L’11 agosto 1934 apre il carcere di Alcatraz

L’undici agosto del 1934 giunse sull’isola di Alcatraz il primo gruppo di detenuti civili destinati al nuovo penitenziario di massima sicurezza, appena inaugurato.

L’Isla de los Alcatraces, dal nome degli uccelli marini che a lungo ne furono i soli abitanti, scoperta nel XVIII secolo dagli spagnoli a circa 1,5 miglia dalla Baia di San Francisco e ceduta agli Stati Uniti nel 1849, aveva ospitato il primo faro della California e in seguito una guarnigione dell’esercito; dal 1861 vi furono rinchiusi prigionieri della Guerra Civile Americana e, nel 1868, da fortezza divenne carcere militare per soldati insubordinati o disertori, ma anche per nativi indiani ribelli o civili che avevano preso parte alla rivolta dei Boxer in Cina; con modalità via via più attenuate rispetto al rigore originario (numerosi gli scambi e i contatti con gli abitanti della terraferma, che tra l’altro contribuirono alla trasformazione del carcere in un giardino fiorito, curato dagli stessi detenuti), mantenne questa funzione fino agli anni Trenta del Novecento, quando fu trasformata in penitenziario di massima sicurezza per detenuti civili particolarmente pericolosi o segnalati per ripetuti tentativi di evasione.

Noto come “The Rock” o anche “The Bastion”, costituito prevalentemente di roccia e circondato da acque gelide e correnti impetuose, l’isolotto apparve il luogo ideale per ospitare un carcere all’avanguardia sotto il profilo securitario, destinato negli anni ad acquisire la fama, a seconda dei punti di vista, di fiore all’occhiello dell’amministrazione penitenziaria statunitense o di simbolo della brutalità della repressione.

Le caratteristiche naturali e le modalità di gestione alimentarono la leggenda secondo cui “nessuno è mai riuscito a scappare da Alcatraz e nessuno ci riuscirà mai”: di fatto, i quattordici tentativi di fuga documentati si risolsero perlopiù in tragedia (uno di essi diede luogo a una vera e propria battaglia durata tre giorni) o nella sparizione degli evasi, presunti annegati per le cronache ufficiali, salvi e latitanti secondo la vox populi (la più rocambolesca di queste vicende ispirò il noto film Fuga da Alcatraz).

L’unica cosa certa è che la storia di questo carcere sconfina in un mito di cui ancora si trova traccia nell’immaginario collettivo: film, saggi e romanzi, aspri dibattiti in politica e nella società civile, persino modi di dire popolari, hanno contribuito a creare attorno al nome di Alcatraz una valenza simbolica che, a oltre cinquant’anni dalla sua chiusura definitiva, tuttora perdura.

“The Rock” spogliò Al Capone del suo potere, addomesticò “Machine Gun” Kelly e ne fece un esempio di decoro, tolse i suoi uccellini a Robert Stroud, l’Uomo di Alcatraz del film omonimo. Era l’ultima frontiera: con il suo freddo umido, l’isolamento austero, la rigida disciplina e l’imposizione del silenzio, quel carcere rappresentava la versione statunitense della “soluzione finale” per delinquenti ritenuti irrecuperabili o ingestibili. Ma era anche molto di più: Alcatraz fu concepita per essere un monito ben visibile, icona della risposta muscolare del governo statunitense all’inedita, feroce impennata della criminalità organizzata seguita al Proibizionismo, tra gli anni Venti e i primi anni Trenta del secolo scorso.

Se Al Capone era il simbolo dei fuorilegge, Alcatraz sarebbe stata il simbolo del potere punitivo della legge. In quest’allegoria della lotta tra il Bene e il Male, le due figure più rappresentative non potevano che entrare in rotta di collisione, e la presenza di Capone, come di molte altre celebrità criminali – Doc Barker, (ultimo sopravvissuto della gang omonima), George “Machine Gun” Kelly, Robert “Birdman of Alcatraz” Stroud, Floyd Hamilton (autista di Bonnie & Clyde), Alvin “Creepy” Karpis, per citarne alcuni – diede lustro alla fama del nuovo penitenziario, che fu soprannominato “l’Isola del Diavolo dello Zio Sam”.

A dirigere il nuovo corso della prigione fu chiamato James A. Johnston, di comprovata esperienza nel settore e noto per il suo approccio riformatore, incentrato sulla disciplina e sul lavoro; scelse personalmente i membri dello staff e ottenne che i detenuti fossero inviati, anziché direttamente dai tribunali al momento della condanna, dai direttori delle carceri dopo un periodo di carcerazione che ne evidenziasse le caratteristiche di irredimibilità.

Niente visite per i primi tre anni, accesso limitato alla biblioteca ma niente radio né giornali, censura sulla corrispondenza, lavoro come privilegio da guadagnarsi attraverso la buona condotta, celle singole dotate del minimo indispensabile, una routine quotidiana rigorosa, una guardia ogni tre detenuti, la regola del silenzio che si diceva avesse fatto impazzire i più scafati delinquenti, e, tutt’attorno, la natura impervia dell’isola e delle sue acque burrascose: questo il regime a cui furono sottoposti, senza eccezione alcuna, gli ospiti di Alcatraz. L’isolamento era talmente impenetrabile che anche per la stampa risultava difficile conoscere le identità, spesso celebri, dei detenuti.

Ciononostante, qualcosa riuscì a trapelare, in occasione di alcuni sanguinosi episodi di repressione di tentativi di fuga o sommosse, che avviarono un complesso dibattito all’esterno circa i metodi della gestione della sicurezza in ambito penitenziario.

Ufficialmente, la chiusura del carcere, avvenuta il 21 marzo 1963, fu decretata dall’allora Ministro – Segretario secondo la definizione USA – della Giustizia, Robert F. Kennedy (fratello del Presidente degli Stati Uniti, John F. Kennedy) a causa degli elevati costi di gestione: cibo, acqua potabile e indumenti dovevano essere trasportati dalla terraferma e il salino deteriorava velocemente le strutture, al punto che si arrivò a sostenere che sarebbe stato più economico mantenere i detenuti nel migliore albergo di New York.

L’isola, ormai disabitata, fu occupata e rivendicata da un nutrito gruppo di attivisti nativi americani, che per un breve periodo godette del supporto di buona parte dell’opinione pubblica, fin quando un incendio dai tragici esiti e il diffondersi di voci incontrollate circa presunti comportamenti illegali tenuti dagli occupanti determinarono uno sgombero da parte delle forze dell’ordine.

Oggi Alcatraz è riserva naturale, inserita nel Golden Gate National Recreation Area e aperta al pubblico dal 1973; dopo i decenni di isolamento inaccessibile, l’attuale passaggio di migliaia di visitatori ogni anno è solo l’ultima delle contraddizioni nella lunga storia di “The Rock”, che non ne scalfisce minimamente l’alone leggendario.

Silvia Boverini

Fonti:
Michael Esslinger, “Alcatraz, rigid and unusual punishment”, www.crimemagazine.com;
www.AlcatrazHistory.com

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Con la legge 442 del 10/08/1981 è abrogato il delitto d’onore

Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni.
Alla stessa pena soggiace chi, nelle dette circostanze, cagiona la morte della persona, che sia in illegittima relazione carnale col coniuge, con la figlia o con la sorella.

Così recitava l’articolo 587 del codice penale italiano. Non era dunque esclusa totalmente la pena per chi vendicava l’onore leso della propria famiglia, ma ridotta considerevolmente. Inoltre, l’attenuante era estesa anche alle donne della famiglia che scoprivano l’adulterio di una congiunta. Sembra importante sottolineare questi aspetti, in considerazione del fatto che le cose non sono sempre state così.

Nonostante l’avvento dell’Illuminismo, infatti, ancora nel 1810 il primo codice francese prevedeva l’impunità per l’omicidio motivato dalla difesa dell’onore. Prima ancora, durante il 1500, si arrivò a una radicalizzazione della situazione, con sentenze che attribuivano addirittura un dovere al marito che veniva a conoscenza del tradimento: il dovere di uccidere moglie e amante. Di più, si considerava leso l’onore del marito, la cui moglie era semplicemente sospettata di adulterio. Ciò derivava, presumibilmente, da una regola imposta nel VI secolo da Giustiniano: l’uomo, per non incappare in una condanna per omicidio, doveva aver inviato all’amante della consorte tre diffide scritte. Norma ovviamente tanto osteggiata quanto dileggiata, ma che poneva fortemente l’accento sull’immagine pubblica del marito: questi, infatti, era indotto più al delitto che alla denuncia, rischiando di essere deriso dagli stessi giudici.

L’origine normativa più risalente si trova, tuttavia, ben prima della nascita dell’imperatore bizantino: è necessario riavvolgere sino al 620 a.C. (circa mille anni prima!), quando Atene pose un freno alla cultura della vendetta. Non era più possibile farsi giustizia autonomamente, poiché erano stati istituiti appositi tribunali. Naturalmente, a noi interessa l’eccezione a tale regola: l’omicidio dell’amante, (indifferentemente, della madre, moglie, figlia, sorella o concubina) scoperto in flagrante e in casa propria, non era punito.

Questo sintetico excursus storico sembra utile a dar conto del perché l’espunzione dell’articolo 587 sia arrivata solo all’inizio degli anni Ottanta: un radicamento tanto profondo da giungere agli albori della cultura giuridica. La foto in cima alla pagina, tuttavia, ci ricorda che questa battaglia è lungi dall’essere conclusa, anche fuori dall’Italia. In Pakistan, ad esempio, nonostante nel 2016 sia stata introdotta una legge volta a reprimere il delitto d’onore, ad oggi si contano più di 1200 omicidi di tal fatta. I cambiamenti, si sa, sono lenti. E, forse, non è necessario percorre tutti quei chilometri per rendersi conto che diritto e società non vanno di pari passo così spesso.

Alessio Gaggero

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Il 9/08/1991 veniva ucciso il giudice Antonino Scopelliti. Da Cosa Nostra, dalla ‘ndrangheta o da entrambe?

La presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, nel 2018, ha voluto onorare la memoria del magistrato Scopelliti con due giorni di anticipo. Il pubblico ministero della Cassazione morì, infatti, 29 anni fa oggi. Queste le parole della seconda carica dello Stato:

[…] Antonino Scopelliti, magistrato chiave nella lotta alla mafia, uno dei più apprezzati procuratori di Cassazione, che il 9 agosto del 1991 fu assassinato in un agguato di ‘ndrangheta e al quale chiedo a quest’Assemblea di tributare il doveroso omaggio. […] A 27 anni da quel tragico giorno, siamo ancora lontani dal vedere scritta una parola definitiva di verità sull’omicidio Scopelliti. […] Grazie alla Fondazione a lui intitolata, ogni anno la memoria di Antonino Scopelliti viene rinnovata attraverso il ricordo delle sue azioni, perché quella cultura della legalità per la quale si era sempre battuto possa definitivamente attecchire tra le nuove generazioni e soprattutto tra i giovani di una terra martoriata, dove il germe della criminalità organizzata è ancora vivo, come la Calabria.

Sono tanti i misteri che feriscono il nostro paese. Quello della morte procuratore calabrese è fra questi. Forse non è uno dei più noti e proprio per questo è bene ricordarlo, per non permettere che alla memoria collettiva sfugga l’importanza di far luce su queste zone d’ombra, che offuscano la nostra vista.

Non si sa chi sia stato, né perché. Certo, di ipotesi ne sono state prodotte tante, alcune più verosimili, altre meno credibili. Quella che rimbalza più di frequente nelle fonti d’informazione disponibili vede, alla base dell’omicidio, un accordo tra due gruppi di uomini estremamente pericolosi, oggi come allora: Cosa Nostra e ‘ndrangheta.

In Calabria, la seconda guerra tra le ‘ndrine impazzava dal ’95, arrivando a mietere fino a mille morti. Pare che, per giungere finalmente a una tregua, nonché a una riorganizzazione del crimine locale, entrarono in scena i ‘colleghi’ siciliani. Fu forse lo stesso Riina a interpretare il ruolo di mediatore, facendosi, tuttavia, pagare profumatamente: Scopelliti, pubblica accusa di terzo grado del venturo maxiprocesso a Cosa Nostra, era palesemente pericoloso. Fu freddato in macchina, sulla via di casa, quasi nella sua città d’origine: Campo Calabro.

Due procedimenti e due gradi di giudizio dopo, assolti Riina, Provenzano e altri tredici boss siciliani. Nel 2017, però, comparsi tre nuovi collaboratori di giustizia, che potrebbero condurre a una svolta nelle indagini: qualcuno ha già rappresentato un quadro di stretta connessione tra Cosa nostra, ‘ndrangheta, destra eversiva, logge massoniche e servizi deviati. Noi aspettiamo e, lecitamente, speriamo che la verità affiori.

Alessio Gaggero

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8 agosto 1956, Marcinelle (Belgio), tragedia in miniera

Notte di attesa, notte di immenso dolore: gente del Nord e del Sud, gente di ogni regione d’Italia: tutto il dramma della nostra emigrazione è spietatamente sintetizzato sul ciglio di questa strada

Così scrisse Umberto Stefani, inviato del Corriere d’informazione a Marcinelle, in Belgio.

La mattina dell’8 agosto 1956, la miniera di carbone di Bois du Cazier, si riempì di fumo a causa di un incendio nel condotto che portava l’aria dentro i tunnel sotterranei.

I soccorsi furono da subito molto lenti e complessi: gli ultimi cadaveri, in condizioni pessime e difficili da riconoscere, furono portati fuori dalla miniera soltanto nel marzo del 1957. Morirono in tutto 262 persone, tra cui 136 operai italiani.

All’esito delle tre inchieste avviate per accertare dinamiche e responsabilità dell’incidente, dopo tre anni i tecnici e gli ingegneri imputati di omicidio plurimo vennero assolti; solo nel 1961 la Corte d’Appello di Bruxelles condannò a sei mesi di carcere il direttore dei lavori ma, a tutt’oggi, per i giovani “musi neri” di Marcinelle non c’è ancora nessuna verità… Nel 1957 intanto erano riprese le attività della miniera, che fu poi chiusa nel 1967.

Nel 1946, dieci anni prima dell’incendio, l’Italia aveva firmato con il Belgio un protocollo che prevedeva il trasferimento di 50mila lavoratori in cambio del carbone. Bruxelles chiedeva manodopera a basso costo disposta a scendere sotto terra, lavoro pesante e mal retribuito, a cui fino a quel momento erano destinati i prigionieri di guerra; l’Italia non disponeva di materie prime ma aveva manodopera in eccesso in cerca di un avvenire: era l’accordo “minatori-carbone”, uno scambio tra uomini e merce.

È Alcide De Gasperi a firmare il protocollo d’intesa, cui fa seguito un’emigrazione massiccia definita da alcuni storici come una deportazione vera e propria, che obbliga quelli che decidono di partire per sfuggire alla miseria e alla disoccupazione a scendere nel sottosuolo per almeno un anno, pena l’arresto.

L’accordo prevede l’invio di 2mila operai a settimana, cui si aggiungono anche le famiglie dei minatori, mogli, figli, genitori; in cambio il Belgio si impegna a fornire al nostro Paese il carbone a basso costo. Nelle città e nei paesi d’Italia i manifesti rosa di “reclutamento” promettono lavoro e salario: unici requisiti, una buona salute e un’età massima di 35 anni, nessuna preparazione richiesta, nessuna menzione circa i diritti degli operai e le condizioni di lavoro.

I lavoratori italiani che si mettevano in viaggio verso il Belgio venivano selezionati lungo il percorso, poi arrivavano in treno a Bruxelles, ma nello scalo merci, non nella stazione passeggeri; caricati sui camion del carbone, venivano trasportati negli ex campi di concentramento ereditati dal recente conflitto. Gli immigrati italiani e le loro famiglie erano ospitati nelle baracche dei prigionieri di guerra, sovraffollate, senza acqua ed elettricità, con bagni collettivi. La sicurezza sul lavoro era risibile, gli orari massacranti, gli straordinari obbligatori, i diritti sindacali inesistenti. Inoltre, gli immigrati italiani erano spesso mal tollerati. Molti belgi li chiamavano “macaronìs” e fuori dai locali del distretto minerario di Charleroi fiorivano i cartelli: “ni chiens, ni italiens”, “né i cani, né gli italiani”.

La memoria di quegli anni è oggi affidata alle narrazioni che rievocano la grande migrazione italiana verso il Nord Europa (cfr. di Stefano P., La catastròfa, Sellerio, 2011) e agli ex minatori e alle associazioni impegnate a preservarne e trasmetterne il ricordo; grazie alle proteste di questi ultimi, qualche anno fa si è evitata la trasformazione in centro commerciale di ciò che rimane della miniera di Bois du Cazier, da tempo divenuta un memoriale aperto al pubblico.

Silvia Boverini

Fonti:

Lidia Baratta, “Quando gli immigrati senza diritti eravamo noi”, www.linkiesta.it ;
Alessandra Solarino, “Martinelle 8 agosto 1956. La tragedia dei minatori tra rimozione e memoria”, www.rainews.it;
“Il disastro di Martinelle, 60 anni fa”, www.ilpost.it

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7 agosto 1947: si conclude la spedizione dell’imbarcazione Kon-Tiki

Il nostro pianeta è più grande dei fasci di giunchi che ci hanno portato attraverso i mari, eppure abbastanza piccolo per correre gli stessi rischi, a meno che quelli di noi che sono ancora vivi aprano gli occhi al disperato bisogno di una collaborazione intelligente se vogliamo salvare noi stessi e la nostra comune civiltà da quella che stiamo trasformando in una nave che affonda.

Così scriveva nel 1978 Thor Heyerdahl, norvegese per nascita e cittadino del mondo (Larvik 1914 – Colla Micheri [Savona] 2002), studioso appassionato, esploratore, ambientalista,  divulgatore, artista e uomo di pace: costretto, a causa dei conflitti che infiammavano la regione, a interrompere la spedizione che avrebbe dovuto condurlo dall’Iraq a Gibuti a bordo dell’imbarcazione in giunco Tigris, indirizzò una lettera, firmata da tutto l’equipaggio, all’allora Segretario Generale dell’ONU Kurt Waldheim, protestando contro la guerra e la vendita di armi ai paesi in via di sviluppo da parte degli stati occidentali.

Il 7 agosto si ricorda la conclusione del viaggio della zattera a vela Kon-Tiki, l’impresa di Heyerdahl più famosa (1947), che, sebbene terminata in un naufragio, avvalorò – almeno in linea teorica – la sua ipotesi circa una prima colonizzazione della Polinesia, in epoca precolombiana, ad opera dei popoli sudamericani.

Soggiornando nelle Isole Marchesi, l’esploratore aveva posto in relazione una serie di elementi, tra i quali un graffito rappresentante un’imbarcazione a remi assai differente dalle tipiche piroghe locali, una leggenda riferita dai cantastorie circa un dio Sole – Tiki – venerato da uomini bianchi venuti da oriente, la presenza di correnti oceaniche da est, l’utilizzo – con lo stesso nome – della patata dolce in entrambi i continenti: Heyerdahl, isolato dal resto del mondo scientifico, decise di dimostrare in prima persona che un’ancestrale migrazione dal Sudamerica potesse essere giunta in Polinesia, con le sole risorse disponibili in quell’epoca lontana.

Prestigiose istituzioni culturali, compreso il National Geographic, negarono supporto e finanziamenti, nell’idea che l’impresa fosse “un suicidio collettivo”, ma la notorietà di Heyerdahl consentì comunque di organizzare la spedizione.

In Perù furono reperiti i materiali necessari e la costruzione del Kon-Tiki fu basata sulla tecnica indigena del luogo, impiegando il legno di balsa utilizzato in epoca precolombiana e facendo riferimento alle informazioni rinvenute nelle cronache dei colonizzatori spagnoli. Uniche concessioni alla modernità, le razioni alimentari fornite dall’esercito statunitense e un’emittente radio amatoriale per le comunicazioni.

Il viaggio iniziò il 28 aprile 1947 da Callao (Perù); la zattera fu trainata in mare aperto da un rimorchiatore della Marina Militare peruviana, per consentirle di sfruttare la Corrente di Humboldt per la navigazione. Heyerdahl e i cinque compagni di viaggio navigarono per 101 giorni attraverso l’Oceano Pacifico.

Il 7 agosto il Kon-Tiki fu scagliato dal mare sulle scogliere coralline di un isolotto disabitato dell’atollo di Raroia, nell’arcipelago delle Tuamotu, subendo notevoli danni; era stata percorsa una distanza di circa 3770 miglia nautiche (circa 4300 effettivamente navigate), con una velocità media di circa 1,8 nodi. Dopo diversi giorni in solitudine, l’equipaggio, sostanzialmente illeso, fu raggiunto e posto in salvo da abitanti delle isole vicine.

L’impresa è narrata dallo stesso Heyerdahl nel libro Kon-Tiki (1948), tradotto in oltre 70 lingue con decine di milioni di copie vendute, e in un film premiato con l’Academy Award come miglior documentario (1951). L’umanità immensa di Thor Heyerdahl non poté mai essere ristretta nei confini angusti di una definizione univoca: scopritore entusiasta, non volle mai divenire accademico universitario, nonostante le innumerevoli lauree ad honorem; amico personale di Gorbaciov e Fidel Castro, frequentò indistintamente capi di stato, marinai, pescatori e contadini; ecologista ante litteram, sollevò la questione dell’inquinamento degli oceani avanti alla prima Conferenza sull’ambiente dell’ONU (1972), che istituì il divieto di scarico di oli usati in mare; amava senza pregiudizio gli esseri umani e la natura, mantenendo una visione d’insieme sulle cose, tanto rara in un’epoca di ossessione per la specializzazione del sapere.

La vita, i libri e tutte le imprese di Heyerdahl costituiscono il manifesto delle sue convinzioni più salde: tutti gli esseri umani sono uguali, affrontiamo tutti le stesse sfide, possiamo lavorare e vivere insieme a prescindere dalle differenze etniche, politiche o religiose.

Membro attivo del World Federalist Movement, lavorò per la pace, la cooperazione oltre le frontiere, e la legalità; fu impegnato nell’organizzazione internazionale United World Colleges, fondata durante la Guerra Fredda per garantire opportunità di conoscenza e confronto a giovani studenti provenienti dai contesti più diversi. Con gli equipaggi cosmopoliti delle sue spedizioni cercò di dimostrare che si può lavorare bene insieme nonostante le differenze culturali, e che l’oceano, fin dalla preistoria, non può che essere aperto, luogo vivo e pulsante di passaggi, incontri e scambi tra popoli.

Silvia Boverini

 

Fonti:
Thor Heyerdahl, “Kon-Tiki. 4000 miglia su una zattera attraverso l’oceano”, ed. Giunti Martello 1975;
Gabriella De Fina, “L’uomo del Kon-Tiki. Una zattera nell’oceano Pacifico”, www.latitudeslife.com;
Gianluca Rocca, “Il Kon-Tiki”, www.nauticareport.it;
“Thor Heyerdahl”, www.kon-tiki.com.

6/08/1985. Vengono uccisi da Cosa Nostra Ninì Cassarà e Roberto Antiochia

Quella dell’85 è un’estate caldissima in Sicilia. Non tanto per i gradi, quanto per i proiettili.

Gli omicidi di mafia sono storie che affondano le radici in un terreno di solida ragione e preciso calcolo: non sono casuali. Spesso, la ragione è quella della vendetta. Vendetta, ad esempio, per chi è stato torturato fino alla morte. Il quale è spirato per dar sfogo all’ ”isteria collettiva” di chi, pochi giorni prima, aveva visto assassinare un collega. Collega che aveva avuto, riavvolgendo di 72 ore, la pessima idea di arrestare otto uomini del Papa, Michele Greco. È la vendetta a farla da padrone. Andiamo però con ordine.

Giuseppe Montana è commissario della squadra mobile di Palermo; in particolare, è a capo della recente sezione catturandi: è suo compito cercare e trovare i latitanti. Antonino “Ninni” Cassarà è vicedirigente della stessa mobile, oltre che vicequestore aggiunto alla questura di Palermo. Roberto Antiochia è un agente della mobile da un paio d’anni. Dall’altro lato della barricata si sono: Michele Greco detto Il Papa, originario di Ciaculli (una frazione rurale di Palermo), che si alleò coi Corleonesi durante la seconda guerra di mafia; e Salvatore Marino, calciatore palermitano di venticinque anni, cresciuto in una famiglia di pescatori.

Questi i protagonisti, che fanno il loro ingresso sulla nostra scena il 25 luglio 1985: la catturandi riesce a mettere dietro le sbarre otto uomini. Il Papa ha ricevuto un duro colpo. Pur non distinguendosi tra i ‘colleghi’ per la ferocia1, non può lasciar correre. Tre giorni dopo, uno prima di andare in ferie, Montana viene freddato da una scarica di proiettili, che lascia però in vita la fidanzata, con la quale avevano appena terminato un giro in motoscafo. Con una testimonianza oculare, si risale, per mezzo della macchina d’appoggio all’agguato, a Marino: dopo il fermo nei confronti dei suoi famigliari, il primo agosto il giovane si presenta spontaneamente in caserma. Non ne uscirà sulle proprie gambe. Al termine di lunghi interrogatori, scanditi dall’accumularsi degli indizi a suo sfavore, il calciatore è portato in pronto soccorso, dove appare subito evidente l’inutilità di qualsiasi intervento.

Compare, a questo punto, un personaggio che non ha bisogno di presentazioni: Oscar Luigi Scalfaro, all’epoca Ministro dell’interno. Il cinque agosto, in seguito ai funerali Marino, fa saltare, con altri esponenti delle forze dell’ordine, il capo della mobile di Palermo, presso i cui uffici si è svolta la tragedia. Eccoci arrivati alla resa dei conti. Cassarà sta tornando a casa, scortato da Antiochia (che è già stato trasferito a Roma, ma, essendo in ferie, può continuare ad aiutare la squadra che ha servito negli ultimi due anni) e altri due uomini della mobile. Il ragazzo, appena ventitré anni, scende ad aprire la portiera al suo superiore. L’Alfa blindata non lo protegge più: i kalashnikov scaricano tutta la potenza da fucili d’assalto. A nulla serve il tentativo di Antiochia di proteggere Cassarà: la moglie lo vede morire davanti alla loro casa, proprio sotto i suoi occhi. La vendetta è compiuta.

Dopo la vendetta, arriverà, con i suoi tempi, la giustizia: Riina, Provenzano, Greco, Brusca e Madonia sono condannati all’ergastolo. Uno dei tanti di cui si potevano fregiare. Cassarà, Antiochia e Montana sono invece degni della Medaglia d’oro al valor civile.

Alessio Gaggero

1 Il soprannome gli fu attribuito per la capacità di mediatore messa in campo a favore delle famiglie. Non ultimo l’incontro tra John Gambino, venuto apposta dagli Stati Uniti, e Totò Riina.

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Viene sciolta la Camera dei fasci e delle corporazioni il 5 agosto del 1943

Entra in vigore, il 5 agosto del ’43, il Regio Decreto-legge del 2 agosto 1943 n. 705 con il quale si scioglie, ma non si sopprime, la Camera dei fasci e delle corporazioni e si stabilisce che entro 4 mesi dalla fine della guerra si dovranno svolgere le elezioni per la Camera dei deputati. Quest’ultima era stata sostituita con la legge del 19 gennaio 1939, n. 129 che aveva istituito, appunto, la Camera dei fasci e delle corporazioni.

Essendo una costituzione flessibile, cioè modificabile con legge ordinaria, lo Statuto albertino (cioè, la Costituzione concessa dal Re Carlo Alberto nel 1848 e poi estesa al Regno d’Italia a seguito dell’unificazione), non necessitava di una particolare procedura di approvazione per essere modificato. Invece, a seguito dell’entrata in vigore dell’attuale Costituzione della Repubblica italiana, per introdurre norme di rilevanza costituzionale occorrerà approvare, per l’appunto, leggi costituzionali con la procedura appositamente prevista dalla Costituzione stessa.

Infatti, pur vigendo una costituzione liberale, per vent’anni l’Italia era stata governata dalla dittatura fascista: il 31 ottobre 1922 era sorto il governo di Benito Mussolini. Di fronte all’incalzare dello squadrismo fascista, che vedeva il suo apogeo nella mezza fallita marcia su Roma (visto che vi presero parte non più di 26.000 fascisti, invece dei 200.000 annunciati o dei 300.000 dichiarati poi dalla propaganda del regime), Vittorio Emanuele III di Savoia, ignorando i suggerimenti dell’allora Presidente del Consiglio dei ministri in carica, Luigi Facta, che gli chiedeva di firmare il decreto di proclamazione dello stato d’assedio, aveva deciso di affidare l’incarico di Presidente del Consiglio a Mussolini, sebbene, in quel momento, in Parlamento non sedessero più di 35 deputati fascisti (eletti nel 1921). In soli 33 giorni Mussolini era riuscito ad ottenere i pieni poteri, pur nel rispetto formale della Costituzione (lo abbiamo ricordato in questo post). Come si è visto in altri post, su questa rubrica, Corsi e Ricorsi, anche con l’approvazione delle leggi fascistissime (le abbiamo ricordate nel post Le prime leggi fascistissime) era stato cancellato “legalmente” ogni residuo di libertà. E per vent’anni fu soppressa ogni speranza legalitaria, insieme ai più basilari diritti democratici (libertà di stampa, di manifestazione del pensiero, di associazione, di riunione, di insegnamento, a proposito della quale si rinvia ad un altro post), mentre si ripristinava la pena di morte, veniva introdotto un Tribunale Speciale per reati politici, si istituiva l’O.V.R.A., la polizia politica segreta (si veda questo post) per garantire l’effettiva persecuzione di ogni oppositore, data la formale messa fuori legge di tutti i partiti e tutte le organizzazioni politiche, tranne il partito fascista, e l’irrogazione delle lunghe pene detentive previste per chi ricostituiva le organizzazioni disciolte o si affiliava ad esse. Del resto nel 1928 si erano ridotte le elezioni a semplici plebisciti di approvazione di una “lista unica” di deputati designati dal Gran Consiglio del Fascismo. Nel 1939 le elezioni, rese di fatto inutili, erano state del tutto abolite nel 1939 proprio con la sostituzione della Camera dei Deputati con la Camera dei Fasci e delle Corporazioni, la quale era composta solo da fascisti nominati dal Governo, mentre il Senato rimaneva di nomina regia.

Il Regio decreto, entrato in vigore il 5 agosto del ’43, che sciolse l’organo legislativo del regime fascista, era, dunque, una diretta conseguenza della sfiducia a Benito Mussolini, votata il 25 luglio (come abbiamo ricordato in questo post), 8 giorni prima, e dell’arresto del duce per ordine del Re, Vittorio Emanuele III, che aveva affidato l’incarico di presidente del Consiglio dei Ministri al maresciallo d’Italia Pietro Badoglio. Più in generale, questi eventi furono determinati dalla grave situazione creatasi nel Paese come conseguenza dell’andamento disastroso della guerra, nella quale l’Italia, per volere di Mussolini, si era gettata, alleandosi con la Germania nazista e con l’Impero del Sol Levante.

La Camera dei Fasci sarà definitivamente soppressa con la legge 5 maggio 1949, n. 178, allorché sarà già in vigore la Costituzione repubblicana. La stessa legge del ’39, ormai del tutto priva di efficacia sarà formalmente abrogata solo nel 2009, con l’entrata in vigore di alcune norme di semplificazione normativa, previste dalla legge 18 febbraio 2009, n. 9 (legge di conversione, con modificazioni del decreto-legge 33 dicembre 2008, n. 200).

Alberto Quattrocolo

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Il 4 agosto del 1964 il cosiddetto incidente del Tonchino ‘legittima’ l’escalation dell’intervento militare degli Stati Uniti in Vietnam

Pare che Lyndon Johnson, l’allora presidente degli Stati Uniti, poche ore dopo l’incidente, così si espresse:

Maledizione, quei dannati imbecilli stavano sparando a dei pesci volanti!”.

Probabilmente infatti, gli uomini dello USS Maddox, cacciatorpediniere americano, ebbero l’impressione di essere stati attaccati dal nemico nordvietnamita e risposero al fuoco, sparando, tuttavia, al nulla.

Senz’altro si trovavano in una condizione di estrema tensione, viaggiando sul filo della provocazione nei confronti del nemico: le navi a stelle e strisce, durante le incursioni terrestri dell’esercito sudvietnamita, costeggiavano i territori del Nord, alla ricerca di informazioni strategiche. Questo comportamento aveva già portato a uno scontro il 2 agosto 1964, durante il quale si registrò l’affondamento di una nave nemica, a fronte di un unico colpo subito dallo stesso Maddox.

Due giorni dopo, erano le 22.30 circa, i marinai pensarono di aver individuato di nuovo, complice probabilmente il maltempo, delle imbarcazioni ostili e si comportarono di conseguenza. Giunta a Washington, la notizia, sommata a quella del 02.08, permise al Congresso di dare il via ad azioni militari di attacco, senza, tuttavia, dichiarare guerra. Guerra che si scatenò più avanti in tutta la sua violenza (su questa rubrica, Corsi e Ricorsi, abbiamo ricordato il conflitto in Vietnam in diversi post, inclusi “I had a brother at Khe Sanh, Fighting off the Viet Cong” e 12 novembre 1969: il giornalista freelance Seymour Hersh scopre l’eccidio di My Lai), come è tristemente noto, proprio in seguito al contributo statunitense.

Alessio Gaggero

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Nella notte tra il 3 e il 4 agosto 1974 si consuma la strage dell’Italicus

Dopo il ricordo della strage di Bologna si veda il post Bologna, sabato 2 agosto 1980, 10:25.), su questa rubrica, Corsi e Ricorsi, vogliamo porre l’attenzione su un altro attentato degli anni di piombo e di stragi, forse uno dei meno noti: strage dell’Italicus.

Se Aldo Moro, allora Ministro degli Esteri, avesse effettivamente preso quel treno, le cose sarebbero andate senz’altro in modo diverso. Pare invece che dei suoi collaboratori lo fecero scendere sulla banchina per compilare alcuni documenti: le porte dell’Italicus gli si chiusero alle spalle. Lo salvarono? Non è detto. Forse non sarebbe stato tra le 12 vittime; forse nemmeno tra i 48 feriti. Di sicuro, se il democristiano fosse riuscito a sedersi al proprio posto, la copertura mediatica avrebbe vantato tutt’altra ampiezza.

La bomba esplose all’1:23 del 4 agosto 1974, quando l’espresso 1486 Roma – Monaco era, fortunatamente, solo a pochi metri dall’uscita della Grande Galleria dell’Appennino. Chi aveva piazzato l’ordigno? Dopo tre gradi di giudizio, nessuno fu trovato colpevole, né come esecutore, né come mandante. Si sospettava e si sospetta ancora, tuttavia, il coinvolgimento di gruppi neofascisti, che rivendicarono l’attentato, dei Servizi segreti deviati e, ancora una volta, della P2 di Licio Gelli (della P2 abbiamo parlato nei post Il 23 settembre 1981 è istituita la Commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2Cirillo, la Camorra, le BR …Il giudice Minervini, un uomo abbastanza serio da non prendersi troppo sul serio), anche nell’alterazione delle indagini. Peraltro, non si può trascurare che la strage di Bologna, avvenne il 2 agosto di 6 anni dopo di quella dell’Italicus e il giorno successivo a quello in cui il giudice istruttore di quest’ultima aveva depositato il rinvio a giudizio per i responsabili della strage di quella notte d’agosto del ’74. Infatti, furono incriminati come esecutori diversi esponenti del neofascismo italiano, ma l’iter processuale si concluse con l’assoluzione da parte di una sentenza della Cassazione (nel 1987), in particolare del giudice Corrado Carnevale. Risulteranno poi essere iscritti alla P2 molti dei personaggi coinvolti nella vicenda, in ruoli diversi: il generale dei CC Luigi Bittoni, l’ammiraglio Gino Birindelli, il capitano Corrado Terranova, il colonnello dei CC di Arezzo Domenico Tuminello, il pm di Arezzo Mario Marsili, Federigo Mannucci Benincasa. Del resto i vertici dei servizi segreti del periodo, il generale Vito Miceli e il generale Gianadelio Maletti, erano iscritti alla P2. E in contatto con Licio Gelli o con la P2 erano anche gli estremisti neri sospettati di aver materialmente compiuto l’attentato.

Va ricordato che la strage dell’Italicus seguì di poco più di due mesi quella di piazza della Loggia, a Brescia (si veda il post Strage di piazza della Loggia ). Quella piazza bresciana era gremita a causa di una manifestazione contro il terrorismo neofascista – in particolare in relazione alla strage neofascista di piazza Fontana del 12 dicembre del 1969 (l’abbiamo ricordata qui) -,  indetta dai sindacati e dal Comitato Antifascista. Otto persone avevano perso la vita in piazza della Loggia.

Dieci anni dopo, proprio nella Grande Galleria dell’Appennino, prima di entrare nella quale era esploso l’Italicus, scoppiò una bomba sul Rapido 904.

La strage del Rapido 904, del 23 dicembre 1984 (l’abbiamo ricordata qui), uccise 15 persone e ne ferì 267. Un’altra strage senza colpevoli, ma che, come quelle di piazza Fontana, piazza della Loggia, dell’Italicus e di Bologna, per non citare che le maggiori, rientrava nella prospettiva della “strategia della tensione”, creare cioè nel Paese una tensione tale da rendere “necessario” un intervento di tipo autoritario.

Un solo fascio di luce, all’interno dell’ oscura vicenda dell’Italicus che, con le altre stragi, ha segnato la storia del nostro Paese, si intravede nel gesto coraggioso del conduttore dell’Italicus: Silver Sirotti, infatti, affrontò le fiamme nel tentativo di salvare i passeggeri rimasti sul mezzo. Perse la vita, ma la Repubblica lo riconobbe degno della Medaglia d’oro al valor civile.

Alessio Gaggero e Alberto Quattrocolo

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Bologna, sabato 2 agosto 1980, 10:25.

Della strage di Bologna si può senz’altro dire che è qualcosa di enorme. Lo è stata quell’esplosione, lo è il numero di vittime e di feriti, lo è la narrazione della sua storia e, soprattutto, lo è la sua complessità.

Il 2 agosto 1980, alle 10.25, esplose una bomba nella sala d’aspetto di seconda classe della stazione di Bologna. L’esplosione investì il treno che era in sosta al binario uno, interessò il tunnel sotto i binari e fece crollare l’ala sud-ovest della stazione. Le persone che persero la vita furono 85, più di 200 furono i feriti. Si trattò del più alto numero di vittime in un attentato nella storia del Paese.

L’attentato di Bologna del 1980 si distingue da tutti gli altri, al di là dei numeri, per l’impatto emotivo che ha avuto, e ha tuttora, sul nostro paese. Un impatto testimoniato da quell’orologio, fatto volontariamente fermare dai cittadini, a imperitura memoria di una ferita che ancora non si è rimarginata. E per ora non può farlo.

In quell’estate del 1980 molti italiani consideravano chiusa la stagione stragista, quella delle bombe in Italia, realizzata da organizzazioni terroristiche neofasciste, su mandato di personaggi ed entità mai definitivamente o completamente individuate. Una stagione inaugurata nel 1969 con la strage di Piazza Fontana (questa e altre analoghe stragi sono state ricordate su questa rubrica, Corsi e Ricorsi). Gli obbiettivi delle organizzazioni terroristiche rosse erano sempre stati singoli individui e sembrava che anche per quelle nere fosse ormai così: ad essere assassinati erano magistrati, intellettuali, giornalisti e politici.

La bomba del 2 agosto smentì amaramente questa convinzione.

Le indagini portarono all’eversione fascista, in particolare a investigare nei confronti dei N.A.R., Nuclei Armati Rivoluzionari (li abbiamo ricordati nei post Quel “no” di Maurizio ArnesanoBruno Caccia, l’unico magistrato assassinato al Nord dalle mafie e I Nuclei Armati Rivoluzionari assassinano Francesco Straullu 21 ottobre 1981), e dei suoi leader Valerio Fioravanti, detto Giusva, e Francesca Mambro, sua compagna. Il movente sembrò essere legato alla precedente strage del treno Italicus, avvenuta nella notte tra il 3 e 4 agosto 1974 (si veda questo post): il giudice istruttore di quest’ultima aveva depositato il rinvio a giudizio per i responsabili proprio l’1 agosto 1980. Il processo contro Giusva Fioravanti, Francesca Mambro ed altri individui legati all’ambiente neofascista iniziò a Bologna nel 1987. L’accusa era di costituzione di banda armata e strage, di associazione sovversiva e di calunnia aggravata. Tra gli indagati c’era anche Stefano delle Chiaie, nonché esponenti dei servizi segreti come Giuseppe Belmonte, Pietro Musumeli e Francesco Pazienza, oltre a Licio Gelli, gran maestro delle loggia massonica P2 (della quale abbiamo parlato nei post Il 23 settembre 1981 è istituita la Commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2Cirillo, la Camorra, le BR …Il giudice Minervini, un uomo abbastanza serio da non prendersi troppo sul serio). Come per le altre stragi anche per quella di Bologna furono poste in atto fortissime attività di depistaggio. L’obiettivo era a impedire l’individuazione degli autori materiali e dei mandanti, nonché insabbiare i moventi. Ad esempio, furono fatte delle false rivendicazioni telefoniche, alle redazioni dei principali quotidiani, da parte dei N.A.R. e delle Brigate Rosse. Erano fasulle e furono smentite dagli stessi gruppi terroristici. Successivamente, si scoprì che quelle chiamate erano partite da un’ufficio fiorentino del servizio segreto militare, il Sismi. Un altro tentativo di depistaggio tentò di indirizzare i magistrati verso presunti terroristi stranieri e neofascisti italiani latitanti all’estero. Non era che una macchinazione realizzata da una frangia deviata dei servizi segreti.

Dopo varie sentenze e colpi di scena, nel 1995, si giunse alla condanna all’ergastolo di Fioravanti e Mambro come esecutori materiali, che, però, si sono sempre dichiarati innocenti rispetto alla strage, riconoscendosi responsabili di molti altri omicidi. Nel 2007 la Corte di cassazione riconobbe la responsabilità anche di Luigi Ciavardini, anch’egli esecutore materiale. Furono condannati, con sentenza definitiva, per depistaggio delle indagini Licio GelliFrancesco Pazienza e gli ufficiali del Sismi Pietro Musomeli Giuseppe Belmonte. Restano, però, ancora molte ombre. Si sono succedute tante teorie e ulteriori testimonianze, con livelli diversi di attendibilità. Resta, quindi, una dose importante di mistero su questa strage che è quasi impossibile non inserire nel quadro della strategia della tensione.

L’Espresso, a fine luglio del 2018, pubblicò documenti inediti che parlavano del coinvolgimento dei Servizi segreti nella vicenda. In effetti, il 22 aprile 2014, il Governo Renzi aveva firmato la direttiva per la de-classificazione degli atti relativi a diversi “misteri d’Italia”, tra i quali, la strage di Bologna. Inoltre, la Procura generale del capoluogo emiliano aveva avviato una rogatoria in Svizzera a inizio 2018.

39 anni sono tanti per sapere la verità, anche in Italia. Viene da chiedersi quanto ancora dovremo aspettare per sapere come sono andate realmente le cose, in quei giorni. Quanto ancora dovrà attendere l’orologio della stazione, per poter ripartire? Quando sapremo quanto quella strage e coloro che la vollero hanno sotterraneamente inciso sulla vita politica e non solo di tutti noi.

Renato Zangheri, sindaco di Bologna, cinque giorni dopo la strage, tenne un discorso in piazza Maggiore. Tra le altre cose disse:

Corpi straziati chiedono giustizia, senza la quale sarebbe difficile salvare la Repubblica; chiedono pronta identificazione e condanna dei colpevoli di tutti i delitti che hanno macchiato l’Italia in questi anni; chiedono la sconfitta della sovversione, e le condizioni di una vita e di una democratica ordinata.
Incertezze e colpevoli deviazioni hanno subito le indagini da Piazza Fontana ad oggi.
Troppe interferenze e coperture sono state consentite.
Ora la sincerità del dolore e della condanna si misurano sui fatti ed esclusivamente su di essi, sulla volontà e sulla capacità politica e giudiziaria di far luce sulle trame eversive e sui delitti che si susseguono in un crescendo inaudito.
Non spetta a noi indicare le linee della politica nazionale, ma è certo che è necessaria una prospettiva politica di fermezza e di chiarezza, che raccolga il consenso del popolo.
E’ certo che coloro i quali hanno ricevuto le responsabilità di governo e parlamentari dal popolo, tutti coloro che esercitano funzioni pubbliche, dal popolo verranno giudicati per quello che faranno, con una vigilanza e sensibilità moltiplicate dall’angoscia di questi giorni e dalla gravità estrema del crimine che è stato commesso.
Ognuno dovrà compiere il proprio dovere, come l’hanno compiuto le donne e gli uomini accorsi alla stazione di Bologna nelle ore della strage, per soccorrere e salvare: semplici cittadini, personale sanitario, magistrati, dipendenti degli enti locali, ferrovieri, vigili del fuoco, militari, forze dell’ordine, e la moltitudine che è su questa piazza a raccogliere la sfida del terrorismo.
Grazie di essere venuti. Assieme non potremo essere sconfitti.
Il saluto alle vittime è in questo momento, signor Presidente della Repubblica, una promessa morale e politica di fedeltà alle ragioni del progresso umano ed è fiducia in una giustizia che non può fallire perché poggia sull’animo di grandi masse di donne e di uomini.
Così noi affermiamo oggi la nostra difficile speranza e chiediamo a tutti di combattere perché la vita prevalga sulla morte, il progresso sulla reazione, la libertà sulla tirannia”.

Alberto Quattrocolo e Alessio Gaggero

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