penisola non ancora controllata dagli angloamericani. Catturarono, quindi, centinaia di migliaia di soldati italiani, in buona parte deportandoli in Germania come lavoratori coatti, presero il controllo diretto dell’Italia centro-settentrionale e dei territori del Sud della Francia, dei Balcani e dell’Egeo, fino a quel momento occupati dalle forze italiane.

Prima che tutta l’Italia venisse liberata dai nazifascisti, quindi, passarono ancora 21 orribili mesi dallo sbarco in Sicilia. E, se nell’arco di poche settimane dallo sbarco in Sicilia del 10 luglio la situazione politica italiana mutò in maniera significativa, chiudendosi una fase durata un ventennio, è vero che, purtroppo, il fascismo non tramontò definitivamente.

Già il 12 settembre, per ordine di Hitler, dei paracadutisti tedeschi liberarono Mussolini dalla sua “prigione” sul Gran Sasso, dove era stato trasferito dopo essere stato tenuto agli arresti prima a Ponza poi alla Maddalena. E il Führer lo accolse alla Tana del Lupo (Wolfsschanze), a Rastenburg, uno dei suoi quartieri generali, dove i due si accordarono per riportare il fascismo al potere nell’Italia occupata dai tedeschi. E, infatti, Mussolini, il 23 settembre 1943, costituì la Repubblica Sociale Italiana, quella RSI che divenne nota come Repubblica di Salò (si veda il post Il 18 settembre del ’43 Mussolini annuncia da Radio Monaco la costituzione della RSI). Così, l’incubo per coloro che vivevano nei territori sottoposti a tale dittatura continuò, anzi, peggiorò, fino alla fine di aprile del ’45.

I costi umani dell’occupazione della Sicilia tra i militari delle forze in campo furono i seguenti:

  • quasi 117.000 soldati italiani catturati, 4.678 uccisi,  36.072 dispersi (una parte, verosimilmente i più, furono uccisi senza che venisse registrato il loro decesso, i restanti disertarono) e 32.500 feriti
  • circa 30.000 perdite tra le truppe tedesche, di cui 4.325 morti, 4.583 dispersi, 13.500 feriti e 5.523 prigionieri
  • 12.800 perdite per gli inglesi, di cui 2.721 morti
  • 8.800 perdite per gli americani (i morti furono 2.237 morti), cui si aggiunsero 13.000 ricoverati per malattia, in prevalenza a causa della malaria.

Alberto Quattrocolo

[1] Il Gran Consiglio del Fascismo, fondato nel 1922, come massimo organo del Partito Nazionale Fascista assurse al rango di organo costituzionale del Regno con la legge 9 dicembre 1928, n. 2693, in cui era definito «organo supremo, che coordina e integra tutte le attività del regime sorto dalla rivoluzione dell’ottobre 1922» e le cui sedute si tenevano a porte chiuse generalmente a palazzo Venezia, dal giugno ’23 sede della Presidenza del Consiglio dei ministri.

[2] Dopo la capitolazione tedesca di Stalingrado (che abbiamo ricordato nel post Stalingrado: la ferocia, gli ordini, la morte, Hitler, Stalin… e «la dignità umana») gli operai della Fiat, il 15 marzo, si misero in sciopero e trascinarono con sé più di 300.000 lavoratori delle industrie torinesi e milanesi – sebbene lo sciopero fosse vietato fin dal 1925 e fosse inserito tra i reati nel codice penale approvato nel ’31.

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A Pesaro, l’8 luglio 2017, si svolgeva la manifestazione dei free-vax.

Alle 17.30 dell’8 luglio 2017 iniziò a Pesaro la manifestazione nazionale per la libertà di decidere se fare vaccinare o meno i propri figli.

Il parco di Miralfiore venne occupato da circa 10mila free-vax, quasi tutti in maglietta arancione, per protestare contro il decreto Lorenzin.

Liberi di decidere se far vaccinare o meno i nostri figli” era, in sintesi, la ragione dichiarata della manifestazione.

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I free-vax, infatti, non si dicevano “no-vax”, perché, dal loro punto di vista, non si tratta di essere favorevoli o contrari alle vaccinazioni, ma di avere la libertà e le informazioni sufficienti per poter decidere. La manifestazione, in particolare, intendeva esprimere il dissenso al Decreto legge 7 giugno 2017, n. 73, Disposizioni urgenti in materia di prevenzione vaccinale. Il Decreto sarà convertito con modifiche in legge il 28 luglio (Legge di conversione 31 luglio 2017, n. 119).

La norma portò il numero di vaccinazioni obbligatorie nell’infanzia e nell’adolescenza da quattro a dieci, con l’obiettivo, si legge, di contrastare quel progressivo calo delle vaccinazioni, sia obbligatorie che raccomandate, in corso dal 2013, che ha determinato una copertura vaccinale media nel nostro Paese al di sotto del 95%. Quest’ultima è, infatti, la soglia raccomandata dall’Organizzazione mondiale della sanità per garantire la cosiddetta “immunità di gregge”, ossia per proteggere indirettamente anche coloro che, per motivi di salute, non possono essere vaccinati.

Nel corso della manifestazione di Pesaro (organizzata da: Comitato Salute e Diritti di Pesaro, Colors Radio, Il Sentiero di Nicola, Auret, Comilva, Corvelva, Rav Hpv, Vaccinare Informati, Condav) salirono sul palco anche il filosofo Diego Fusaro (secondo il quale la questione dei vaccini è una questione di interessi economici, di multinazionali e pensiero unico), il giornalista Gianluigi Paragone (eletto poi senatore alle elezioni politiche del 4 marzo 2018, nel listino proporzionale, tra le file del Movimento Cinque Stelle) e il cantante Povia. Ma, soprattutto, intervengono alcuni genitori, secondo i quali i loro figli avrebbero contratto delle malattie per colpa dei vaccini. Fra questi Thomas Ghidotti del Sentiero di Nicola, che, sommerso dagli applausi, grida «assassini, maledetti» rivolgendosi a coloro che promuovono o sono favorevoli all’introduzione dell’obbligo vaccinale previsto dal Decreto.

 

Alberto Quattrocolo

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7 luglio 1901: nasceva Vittorio De Sica. Lo omaggiamo ricordando Umberto D.

Nacque il 7 luglio del 1901 Vittorio De Sica, a Sora, in una famiglia che, secondo le sue parole,

viveva in una condizione di «tragica e aristocratica povertà».

Dopo aver esordito a teatro negli anni Venti, era diventato una star nostrana delle commedie cinematografiche nel decennio successivo. Aveva esordito alla regia nel ’39 e dopo tre celebri commedie, il toccante I bambini ci guardano e La porta del cielo, tutti film diretti durante la guerra (l’ultimo per evitare di finire a Salò), era diventato, con Roberto Rossellini, uno dei fondatori del Neorealismo cinematografico e uno dei maestri del cinema mondiale.

Uno dopo l’altro, infatti, nell’immediato Dopoguerra, diresse quattro capolavori: Sciuscià (1946), Ladri di biciclette (1948), Miracolo a Milano (1951) e Umberto D. (1952), tutte pietre miliari del neorealismo cinematografico italiano, interpretate da attori non professionisti (ad interpretare il protagonista di Umberto D. è Carlo Battistiprofessore di glottologia all’Università di Firenze, e autore, con Giovanni Alessio e altri, del Dizionario Etimologico Italiano). I primi due film ottennero l’Oscar come miglior film straniero e il Nastro d’argento per la migliore regia. Ma il quarto gli procurò non pochi guai. In particolare, venne accusato da un autorevole esponente del Governo di mettere in cattiva luce l’immagine dell’Italia.

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Umberto D., sceneggiato da De Sica e Cesare Zavattini (alla sua quarta collaborazione con il regista), in effetti, è molto amaro e realistico. Amaro, cioè, come solo può esserlo la realtà. Racconta la solitudine e il disagio di un anziano funzionario ministeriale, che, pur campando con una misera pensione, conserva la sua umanità, cioè la capacità di ascoltare e capire il prossimo, e tenta di preservare il rispetto di se stesso. Partecipa, all’inizio del film, ad un corteo non autorizzato di pensionati – i cui cartelli recitano «Aumentate le pensioni. Abbiamo lavorato tutta una vita» -, che viene fatto sgomberare dalla polizia, poi vende l’orologio per pagare l’affitto, ma scopre che il suo appartamento è subaffittato e viene zittito dalla padrona di casa, che lo minaccia di cacciarlo se non paga gli arretrati, così si mette a fare le elemosina, ma desiste quando incrocia un conoscente… Dopo un ricovero in ospedale, per una tonsillite, tenta di buttarsi sotto un treno per non essere più di peso a nessuno, ma all’arrivo del treno il suo cagnolino gli scappa. Distolto dal pensiero del suicidio, Umberto D. gioca con il cane, allontanandosi lungo un vialetto.

De Sica aveva dedicato il film a suo padre, Umberto De Sica. E, come già aveva sperimentato con i tre film precedenti, anche in tal caso gli toccò rilevare come in patria Umberto D. incassasse pochissimo.

In realtà, anche SciusciàLadri di biciclette avevano reso assai poco al botteghino italiano. Il primo, anzi, aveva mandato quasi in rovina, per l’esiguità degli incassi sul mercato interno, il suo produttore, l’italo-americano William Tamburella. Però, aveva reso più di un milione di dollari al distributore della pellicola negli USA. Non trovando un produttore disposto a finanziare il nuovo soggetto suo e di Zavattini, visto l’insuccesso commerciale di Sciuscià, De Sica dovette prodursi da solo Ladri di biciclette.

Già con Sciuscià De Sica aveva avuto dei problemi “politici”:

«Si vergogni! Si vergogni di fare film come questi. Che diranno di noi all’estero? I panni sporchi si lavano in casa“, ad esempio, gli era stato gridato contro al termine della presentazione del film a Milano.

Ma l’attacco che ricevette Umberto D. fu  molto più pesante.

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Infatti, fu Giulio Andreotti a lanciargli la sua invettiva sul principale quotidiano di PiacenzaLibertà:

«Se è vero che il male si può combattere anche mettendone a nudo gli aspetti più crudi, è pur vero che se nel mondo si sarà indotti – erroneamente – a ritenere che quella di Umberto D. è l’Italia della metà del XX secolo, De Sica avrà reso un pessimo servizio alla sua patria, che è anche la patria di Don Bosco, del Forlanini e di una progredita legislazione sociale».

Giulio Andreotti non era uno spettatore qualunque. Era il Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. E stava conducendo già da qualche anno una “crociata” contro il Neorealismo. Era del 7 ottobre 1946 una sua lettera indirizzata ad alcuni industriali del cinema che esplicitamente intendeva «invitare ad orientare le loro iniziative verso temi e motivi più nobili, evitando il più possibile ogni elemento di spettacolo negativo dal punto di vista morale». Si riferiva, in particolare, a quei film neorealistici che trattavano temi quali «il banditismo», «i fuorilegge», «la pratica delle case di tolleranza», ecc. [1].

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Umberto D. sarà poi inserito nella lista dei 100 film italiani da salvare, cioè le “100 pellicole che hanno cambiato la memoria collettiva del Paese tra il 1942 e il 1978”, sarà candidato alla Palma d’Oro a Cannes, otterrà il New York Film Critics Circle Award come miglior film straniero e sarà candidato agli Oscar per la miglior sceneggiatura. Soprattutto, resterà uno dei vertici del Neorealismo, il movimento che non solo tirò il cinema italiano fuori dalle secche del ventennio fascista, ma lo rese esemplare nel mondo, influenzando in misura diversa tutte le altre cinematografie, non solo occidentali, inclusa, tra queste, quella hollywoodiana.

Del resto, lo stesso De Sica si troverà poi a lavorare con capitali e divi internazionali, anche di Hollywood, spesso sfondando su tutti i mercati o quasi [2].

L’ultimo suo film da regista, Il viaggio, tratto da Pirandello e interpretato da Richard Burton, Sofia Loren e Ian Bannen, è girato nel ’74, cioè nell’anno della sua morte a Neuilly-sur-Seine (il 13 novembre).

Parlando di se stesso, Vittorio De Sica ha detto:

«No, io nego di essere svagato. Sembro addormentato, sembro disattento. E invece vedo tutto, ricordo ogni cosa e non dimentico nulla, proprio nulla».

Chiudiamo con un aneddoto sul padre Umberto. Vittorio De Sica racconta che un giorno suo padre venne fermato da un sarto cui doveva del denaro per avergli confezionato l’abito che indossava. Costui, arrabbiato, lo aveva preso per la giacca. Umberto De Sica, senza scomporsi, disse allora al suo aggressore che, dato che fino a quel momento era stato in cima alla lista dei suoi creditori, faceva bene a togliergli le mani di dosso se non voleva finire al fondo di quella lista.

Alberto Quattrocolo

 

[1] Non tutti i film Neorealismo o da questo influenzati venivano trascurati dagli spettatori italiani. Vivere in pace (1947), di Luigi Zampa, sfonda al box office, Il sole sorge ancora (1946), I fuorilegge (1949), di Aldo Vergano, vanno piuttosto bene quanto ad incassi, mentre In nome della legge (1949), di Pietro Germi, e Riso amaro (1949), di Giuseppe De Santis, addirittura sbancano al botteghino. Ma ve ne sono anche altri, che coniugando spunti e approcci neorealistici con stilemi propri di altri generi, conseguono buoni e perfino ottimi risultati commerciali, oltre che premi e riconoscimenti, non solo all’estero ma anche nel nostro Paese.

[2] Negli anni Cinquanta Vittorio De Sica interpreta alcuni grandissimi successi commerciali sotto la direzione di altri registi, tra cui Pane amore e fantasia (1953), che avrà tre sequel, e Altri tempi (1952), nell’episodio Il processo di Frine. Inoltre, diretto da Roberto Rossellini, interpreta Il generale Della Rovere (1959, premiato  al Festival di Venezia con il Leone d’oro, ex aequo con La grande guerra di Mario Monicelli) e il kolossal Addio alle armi (1957, di Charles Vidor), che gli vale la candidatura all’Oscar come miglior attore non protagonista. Affianca, inoltre, Alberto Sordi in alcune pellicole di grosso successo (Il conte MaxIl moralista, Il vigile). Nello stesso decennio dirige L’oro di Napoli (1952), Stazione Termini (1953) – finanziato da David O’ Selznick (il produttore, tra gli altri, di Via col vento Duello al sole) e interpretato da due superstar dell’epoca: Jennifer Jones e Montgomery Clift –  e Il tetto (1956). Negli anni sessanta realizzerà costose produzioni cinematografiche, finanziate da Carlo Ponti e interpretate da attori di fama internazionale, molte delle quali rendono incassi impressionanti e vengono premiate nei diversi festival: La ciociara (con Sofia Loren, Eleonora Brown, Jean Paul Belmondo, Raf Vallone e Renato Salvatori), in primo luogo, – che frutta alla sua interprete la vittoria dell’Oscar e quella del Festival di Cannes, nonché Il Nastro d’Argento, il David di Donatello, il Golden Globe, il premio del New York Film Critics Circle Award e la vittoria ai BAFTA -; ma anche Ieri, oggi e domani (con Marcello Mastrianni e Sofia Loren) incassa benissimo – e procura a De Sica un altro Oscar (come miglior film straniero) -, così come Matrimonio all’Italiana (di nuovo con la Mastroianni e la Loren, premiata al Festival di Mosca e candidata come miglior attrice, insieme alla pellicola, agli Oscar). Meno riscontro, anche dalla critica, ebbero Il giudizio universale (interpretato da un cast notevolissimo in cui figuravano tra gli altri: Anouk Aimée, Vittorio Gassman, Jack Palance, Alberto Sordi, Ernest Borgnine, Silvana Mangano, Lino Ventura, Paolo Stoppa, Fernandel, Nino Manfredi), I sequestrati di Altona (un’altra opera con un cast internazionale: Sofia Loren, Frederich March e Maximillian Shell) e Il boom (con Alberto Sordi e Gianna Maria Canale). Invece ebbe incassi elevati (e qualche problema con la censura) il film Bocaccio 70, di cui diresse solo uno dei quattro episodi (gli altri furono diretti da Federico Fellini, Mario Monicelli e Luchino Visconti). Dopo altre opere, non particolarmente apprezzate, realizzate tra la metà degli anni Sessanta e l’inizio del decennio successivo – tra le quali: Caccia alla volpe (con Peter Sellers, Britt Ekland, Victor Mature, Akim Tamiroff, Paolo Stoppa e Martin Balsam), Sette volte donna (con Shirley Maclaine, Peter Sellers, Micheal Caine, Elsa Martinelli, Vittorio Gassman, Alan Arkin, Philippe Noiret e Anita Ekberg), I girasoli (ancora con Mastroianni e la Loren), Amanti (con Faye Dunaway e M. Mastroianni) e Lo chiameremo Andrea (con Mariangela Melato e Nino Manfredi) -, sarà Il giardino dei Finzi-Contini, dal romanzo di Giorgio Bassani, a riportarlo al successo commerciale e a procurargli un ulteriore Oscar.