Siria, 21/08/2013, strage con armi chimiche

Dove, chi e quando.

Città di Damasco, Siria, mattina del 21 agosto 2013. Una guerra complessa infiamma il territorio siriano da circa due anni; agli opposti schieramenti iniziali (esercito governativo e armate ribelli) si è sovrapposto un intricato sistema di alleanze ad assetto variabile che in quella fase, semplificando molto la situazione sul campo, vede da un lato le truppe fedeli ad Assad unite agli Hezbollah libanesi e, dall’altro, forze distinte per obiettivi, idealità, strategie e sostegno del popolo quali l’Esercito Siriano Libero (ESL), diversi gruppi jihadisti e le Unità di Protezione Popolare (YPG) curde. Ogni fazione confliggente trova inoltre sostegno da parte di governi od organizzazioni straniere, che, in base ai propri interessi nell’area, forniscono supporto logistico, finanziamenti o armi, in modo più o meno clandestino.

Tra luglio e agosto 2013 l’esercito governativo guadagna terreno, riconquistando aree controllate dai ribelli, e muove su Damasco; il 21 agosto alcuni razzi centrano una zona residenziale di Jobar, che appartiene al governatorato di Damasco ma è attigua alle zone della Ghouta orientale in mano islamista. In quella stessa giornata, si inizia a parlare di attacco chimico: fonti vicine ai ribelli fanno riferimento a centinaia di persone decedute non per le conseguenze delle esplosioni, bensì per asfissia e avvelenamento da gas tossico. Le vittime, tra militari governativi, ribelli e popolazione civile, saranno in seguito stimate essere circa 1400.

 

La reazione internazionale

L’evento provoca una forte presa di posizione dell’ONU e di gran parte delle cancellerie internazionali, poiché l’allora presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, nel 2012 aveva posto come “linea rossa” per un intervento militare internazionale proprio l’utilizzo di armi chimiche.

La crisi siriana diventa internazionale: Stati Uniti e Unione Europea attribuiscono la responsabilità dei bombardamenti al governo siriano di Assad, mentre Russia e Iran si schierano al fianco di quest’ultimo, accusando i ribelli. Gli USA, appoggiati da Francia, Regno Unito e Turchia, prospettano un attacco missilistico contro le postazioni militari siriane, suscitando l’opposizione di buona parte dell’opinione pubblica e del Congresso americano, nonché di Russia e Cina presso l’ONU, oltre alle minacce iraniane di bombardare Israele per rappresaglia; si assiste a una massiccia mobilitazione della Marina statunitense nel Mediterraneo e nel Mar Nero: la tensione a livello internazionale è altissima, inducendo il Vaticano a prendere posizione contro il conflitto che si profila.

La diplomazia prende però il sopravvento e, all’incontro del G20 di San Pietroburgo, su proposta russa, il 14 settembre viene raggiunto un accordo che evita l’intervento armato in cambio della distruzione dell’arsenale chimico siriano, del libero accesso ai depositi di armi chimiche da parte dei funzionari ONU e dell’adesione del governo siriano alla Convenzione sulle armi chimiche.

Il 27 settembre viene votata all’unanimità all’ONU la Risoluzione 2118 che prevede la distruzione dell’arsenale chimico siriano: il 16 settembre era pervenuto al Segretario Generale Ban Ki-Moon il rapporto redatto dal Team indipendente delle Nazioni Unite, che aveva confermato che “armi chimiche sono state usate relativamente su larga scala nel conflitto tra le due parti in Siria, anche contro i civili” (valutazione cui era giunta anche l’organizzazione Human Rights Watch); gli ispettori dell’ONU avevano rilevato l’impiego di missili terra-terra contenenti gas sarin ma, coerentemente al mandato conferito, non si erano sbilanciati sulla provenienza dell’attacco.

In base al piano di smaltimento delle armi chimiche siriane, accettato dal governo di Damasco solo dopo le pressioni russe, circa 1300 tonnellate di agenti chimici vengono consegnate e distrutte. Secondo l’intellettuale siriano Yassin Haj Saleh, “si è trovato un accordo per una soluzione al problema dell’uso di armi chimiche e non al massacro compiuto con le armi chimiche. Non è stata trovata una soluzione al ‘problema’ dei siriani uccisi che fino a quel momento avevano già raggiunto i 100mila. Si è trovato un accordo che ha avuto un significato per la Russia, gli Usa e Israele. Non per i siriani”.

Rimane infatti controversa la questione della responsabilità del bombardamento di Jobar. Nell’immediatezza del fatto, gli ambasciatori presso l’ONU di Stati Uniti e Francia concordarono con il Ministro degli Esteri britannico nel ritenere che solo l’esercito regolare siriano avesse la capacità di sferrare un attacco con quelle caratteristiche; tuttavia, già pochi mesi dopo, analisti del MIT di Boston, sulla base del missile rudimentale rinvenuto dagli ispettori dell’ONU – di gittata non superiore ai due chilometri – e della mappa delle forze in campo nel periodo in questione, obiettarono che l’attacco dovesse necessariamente essere partito dalle aree controllate dai ribelli jihadisti.

Taluni, memori del precedente iracheno, hanno interpretato questa discordanza come una precisa volontà di parte dell’amministrazione USA, volta a far circolare informazioni false tali da indurre una rappresaglia internazionale punitiva contro Assad; altri hanno ipotizzato un coinvolgimento diretto della Turchia, mirato a ottenere lo stesso risultato.

 

A che punto siamo oggi?

Mentre gli schieramenti, sul campo di battaglia e nell’opinione pubblica internazionale, si moltiplicano, il conflitto ha ormai provocato circa 511 mila vittime, secondo gli ultimi dati dell’Osservatorio siriano per i diritti umani, e più di 5 milioni e mezzo di profughi e oltre 6 milioni di rifugiati interni secondo l’Alto commissariato ONU per i rifugiati. Secondo la Commissione internazionale indipendente d’inchiesta ONU sulla Siria, dal 2013 al 2018 sono stati almeno 34 gli interventi con gas tossici (l’ultimo il 7 aprile 2018 sulla città di Douma, alla periferia est di Damasco), della maggior parte dei quali Assad è ritenuto il responsabile. Human Rights Watch ne ha invece contati 85, di cui 50 collegati al regime siriano. La guerra siriana va avanti e, come è stato osservato, “è innanzitutto una guerra contro la verità”.

Silvia Boverini

Fonti:
www.wikipedia.org;
“Quello del 21 agosto in Siria fu un attacco con armi chimiche”, 17/09/2013, www.ilpost.it ;
“Attacco chimico in Siria: il MIT di Boston smentisce Obama”, 24/01/2014, www.rainews.it;
Shady Hamadi, “Siria, tre anni fa l’attacco chimico su Damasco: 1400 morti e nessun colpevole”, 22/08/2016, www.ilfattoquotidiano.it;
Laura Filios, “Guerra in Siria, la vergogna delle armi chimiche non risparmia nessuno”, 17/04/2018, www.osservatoriodiritti.it

Il 20 agosto del 1968 i carri armati sovietici soffocano la Primavera di Praga

Nella notte tra il 20 e il 21 agosto del 1968 i carri armati sovietici entrano a Praga, mettendo sanguinosamente fine al recente periodo di liberalizzazione. Questo aveva preso avvio il 5 gennaio dello stesso anno, quando il riformista slovacco Alexander Dubček salì al potere e, con una serie di riforme, concesse un decentramento parziale dell’economia e un allentamento delle restrizioni alla libertà di stampa e di movimento, nonché la riattivazione dei partiti non comunisti e delle organizzazioni di massa. Sostenne inoltre la divisione della Cecoslovacchia in due nazioni distinte: la Repubblica Ceca e la Repubblica Slovacca. Il tutto, vantando un ampio sostegno popolare.

Il Cremlino non vide di buon occhio tanta liberalizzazione, che rischiava di indebolire l’intero blocco orientale, spaccandolo, e di aprire la porta a quel cambiamento socioculturale che avrebbe portato alla fine del sogno comunista. Furono aperti lunghi negoziati tra i leader delle due fazioni, che, però, non ottennero i risultati sperati, quantomeno per la parte russa.

Preso atto dell’inutilità della diplomazia, l’unica soluzione disponibile era la repressione violenta di quello sprazzo di libertà che osava squarciare la cortina di ferro. Un’imponente armata varcò i confini di Praga in quella triste notte di agosto, spegnendo le speranze di emancipazione di coloro che avevano guidato il periodo di riforme, Dubček in testa. L’occupazione sovietica durò fino al 1990, grazie a un radicale cambio dirigenza, molto più gradita a Mosca.

A nulla valsero le proteste e rivolte della popolazione, che anzi subì più di un centinaio di perdite civili, non difese dalle potenze occidentali, congelate, per canto loro, dalla Guerra fredda in pieno svolgimento (abbiamo ricordato questi fatti anche nel post Jan Palach e la coscienza del popolo, sempre sulla rubrica Corsi e Ricorsi). Un triste effetto di tale repressione si riscontrò nel fenomeno migratorio: nei mesi successivi all’invasione, fino a 300.000 cittadini abbandonarono il paese, cercando luoghi più liberi dover poter sfruttare le proprie elevate qualifiche professionali.

Le vicende descritte si sono poste alla base di numerose opere letterarie e musicali, tra cui spicca L’insostenibile leggerezza dell’essere, di Milan Kundera, il quale, tra l’altro, espresse posizioni pro-riforma prima dell’inizio della Primavera.

Alessio Gaggero e Alberto Quattrocolo

Tentato colpo di stato a Mosca il 19 agosto 1991

Una dolce musica di accompagnamento

Chi si fosse trovato a sintonizzare la televisione sui tre canali nazionali, nelle prime ore del 19 agosto 1991 a Mosca, avrebbe potuto ascoltare un’unica composizione musicale (il Lago dei cigni di Čajkovskij) ripetuta in loop, circostanza che, in ogni epoca e latitudine, è in grado di evocare presagi sinistri.

Di buon mattino giunse l’annuncio ufficiale: ”In rapporto all’inabilità di Mikhail Serghievich Gorbaciov per motivi di salute di svolgere le sue funzioni come Presidente dell’URSS, ho assunto le funzioni di Presidente dell’URSS a partire dal 19 agosto sulla base dell’art. 127 della Costituzione dell’URSS. Gennadij I. Janaev, Vice­Presidente dell’URSS”; un comunicato successivo esplicitò che in alcune parti dell’URSS era stato imposto lo stato di emergenza e, allo scopo di dirigere il paese, era stato costituito un comitato, di cui facevano parte, tra gli altri, il Presidente del KGB Krjučkov, il Primo Ministro Pavlov, il Ministro dell’Interno Pugo, il Ministro della Difesa Jazov, il ”facente funzioni di Presidente dell’URSS, Janaev.

Il Presidente Gorbaciov, in Crimea per qualche giorno di riposo, risultava isolato e irraggiungibile, di fatto sequestrato nella dacia presidenziale con la moglie Raissa.

Tale evento si inseriva in una fase estremamente critica della storia sovietica: una crisi economica feroce, strutturale e di lungo periodo, che non poteva più essere tenuta nascosta proprio a causa dei processi di glaznost e perestrojka – trasparenza e ristrutturazione – introdotti dal Presidente Gorbaciov, aveva indebolito il potere centrale sia sul fronte internazionale sia su quello interno, favorendo il rinvigorirsi di istanze nazionaliste nelle repubbliche sovietiche, che, una dopo l’altra, si proclamavano indipendenti.

Era necessaria una firma

Il giorno dopo l’inizio del putsch, in quell’agosto 1991, al termine di lunghe e laboriose trattative e con l’avallo del 70% della popolazione consultata mediante referendum, era previsto che Gorbaciov firmasse il “Nuovo Trattato dell’Unione”, che avrebbe dovuto trasformare l’URSS in una federazione di repubbliche sovrane, ed era stato preceduto, alla fine di giugno, dallo scioglimento del COMECON (Consiglio per il mutuo aiuto economico) e del Patto di Varsavia (il patto politico che si affiancava al COMECON e teneva legata l’URSS ai cosiddetti “paesi satelliti”, in contrapposizione alla NATO).

Quella firma, se mai fosse avvenuta il 20 agosto, avrebbe forse potuto siglare un’intesa, oltre che tra i vari stati ex sovietici, anche tra due distinte visioni storico-politiche, incarnate da un lato da Mikhail Gorbaciov, Presidente dell’URSS e Segretario del PCUS, che ancora sperava di conservare lo status quo attraverso le riforme progressiste, e dall’altro lato da Boris Eltsin, Presidente della Russia, inviso alla nomenclatura del PCUS in quanto deciso sostenitore della forma federativa, della fine del centralismo sovietico e della sovrapposizione fra partito e Stato. Nei mesi precedenti, il dualismo di potere fra governo locale russo e centrale sovietico aveva generato un vuoto istituzionale in cui fecero breccia le trame golpiste contrarie al rinnovamento.

Nelle parole di uno dei testimoni degli eventi del 19 agosto, Gennadij Burbulis, all’epoca braccio destro di Eltsin, “fu subito chiaro che si trattava di un tentativo disperato di impedire la firma del trattato, prevista per il giorno dopo. Ma questa era l’unica cosa chiara. Gli americani che seguivano gli eventi sulla CNN sapevano quel che succedeva in Russia più di quel che ne sapevano i russi; i conduttori dei notiziari a Mosca si limitavano a leggere la dichiarazione rilasciata dagli autori del colpo di stato”.

Questi ultimi, tuttavia, apparvero da subito deboli nella comunicazione dei propri intenti e privi di carisma, e il previsto supporto popolare al putsch non vi fu: per due giorni Mosca fu capitale di uno spettacolo surreale, con carri armati per le strade che non sparavano, né intervenivano, mostrando una tacita solidarietà con i resistenti. Le piazze e le vie delle città più importanti si riempirono di persone che protestavano, bloccavano le forze armate, inscenavano manifestazioni spontanee.ù

La risposta

Eltsin prese in mano la situazione dalla Bely Dom (Casa Bianca), l’edificio del parlamento russo, denunciando con forza il colpo di stato: l’immagine del Presidente russo che sale su un carro armato con il megafono e arringa i manifestanti, ritrasmessa dai media di tutto il mondo, divenne un simbolo di grande efficacia e rafforzò enormemente la posizione di Eltsin.

Un assalto alla Casa Bianca moscovita, programmato dalle forze speciali del KGB, fu annullato quando le truppe si rifiutarono unanimemente di eseguire l’ordine; un’unità di carri armati disertò e si pose in difesa del parlamento con le armi puntate verso l’esterno. Ci furono confronti armati nelle strade vicine, e tre dimostranti furono uccisi, ma comunque la violenza fu sorprendentemente limitata. Il 21 agosto la grande maggioranza delle truppe spedite a Mosca si schierò con la resistenza e tolse l’assedio al Parlamento.

Gorbaciov venne liberato, il 22 agosto tornò nella capitale, ma il centro del potere era adesso la Casa Bianca con Eltsin, non più il Cremlino; naufragata ogni possibilità di un nuovo trattato dell’Unione, il 24 egli si dimise dalla carica di Segretario del PCUS: aveva “perso i comandi” della stessa URSS, che, agli occhi del mondo intero, rappresentava, mentre stava crescendo la popolarità di Eltsin, peraltro con il plauso di tutto l’Occidente.

Pochi giorni dopo fu sciolto il PCUS. Il 25 dicembre Gorbaciov rassegnò le dimissioni anche da presidente dell’URSS, la bandiera rossa sul Cremlino venne sostituita da quella della Federazione Russa e il 26 dicembre l’Unione Sovietica smise formalmente di esistere.

C’è un altro punto di vista

Se questa è la ricostruzione dei fatti più accreditata, non sono mancati storici e analisti insospettiti dalle incongruità di un colpo di stato conclusosi in tre giorni senza bagni di sangue, che finì per accelerare il processo di dissoluzione dell’URSS che si proponeva d’impedire, decretando la fine politica di Gorbaciov e accreditando Eltsin come difensore della democrazia.

Una chiave di lettura alternativa, suffragata da evidenze documentali e testimonianze dei protagonisti di quegli anni (comprese le memorie dello stesso Eltsin), bolla il putsch del 1991 come falso, ritenendolo una macchinazione inserita in un più vasto piano segreto dall’evocativo nome in codice di “Project Hammer”, volto ad accelerare il crollo politico ed economico dell’Urss e a saccheggiare le sue ricchezze finanziarie ed energetiche; l’operazione sarebbe stata architettata dall’amministrazione USA facente capo a George Bush senior, di concerto con la CIA, l’alta finanza statunitense e alcuni dirigenti del KGB, coinvolgendo lo stesso Eltsin.

Secondo tale ricostruzione, nei mesi precedenti il golpe sarebbero stati trafugati all’estero 3mila tonnellate d’oro (equivalenti a 35 miliardi di dollari dell’epoca) e 435 milioni di rubli del PCUS (pari a 240 miliardi di dollari): finanziariamente dissanguata, e destabilizzata dagli eventi di agosto, l’URSS non sarebbe stata in grado di difendersi dal successivo attacco speculativo contro il rublo cui venne sottoposta tra il 1991 e il 1992, che portò al collasso definitivo l’economia sovietica e consentì il saccheggio delle sue risorse, in particolare con le privatizzazioni del settore energetico (petrolio e gas) facente capo al colosso statale Gazprom; l’acquisizione fu operata da un gruppo di oligarchi russi protetti da Eltsin e legati, attraverso una complessa rete di banche e società appositamente create, agli ambienti finanziari che avevano preso parte al Project Hammer.

Se la verità storica di quegli eventi attende ancora una ricostruzione univoca, un preciso monito circa le conseguenze di essi viene dall’amara chiosa di Gennadij Burbulis, intervistato nel 2011: “La struttura di un edificio può collassare e l’anima di un’ideologia può essere messa da parte, ma il suo spirito sopravvive. Nella Russia odierna questo persiste nella rinata convinzione che Stalin fosse un grande leader, nella nostalgia per la stabilità e la potenza del periodo sovietico che è stata inventata a posteriori, nella xenofobia e nell’intolleranza, nella mancanza di rispetto per i diritti civili, nella crescente corruzione, nella mentalità da potenza imperialistica di alcuni nostri leader e di alcuni nostri cittadini. È questa la pericolosa eredità di quei tre giorni di agosto di 20 anni fa”.

 

Silvia Boverini

Fonti:

“Agosto 1991: l’ultimo atto dell’URSS”, www.inventati.org;
“Il colpo di stato che fece crollare l’Unione Sovietica”, 23/06/2011, www.ilpost.it;
www.wikipedia.org;
L. Balzarotti e B. Miccolupi, “19 agosto 1991, golpe a Mosca. Venticinque anni fa il colpo finale all’Unione Sovietica”, 19/08/2016, www.corriere.it;
M. Vignolo Gargini, “19 agosto 1991, golpe in Unione Sovietica”, 19/08/2011, www.marteau7927.wordpress.com;
Enrico Piovesana, “L’altra verità sul golpe di Mosca”, www.it.peacereporter.net;
G. Chiesa, “Da Mosca. Cronaca di un colpo di stato annunciato”, Laterza, 1995

Medici senza Frontiere evacua sei ospedali nello Yemen il 18/08/2016 per i bombardamenti

È il 18 agosto 2016: Medici senza Frontiere, una delle organizzazioni umanitarie più note al mondo, a seguito dell’ennesimo bombardamento “fuori controllo” che tre giorni prima aveva causato 19 morti e 24 feriti, tra cui pazienti e operatori volontari di un ospedale gestito dall’ONG nel nord dello Yemen, assume la decisione di evacuare il proprio staff da sei ospedali in quell’area. Tra ottobre 2015 e agosto 2016, il totale delle vittime negli ospedali supportati da MSF nel paese ammontava a 26, nel corso di quattro diversi bombardamenti aerei che non avrebbero mai dovuto colpire presidi sanitari, essendone stata fornita la precisa posizione ai responsabili militari di tutte le fazioni in conflitto.

Durissimo il comunicato con cui l’organizzazione motiva la decisione:

Negli ultimi 8 mesi, MSF ha incontrato esponenti di alto livello della coalizione a guida saudita in due occasioni a Riyadh, per garantire l’assistenza umanitaria e medica per gli yemeniti e per chiedere garanzie che gli attacchi contro gli ospedali sarebbero cessati. Ma i bombardamenti aerei sono comunque continuati,  nonostante MSF abbia sistematicamente condiviso con tutte le parti in conflitto le coordinate GPS degli ospedali in cui lavora. I rappresentanti della coalizione dichiarano ripetutamente di onorare il Diritto Internazionale Umanitario, ma questo attacco mostra che hanno fallito nel controllare l’uso della forza e nell’evitare gli attacchi contro ospedali pieni di pazienti. MSF non è né soddisfatta né rassicurata dalla dichiarazione della coalizione secondo cui questo attacco è stato un errore.

Data l’intensità dell’attuale offensiva e avendo perso fiducia nella capacità della coalizione di evitare questi attacchi letali, MSF ritiene che gli ospedali nei governatorati di Saada e Hajjah non siano sicuri né per i pazienti né per lo staff. La decisione di evacuare lo staff da un progetto, che in questo caso include ostetrici, pediatri, chirurghi e specialisti di pronto soccorso, non è mai presa alla leggera, ma in mancanza di garanzie credibili che le parti di un conflitto rispetteranno lo status di protezione delle strutture sanitarie, degli operatori sanitari e dei pazienti, possono non esserci alternative.”.

Dal novembre dello stesso anno, nonostante tutto, le attività di MSF nelle strutture in questione sono riprese.  Da allora, il conflitto in territorio yemenita non ha perso violenza, portando il paese e i suoi 28 milioni di abitanti alla catastrofe umanitaria, economica e sanitaria, nella sostanziale indifferenza della politica internazionale. La risoluzione 2216 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (2015) e i falliti colloqui di pace promossi dall’ONU in Kuwait nel 2016 non hanno potuto dirimere le questioni strategiche di controllo del territorio, che dal 2015 oppongono la coalizione di nove stati arabi sunniti guidata dall’Arabia Saudita ai ribelli houthi sostenuti dall’Iran; le questioni politiche s’intrecciano a immani interessi economici legati anche al commercio delle armi, condotto perlopiù illegalmente dalle principali democrazie occidentali (Italia compresa, visto che in questa guerra vengono utilizzate anche bombe prodotte in Italia, in violazione di una legge nazionale, la n.185/1990, che vieta l’esportazione di armi verso i paesi in conflitto armato come lo Yemen) in spregio alla regolamentazione sancita dai trattati internazionali in materia.

Nel silenzio della diplomazia ufficiale, cinquantasette ONG operanti nello Yemen si sono unite per chiedere alle Nazioni Unite di aprire un’inchiesta internazionale indipendente sugli abusi compiuti dalle diverse fazioni in violazione delle elementari regole umanitarie di guerra, come il reclutamento di bambini soldato, le strutture sanitarie trasformate in veri e propri bersagli o il bombardamento dei quartieri residenziali.

L’operazione militare “Tempesta decisiva” avviata nel marzo 2015, secondo le intenzioni dell’Arabia Saudita, promotrice del conflitto, avrebbe dovuto costituire un mezzo rapido ed efficace per affermare definitivamente la propria egemonia nell’area in funzione anti-iraniana, dopo un primo tentativo di imporre al paese un governo fantoccio per contenere i disordini seguiti al periodo delle c.d. “Primavere Arabe” tra il 2011 e il 2012;  i ribelli houthi, sciiti, fedeli all’ex presidente yemenita Ali Abdallah Saleh, fomentati e probabilmente armati dall’Iran, hanno tuttavia opposto una reazione militare più solida del previsto, occupando le capitali Sanaa e Aden e vaste parti del territorio; nel caos generato dalla guerra, non sono inoltre escluse infiltrazioni nel paese di gruppi armati jihadisti.

Nei territori controllati dai ribelli houthi, sono documentati arresti arbitrari, sparizioni forzate, processi irregolari a carico di presunti dissidenti con condanne pesanti, anche alla pena di morte.

Sul fronte opposto, l’esercito della coalizione di stati guidata dall’Arabia Saudita, tra i meglio armati al mondo, non si è fatto scrupolo di avvalersi di bombardamenti aerei ripetuti, che hanno distrutto città, strade e infrastrutture, compresi ospedali e aeroporti: ciò, unito all’embargo imposto dall’Arabia quale rappresaglia, ha sostanzialmente isolato la popolazione civile e impedito la circolazione di merci e aiuti, aprendo la strada a carestia (il 60% della popolazione soffre la fame, con 8 milioni di persone a rischio di morte per inedia, anche perché il conflitto ha annichilito pesca e agricoltura, pilastri dell’economia locale) e malattie endemiche (la più grande epidemia di colera mai registrata sul pianeta, con un milione di persone colpite); si calcola inoltre che diecimila yemeniti siano morti per il mancato accesso a cure mediche all’estero, vittime nascoste di un conflitto in cui “la malattia viene trasformata in un’arma”.

Incalcolabile è infatti il numero delle vittime dall’inizio del conflitto a oggi: secondo dati forniti nei primi mesi del 2018 dall’Ufficio dell’Alto commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite, dal marzo 2015 in Yemen erano stati uccisi almeno 5974 civili e ne sono stati feriti altri 9493, ma altre fonti parlavano di più di 8600 morti e quasi 50000 feriti. Ma nel 2019 il numero dei morti pare essere cresciuto ad oltre 10.000 e la situazione è ulteriormente peggiorata: tre civili ogni giorno vengono uccisi, in media una vittima ogni 8 ore. Inoltre la popolazione è costretta ad assistere ad ogni sorta di atrocità, tra stupri, anche a bambine di 8 anni, e altri insopportabili orrori.

L’Ufficio per il coordinamento degli aiuti umanitari delle Nazioni Unite (Ocha) ha dichiarato che oltre 20 milioni di persone, ossia l’80 per cento della popolazione yemenita, hanno bisogno di aiuti umanitari. In un rapporto pubblicato a gennaio, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati ha affermato che i profughi interni sono più di due milioni. Ma il paradosso nel 2019 è che mentre oltre 22 milioni di persone yemenite si trovano in una situazione di estremo bisogno di protezione e di aiuti umanitari, ogni mese almeno 7000 persone in fuga dal Corno d’Africa arrivano nello Yemen, anche solo per attraversare il Paese, con l’obiettivo di raggiungere i Paesi del Golfo, dove sperano di trovare lavoro e condizioni di vita dignitosa.

Silvia Boverini

Fonti:

www.medicisenzafrontiere.it;
Vijay Prashad, “Le vittime nascoste della guerra in Yemen”, 17/08/2017, www.internazionale.it; Pierre Haski, “Chi dirà basta alla guerra nello Yemen?”, 12/09/2017, www.internazionale.it;
Gwynne Dyer, “La guerra nello Yemen serve a punire l’Iran”, 30/03/2018, www.internazionale.it; Riccardo Noury, “Tre anni di guerra in Yemen grazie anche alle forniture di armi all’Arabia Saudita”, 26/03/2018, www.ilfattoquotidiano.it;
“La crisi in Yemen. 1000 giorni di disastri”, 20/12/2017, www.oxfamitalia.org

Terrore in Catalogna tra il 17 e il 18 agosto 2017

Sedici persone uccise, 140 ferite. Questo il bilancio della violenta corsa del Fiat Talento bianco che nella piena estate del 2017 percorse la celebre rambla della capitale catalana a tutta velocità. Nel conteggio rientrano anche il proprietario dell’auto usata da uno degli attentatori per darsi alla fuga dopo l’assalto e una donna aggredita durante la notte a Cambrils.

Sembra che, il giorno prima, un’esplosione avvenuta ad Alcanar, comune della Catalogna distante un paio d’ore di macchina da Barcellona, avesse costretto la cellula terroristica a cambiare il piano già elaborato: la Sagrada Familia sarebbe stato l’obiettivo dell’imam, a capo del gruppo, deceduto nella deflagrazione che rase al suolo il covo. I componenti rimasti optarono per la modalità poi messa in atto, a quanto pare molto differente dall’originale: il centinaio di bombole di vari gas ritrovati in quel che rimaneva della casa, indussero a pensare a un altro tipo di attacco, probabilmente più letale.

Un repentino cambio di rotta, dunque, che tuttavia non impedì ai jihadisti di spargere terrore nella capitale catalana, e non solo, pur privi della mente del piano. ISIS poi rivendicò, tramite Amaq News Agency, la vera matrice dell’attacco, perciò legato al sedicente stato islamico.

 

Tornando ai fatti, il guidatore, dopo essersi schiantato, scende dal veicolo e fugge nella Boqueria, il mercato coperto a pochi passi dalla rambla. Si mescola nella folla e svanisce. Se ne ritrova traccia quando commette il quattordicesimo omicidio, quello che gli servirà per fuggire dalla capitale: si macchia dell’orrendo crimine per appropriarsi di una Ford Focus Bianca in zona universitaria, dunque piuttosto lontano dal luogo dell’attentato. Accoltella il proprietario, lo spinge dentro la macchina e si mette al volante, per scomparire nel traffico. Ricompare all’altezza dell’Avinguda diagonal, dove sperona un posto di blocco delle forze dell’ordine, ferendo un agente. Appena uscito da Barcellona, poi, abbandona il veicolo a Sant Just Desvern e continua la fuga a piedi, facendo perdere le sue tracce. Ci vorranno quattro giorni per trovarlo, a cinquanta chilometri dalla strada che l’ha reso famigerato. Nel tentativo di catturarlo, i Mossos d’Esquadra saranno costretti ad ucciderlo.

Younes Abouyaaqoub, questo il nome, è solo uno degli attentatori: altri tre furono arrestati a Ripoll, paese di competenza dell’imam di cui sopra, e uno ad Alcanar, dopo essere sopravvissuto all’esplosione. In cinque persero invece la vita a Cambrils, nella notte tra il 17 e il 18 agosto: dopo aver comprato delle armi da taglio in un negozio della stessa città, tentarono di travolgere, a bordo di un’Audi A3, i passanti in una zona pedonale; bloccati dalla polizia, scesero dall’auto, assalendo chiunque capitasse a tiro, finché un agente non aprì il fuoco.

Alessio Gaggero

Viene ritrovato il cadavere di Matteotti il 16 agosto del 1924

Io, il mio discorso l’ho fatto. Ora voi preparate il discorso funebre per me.”.

Così, consapevole dei rischi a cui si esponeva, mormorò il deputato Giacomo Matteotti detto “Tempesta” dai compagni del Partito Socialista Unitario, al termine del famoso discorso da lui tenuto alla Camera dei Deputati il 30 maggio 1924, con il quale aveva contestato la correttezza delle elezioni tenutesi in aprile: denunciando violenze e abusi da parte del Partito Nazionale Fascista, al governo dalla fine di ottobre del 1922, in seguito alla marcia su Roma (lo abbiamo ricordato, su questa rubrica, Corsi e Ricorsi, nel post Il 31 ottobre 1922 si insediò il primo governo Mussolini), Matteotti aveva messo in discussione la libera formazione del consenso del popolo e, conseguentemente, la stessa legittimità del Parlamento formalmente scaturito dalle urne.

Nessun elettore italiano si è trovato libero di decidere con la sua volontà. […] Vi è una milizia armata, composta di cittadini di un solo Partito, la quale ha il compito dichiarato di sostenere un determinato Governo con la forza, anche se ad esso il consenso mancasse”.

Voi che oggi avete in mano il potere e la forza, voi che vantate la vostra potenza, dovreste meglio di tutti gli altri essere in grado di far osservare la legge da parte di tutti. […] Noi deploriamo invece che si voglia dimostrare che solo il nostro popolo nel mondo non sa reggersi da sé e deve essere governato con la forza. Molto danno avevano fatto le dominazioni straniere. Ma il nostro popolo stava risollevandosi ed educandosi, anche con l’opera nostra. Voi volete ricacciarci indietro. Noi difendiamo la libera sovranità del popolo italiano […] domandando il rinvio delle elezioni inficiate dalla violenza alla Giunta delle elezioni.”.

Rapito sotto casa il 10 giugno, il deputato sarà ritrovato cadavere, con segni di percosse e ferite da coltello, solo il 16 agosto, seppellito malamente nel bosco della Quartarella, una ventina di chilometri fuori Roma; mentre Mussolini in persona ordina che il funerale si tenga al paese natio di Matteotti (Fratta Polesine), lontano dallo sguardo dell’opinione pubblica, la vedova chiede pubblicamente che alle esequie non si presentino esponenti del PNF o della Milizia Fascista.

Nei due mesi intercorsi tra la scomparsa e il ritrovamento del corpo, infatti, l’accaduto era apparso da subito chiaro, se non dimostrabile nei dettagli, almeno nelle linee generali.

Le indagini condotte dai magistrati Tancredi e del Giudice si avviano pochi giorni dopo il rapimento e, grazie anche a testimoni, i cinque rapitori, membri della polizia politica facenti capo ad Amerigo Dumini, sono identificati e arrestati, ma l’accertamento della verità subisce rallentamenti e depistaggi.

I socialisti unitari vicini a Filippo Turati accusano il governo e il 26 giugno tutti i rappresentanti dell’opposizione decidono di abbandonare i lavori del Parlamento fino a quando non sia fatta chiarezza (abbiamo ricordato la secessione dell’Aventino nel post Dall’Aventino alla dittatura); l’atteso intervento dirimente da parte di casa Savoia non avviene, bensì l’8 luglio il governo fascista, approfittando dell’assenza dell’opposizione, vara nuovi regolamenti restrittivi della libertà di stampa.

I tre procedimenti giudiziari sull’accaduto (l’ultimo nell’immediato dopoguerra) non riescono a dimostrare una responsabilità penale personale e diretta di Benito Mussolini quale mandante dell’omicidio; questi, se inizialmente sembra subire un certo isolamento in conseguenza del diffondersi di una vox populi colpevolista nei suoi riguardi (che lo indurrà a recuperare consenso scaricando i personaggi di spicco direttamente o indirettamente implicati nelle indagini), pochi mesi dopo arriverà a rivendicarne con sprezzo la responsabilità politica, nel famoso discorso del 3 gennaio 1925, con cui convenzionalmente si fa iniziare la fase dittatoriale del fascismo, sancita, pochi giorni dopo, dall’approvazione pressoché senza dibattito del famoso pacchetto di provvedimenti autoritari e repressivi, noti come “leggi fascistissime” (le abbiamo ricordate nel post Le prime leggi fascistissime).

Se l’ascesa della dittatura fu terreno fertile per il delitto Matteotti, è opinione corrente in storiografia che il movente non possa essere ascritto unicamente al conflitto di idealità contrapposte, che pure i due principali protagonisti incarnavano.

Vi sarebbe infatti una ragione assai meno nobile per quell’omicidio, riconducibile al dossier che Matteotti avrebbe dovuto presentare alla Camera il giorno successivo alla sua scomparsa: il deputato, avvalendosi di fonti italiane e inglesi, aveva documentato il pagamento di cospicue tangenti da parte della compagnia petrolifera statunitense Sinclair Oil – sostenuta economicamente dai principali gruppi finanziari di New York – per ottenere a condizioni assai vantaggiose concessioni di esclusiva e sfruttamento dei giacimenti in Emilia e Sicilia e tutelare i propri interessi in Libia; tra i destinatari della corruzione, il fratello di Benito Mussolini, Arnaldo, membri della famiglia reale, ministri, imprenditori e diplomatici che, agendo in conflitto d’interessi, più che il bene della nazione – di cui al regime piaceva dirsi difensore – rappresentavano imprese commerciali e gruppi finanziari italiani e statunitensi.

Gli accordi con la Sinclair Oil furono cancellati nel novembre 1924, ma il collegamento tra il delitto Matteotti e la corruzione del regime fu sostenuto a gran voce dalla stampa del Regno Unito, soprattutto quella vicina agli ambienti laburisti: il dossier scomparve con la borsa del deputato, ma un suo scritto in proposito fu pubblicato postumo da una rivista inglese. Negli anni Ottanta, inoltre, fu rinvenuta nell’Archivio Nazionale di Washington una lettera-testamento, da pubblicarsi in caso di omicidio del suo autore, inviata a legali statunitensi dall’ex sicario di regime Amerigo Dumini: condannato per il delitto (amnistiato nel dopoguerra), caduto in disgrazia e temendo per la propria vita, questi ammetteva di aver ricevuto l’ordine di uccidere Matteotti per impedirgli di denunciare in Parlamento la vicenda della Sinclair Oil, ma riuscì a barattare il proprio silenzio con denaro e garanzie d’incolumità personale.

Silvia Boverini

Fonti:

Enzo Biagi, Storia del Fascismo, Sadea Della Volpe Editori, 1964;
Renzo De Felice, Mussolini il fascista, I, La conquista del potere. 1921-1925, Einaudi, 1966;
Il Ponte, anno XLII, n.2, marzo-aprile 1986, pp. 76-93; www.pochestorie.corriere.it  Silvia Morosi e Paolo Rastelli, Giacomo Matteotti, morte di un antifascista;
www.rassegna.it  Ilaria Romeo, Delitto Matteotti, l’inizio del regime; www.wikipedia.org

Il 15 agosto 2017 Trump cambia idea su Charlottesville. Ancora.

Questa storia inizia con una statua. A Charlottesville, Virginia, si erge un monumento in bronzo che ritrae un uomo a cavallo: si tratta del Generale Robert Edward Lee, una leggenda della Guerra di secessione americana, che guidò l’esercito confederato a vittorie impensabili.

Nel marzo 2016, inizia la disputa politico-sociale sull’opportunità di rimuovere la statua stessa: da un lato, chi sostiene che la presenza del Generale (confederato, quindi sudista, quindi schiavista, quindi razzista, per farla molto molto breve) sia poco rispettosa di una parte della comunità, dunque da eliminare; dall’altro, chi lo ritiene un importante pezzo di storia americana, dunque da conservare. La dialettica prosegue sino alla prima manifestazione anti-rimozione, organizzata da alcuni suprematismi bianchi nel maggio 2017, e alla silenziosa veglia di risposta del giorno successivo. Il mese seguente, il Ku Klux Klan (KKK) realizza un ulteriore raduno di protesta per la decisione del comune di Charlottesville, cui partecipano 50 membri, affrontati, però, da centinaia di contro manifestanti: si giunge allo scontro e a una ventina di arresti.

Arriviamo quindi ai fatti che porteranno alle controverse dichiarazioni del Presidente americano. Il 12 agosto scendono in piazza migliaia di persone in difesa del primo emendamento, che tutela la libertà di espressione, riunendo gruppi di estrema destra, suprematisti bianchi, neonazisti e KKK. Altri scontri con un contemporaneo corteo antirazzista costringono le forze dell’ordine a intervenire, disperdendo parte della folla. Nella relativa quiete che ne segue, irrompe un’auto lanciata contro un folto gruppo di persone ancora in strada, ferendone trenta e causando la morte di una donna.

Il giorno stesso, Trump ha condannato la violenza dell’atto via Twitter, non facendo tuttavia alcun riferimento al colore politico dei manifestanti, attirandosi così numerose critiche da chi gli chiedeva una posizione più netta.

We ALL must be united & condemn all that hate stands for. There is no place for this kind of violence in America. Lets come together as one!

Diverse ore più tardi, la Casa Bianca ha precisato che le parole del presidente erano rivolte anche a suprematisti bianchi, neonazisti, KKK e a tutti i gruppi estremisti. Ciò non ha evitato i riferimenti all’elettorato di Trump, che, notoriamente, conta molti sostenitori tra le fila del movimento per il potere bianco.

Il 14 agosto, un po’ a sorpresa e forse spinto dalle dure condanne arrivate anche dal proprio partito, il magnate newyorkese si è espresso apertamente anche nei confronti dei suddetti gruppi:

Il razzismo e l’odio non hanno spazio negli Stati Uniti […] il razzismo è il male. Coloro che hanno causato violenza nel nome del razzismo sono criminali e delinquenti, inclusi il K.K.K., i neonazisti, i suprematisti bianchi e gli altri gruppi dell’odio che sono ripugnanti per tutto quello in cui crediamo in quanto americani. Come ho già detto sabato, non c’è spazio in America per l’odio e l’intolleranza e come ho detto molte volte, non importa il colore della pelle, perché noi viviamo sotto la stessa legge, la stessa bandiera e siamo stati tutti creati dallo stesso dio onnipotente. Siamo uguali di fronte a Dio, alla legge e alla Costituzione.

Poi, il 15, la retromarcia:

A Charlottesville la colpa è di entrambi le parti. […] I gruppi di sinistra sono molto molto violenti. […] Questa settimana vogliono rimuovere le statue di Lee. Poi, Stonewall Jackson. Poi toccherà a George Washington? George Washington era un proprietario di schiavi. Dobbiamo abbattere le statue di George Washington?

Non gli si può certo contestare di essere una persona che non si mette in discussione. O forse no?

Alessio Gaggero

Quando il contingente italiano partecipò al corpo di spedizione in Cina e si diede a violenze e razzie

Un evento da piè di pagina dei libri di storia ma che la dice lunga sul colonialismo di ieri e di oggi.

Il 14 agosto del 1900 il “corpo di liberazione” giapponese, americano, tedesco, francese, russo, inglese e italiano, con un attacco preceduto dal fuoco dei cannoni, liberò il quartiere delle legazioni di Pechino, da 55 giorni posto sotto assedio dai rivoltosi boxer (con l’appoggio di alcuni reparti dell’esercito imperiale e il tacito assenso dell’imperatrice Tsu-hsi).

I boxer (chiamati così dagli occidentali, poiché il loro nome in cinese, yiehetuan, significava “i pugni della giustizia e della concordia”) erano carrettieri, braccianti, artigiani, ex soldati, che guardavano con orrore agli insediamenti stranieri, che con le loro novità tecniche e industriali (navi a vapore sulle vie fluviali, fabbriche tessili, telegrafi e ferrovie) toglievano loro lavoro, gettandoli nella miseria, e ai missionari cattolici e protestanti (stranieri, anch’essi, ovviamente), che intendevano modificarne valori e costumi[1].

In Cina la dinastia manciù era in piena decadenza e molte potenze straniere tentavano di strappare, e per lo più ci riuscivano, concessioni territoriali, appalti, zone di influenza. In breve, la Cina stava per fare la stessa fine dell’Africa, visto che a fine ‘800 vi erano già 62 insediamenti stranieri.

La rivolta dei boxer del giugno del 1900 offrì un formidabile alibi ai governi europei, russi, americani e giapponesi per lanciarsi alla spartizione del bottino cinese.

Così alla fine di luglio del 1900, partivano dai rispettivi porti, contingenti militari russi, americani, giapponesi, tedeschi, austriaci, francesi e italiani: 20.000 in tutto. Costituivano un unico corpo di spedizione, diretto a Pechino dove dall’inizio di giugno 473 stranieri, protetti da 451 militari erano assediati da migliaia di boxer.

Si tratta di un evento da nota a piè di pagina nei libri di storia. Però, significativo ancora oggi. E illustrativo di come negli ultimi 119 anni assai poco siano cambiati i modi per mascherare il colonialismo e la rapacità e il razzismo latente che lo sottendono[2].

Anche allora il risvolto di dominazione e rapina colonialista era ben noto

Partirono, quindi, anche dei soldati italiani, per decisione del governo presieduto dal conservatore Giuseppe Saracco.

Che si trattasse di una scelta colonialista e che in Cina fosse in atto da tempo un tentativo di dominazione diretta e indiretta delle potenze straniere era un fatto noto a tutti, o almeno a tutti coloro che volevano vedere e sapere.

Il deputato repubblicano Napoleone Colayanni, ad esempio, si era rivolto al Governo con queste parole:

«Che direste voi se domani uno straniero esclamasse: “Mi piace il porto di Messina” e se lo prendesse? E poi facesse altrettanto con Napoli? Gli europei hanno operato così in Cina!»

 

Con la scusa di andare proteggere il sacro diritto delle genti e dell’umanità calpestata…

Proprio da Napoli si imbarca il contingente italiano il 19 luglio: Re Umberto I, dieci giorni prima di essere assassinato dall’anarchico Gaetano Bresci, lo saluta affermando che quei 1882 soldati e 83 ufficiali italiani sono inviati a difendere «il sacro diritto delle genti e dell’umanità calpestata», tenendo «alto il prestigio dell’esercito italiano e l’onore del nostro Paese»[3].

L’inviato del Corriere della Sera Luigi Barzini raccontava subito come veniva tenuto alto l’onore degli eserciti e dei Paesi della spedizione: Tianjin, la più importante metropoli del Nord della Cina, era stata rasa al suolo dai cannoni e le acque del suo fiume, Pei-ho, rese putride dai cadaveri di boxer e civili. Vi sono poi rappresaglie ai danni di città di più piccole dimensioni, la cui popolazione vede le proprie case incendiate con sistematicità, dopo essere stata razziata di ogni avere dai militari del contingente internazionale, che hanno anche distribuito generose dosi di violenze gratuite e proceduto a liquidazioni sommarie.

Carneficine, violenze e saccheggi indiscriminati del contingente internazionale dietro la retorica e gli slogan sulla difesa della civiltà.

È subito dopo la liberazione degli assediati a Pechino, però, che il corpo di spedizione dà il peggio di sé. Vengono realizzati una carneficina e un saccheggio di tali proporzioni da far sbiadire il ricordo delle violenze commesse dai boxer. Migliaia di uomini sono trucidati, le donne stuprate, famiglie intere si suicidano per non sopravvivere al disonore[4].

Il generale Chafffee riferiva ai giornalisti che dopo la liberazione del quartiere delle legazioni, «per ogni boxer che è stato ucciso sono stati trucidati 15 innocenti portatori o braccianti, compresi non poche donne e bambini».

L’intramontabile, profondamente falso, mito autoassolutorio degli “italiani brava gente”

Come sempre i commentatori italiani, incluso l’inviato del Corriere tentavano di esaltare il carattere mite, pacifico, buono dell’italiano in divisa. In realtà, i soldati italiani si erano lasciati andare a rapine e decapitazioni sommarie esattamente come i soldati tedeschi, francesi, austriaci, ecc.

«La sola differenza con i soldati degli altri contingenti era che questi ultimi non avevano il problema di apparire “brava gente”», ha affermato lo storico Angelo Del Boca in “Italiani, brava gente?” (Neri Pozza Editore, 2005), testo cui si è ampiamente attinto per scrivere questo post e altri, sempre su questa rubrica, Corsi e Ricorsi, nei quali si ricordano le nefandezze e gli orrori commessi nelle imprese coloniali italiane.

 

Alberto Quattrocolo

[1] Il tenente colonello Salsa del contingente italiano scriveva alla madre che la principale causa della rivolta era costituita dall’intolleranza e dagli intrighi dei missionari, intenti a perseguire fini politici e terreni anziché religiosi.

[2] Il fatto, invero, sarebbe finito presto nel dimenticatoio per la stragrande maggioranza delle persone – mescolato e soverchiato nel ricordo dagli eventi della Prima Guerra Mondiale, che quattordici anni dopo avrebbero cambiato per sempre la faccia del mondo e la vita di milioni di persone – se a ripescarlo dall’oblio non avesse provveduto un romanzo di buon successo e un kolossal cinematografico, da quello tratto, di ottima resa commerciale: 55 giorni a Pechino (1963, di Nicholas Ray). Il film, girato in Spagna e prodotto dal statunitense Samuel Bronston, era di quelli che gli spettatori torinesi dell’epoca chiamavano “filmoni”, vale a dire: sceneggiature tratte da best sellers o classici della letteratura, spettacolarità magniloquente, scene di battaglia con un’immensità di comparse, scenografie sontuose, intrecci complessi, superstar nei ruoli principali (qui Charlton Heston, Ava Gardner e David Niven) e attori eccellenti, veterani di Hollywood o del cinema inglese, nei ruoli di contorno (Flora Robson, Paul Lukas, e Leo Genn), insieme ad attori già saldamente piantati in ruoli importanti nel cinema americano a basso budget o nelle produzioni europee (John Ireland e Jacques Sernas, in questo caso, ad esempio) ed emergenti nelle cinematografie nazionali (tra gli italiani, oltre a Massimo Serato figura tra i volti noti anche un giovane Philippe Leroy, che i telespettatori italiani  degli anni ’70 ameranno nel ruolo dell’astuto e sornione Yanez, inseparabile sodale di Sandokan). A dirigere il tutto talora era posto un regista di solido mestiere altre volte un autore. 55 giorni a Pechino rientra nella seconda casistica: il regista era Nicholas Ray, autore di molte opere di “rottura”, divenute cult e, talora, assai redditizie sul mercato cinematografico, come Gioventù bruciata, Johnny Guitar, Il paradiso dei barbari, Dietro lo specchio, Neve rossa e diversi altri titoli dalla forte impronta personale, pur inseriti in generi precisi e consolidati: noir, western, bellico…

[3] Il suo successore, Vittorio Emanuele III, in una lettera del 9 settembre di quell’anno indirizzata al generale Osio, scriverà il suo disaccordo sulla spedizione cinese, concludendo che in Cina «non si deve creare una Seconda Africa».

[4] M. Bastide, M. C. Bergère e J. Chesneaux, La Cina, Vol. II, Einaudi, 1974, p. 118

Iniziano i lavori di costruzione del muro di Berlino. È il 13 agosto 1961

La cortina di ferro che si materializza. Potremmo descrivere così quel tristemente noto muro che costò la vita ad almeno 133 persone tra il 1961 e l’89. Una demarcazione netta tra due visioni, due politiche, due mondi. Occidente e oriente, se vogliamo essere approssimativi. Comunismo e capitalismo. USA e URSS. E non solo, ovviamente.

Finita la seconda guerra mondiale la città di Berlino si trovava nel cuore di quella parte della Germania che era stata occupata dalle forze armate dell’Unione Sovietica. Erano stati i russi, infatti, che, dopo aver ricacciato fuori dai confini sovietici le armate di Hitler e di Mussolini che l’avevano invasa, a partire dall’Operazione Barbarossa, avviata il 22 giugno 1941 (l’abbiamo ricordata su questa rubrica, nel post L’abominevole Operazione Barbarossa), avevano incalzato le truppe tedesche fino a Berlino, arrivandoci prima delle forze anglo-francesi. Queste, sbarcate sulle coste italiane nell’estate del 1943, tra il 9 e il 10 luglio in Sicilia (si veda questo post ) e due mesi dopo aSalerno (l’abbiamo rievocato in questo post), erano state fermate dai nazi-fascisti lungo la cosiddetta Linea Gotica. Ma un anno dopo, il 6 giugno del 1944, avevano compiuto il determinante sbarco in Normandia (vi abbiamo dedicato il post Gli amici del 6 giugno). Dalle spiagge della Francia settentrionale, gli angolo-americani avevano preceduto alla liberazione dell’Europa Occidentale, che da cinque anni le truppe naziste avevano occupato. Ma l’avanzata verso la Germania era stata ostacolata dal fallimento di alcune operazioni – a partire dal disastro sanguinoso dell’Operazione Market Garden (si veda il post Il 17 settembre 1944 scatta la fallimentare operazione Market Garden) – e dal contrattacco tedesco alla fine del ’44 nelle Ardenne. Americani ed inglesi quindi, giunsero a Berlinoquando le armate di Stalin avevano appena vinto la battaglia di Berlino.

Conclusa la Seconda Guerra MondialeBerlino era divisa in quattro settori, ciascuno dei quali amministrato da Stati UnitiGran Bretagna, Francia e Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Il progetto iniziale di un’amministrazione congiunta tra queste quattro potenze fu, però, sgretolato dal passaggio della comune guerra contro il nazifascismo alla guerra tra l’Ovest capitalista e l’Est comunista, la cosiddetta Guerra Fredda. Per la prima volta il 24 giugno del 1948 la possibilità che si arrivasse ad un confronto militare tra USA e URSS era parsa orribilmente concreta (l’abbiamo ricordato nel post Il blocco di Berlino). Poi, la situazione si era stabilizzata in una condizione di tensione costantemente elevata.

I confini servono, come tanti strumenti umani, a facilitarci l’esistenza. Se sappiamo dove finisce lo spazio dell’uno e inizia quello dell’altro, e rispettiamo le volontà reciproche, il rischio di farsi male è minimo e non vi è bisogno di elevare barriere protettive. I muri si innalzano quando si ha paura: paura di perdere qualcosa, ad esempio. La DDR, e l’URSS più in generale, temeva forse di perdere la battaglia ideologica col nemico americano, che appariva così sfavillante agli occhi di chi viveva nella povertà della Germania Est. Così pensò di tenere legati a sé uomini e donne, un tempo liberi, che forse avrebbero preferito fuggire.

Certo, avevano ancora la libertà di affrontare i fucili dei soldati posti a guardia della striscia della morte: il muro, infatti, non rimase per sempre un semplice muro, ma diventò una voragine pronta ad inghiottire i più temerari, o i più disperati. La notte tra il 12 e il 13 agosto 1961 furono posati i primi metri di filo spinato, ma già dopo un paio di giorni arrivarono le forme di cemento, e Berlino Ovest diventò anche fisicamente un’enclave sovietica: tutt’intorno, il territorio apparteneva alla Repubblica Democratica Tedesca, così come la parte orientale di Berlino; il resto della città era formalmente diviso tra Americani, Inglesi e Francesi, i quali conservavano la possibilità di scambi di uomini, merci e informazioni con i rispettivi territori di influenza lontani dalla capitale.

Dunque, il muro divideva, o meglio, isolava: 155 km di cemento giravano intorno a quell’atollo di occidente, terra emersa nel mare orientale. La striscia della morte si costituì, però, un anno più tardi, quando fu eretto un ulteriore muro, per rendere la fuga pressoché impossibile. Naturalmente, numerose case furono rase al suolo per far posto a quell’opera di capitale importanza, e i rispettivi abitanti si dovettero trasferire. Il perfezionamento di quel carcere a cielo aperto proseguì per molti anni, come a scandire il progressivo allontanamento dei due blocchi. Parlando di generazioni, siamo dunque giunti alla terza, che vide la luce nel 1965 e si caratterizzò per quel tubo posto in cima alle lastre di cemento, su cui i Berlinesi riuscirono a sedersi solo nel 1989. La quarta generazione preso avvio dieci anni dopo la precedente, e a quel punto la striscia della morte giustificava in pieno il proprio nome: recinzioni, fossati anticarro, cecchini appostati sulle torri di guardia, bunker e un camminamento illuminato tutt’intorno. Era davvero fondamentale non permettere ulteriori defezioni dall’idea di mondo che motivava i Russi e i loro alleati.

Un evento, inizialmente politico e militare, che ebbe enormi ricadute sulla società, berlinese e globale, non può non essere stato affrontato da letteratura, filmografia e da tutti gli strumenti a disposizione della società civile. Di questa profusione di contributi, fa piacere ricordarne due, forse non particolarmente rappresentativi, ma che danno conto delle emozioni e dei sentimenti che il muro indusse allora nelle persone che l’hanno, a vario titolo, affrontato: Il ponte delle spie, film girato nel 2015 da Steven Spielberg e interpretato da Tom Hanks; I giorni dell’eternità, romanzo di chiusura della Trilogia del Secolo di Ken Follett.

Alessio Gaggero

 

12/08/1944: l’eccidio di Sant’Anna di Stazzema

Non si trattò di una rappresaglia: l’eccidio di Sant’Anna di Stazzema, il secondo per numero di vittime nel corso della cruenta ritirata tedesca, fu pianificato al fine di terrorizzare la popolazione civile, coerentemente alla direttiva emanata nel giugno 1944 da Albert Kesselring, capo supremo dell’esercito germanico in Italia.

L’eccidio si compì in poche ore, dove non arrivarono i fucili mitragliatori provvide il fuoco. Non tutte le vittime poterono essere identificate, né fu possibile precisarne con sicurezza il numero: 560 quelle certe, tra cui 130 minori di quattordici anni, donne e anziani.

La motivazione ufficiale dell’azione tedesca fu che gli abitanti di Sant’Anna non avevano obbedito all’ordine di sgombero emanato dal Comando Germanico. Una direttiva emanata da Hitler il 2 giugno 1944 imponeva infatti che per una profondità di 10 chilometri, al di qua e al di là della linea gotica, il territorio fosse sgombro da ogni insediamento civile. I tedeschi, impegnati nella costruzione della linea difensiva che dal mar Tirreno, lungo l’Appennino, doveva arrivare all’Adriatico, rastrellavano gli uomini per impiegarli nelle opere di fortificazione.

Dalla fine del 1943 fino all’estate successiva, il piccolo paese di Sant’Anna, situato con le borgate limitrofe a mezza montagna e raggiungibile solo per mulattiera, aveva visto quadruplicare la propria popolazione per l’arrivo degli sfollati, in fuga dall’avanzamento del fronte bellico e dai bombardamenti anglo-americani che colpivano la costa e le città.

Nell’estate del ’44 la Wehrmacht aveva fermato lungo la linea dell’Arno l’avanzata alleata e le brigate partigiane operavano sabotaggi e attentati a danno dei tedeschi, i quali reagivano con pesantissime rappresaglie a danno della popolazione civile. Ne abbiamo parlato su questa rubrica, Corsi e Ricorsi, anche nel post 244 vittime nell’eccidio nazifascista di Civitella, Cornia e San Pancrazio.

Il 26 luglio il Comando Germanico affisse un manifesto sulla piazza della chiesa di Sant’Anna, ordinando a tutti gli abitanti di lasciare le abitazioni e trasferirsi altrove. Tuttavia da parte tedesca non ci fu un seguito di azioni coordinate di sgombero e le relative direttive caddero nel vuoto; per questo motivo, secondo la ricostruzione degli storici, il mancato ottemperamento, sebbene caldeggiato dalle brigate partigiane presenti in zona, non può essere considerato come uno dei motivi della strage.

All’alba del 12 agosto, tre reparti di SS, accompagnati da fascisti collaborazionisti in funzione di guide della zona, salirono a Sant’Anna, mentre un quarto reparto si attestò più a valle, per chiudere qualsiasi via di fuga.

Alle sette il paese era completamente circondato; la popolazione, pensando a un’operazione di rastrellamento, si divise: gli uomini scapparono nei boschi per evitare la deportazione, mentre vecchi, donne e bambini cercarono rifugio nelle proprie case.

Nel racconto dei pochi sopravvissuti, i nazisti inizialmente radunarono circa centocinquanta persone nel piazzale antistante la chiesa e aprirono il fuoco, per poi dare alle fiamme il cumulo dei corpi, tra cui vi erano ancora dei vivi. Altre SS rastrellarono i presenti casa per casa e attuarono meticolosamente l’eccidio, con armi da fuoco e bombe a mano, appiccando incendi, mitragliando chiunque tentasse di fuggire verso il bosco. A mezzogiorno tutte le piccole case di Sant’Anna bruciavano.

Le indagini sul massacro di Sant’Anna di Stazzema furono avviate subito, inizialmente condotte da inglesi e americani, ma una verità giudiziaria definitiva si fece attendere per più di cinquant’anni. Nel 1960, infatti, fu disposta l’archiviazione di circa 695 fascicoli riguardanti gli eccidi nazifascisti che in Italia avevano provocato più di quindicimila vittime. Nel 1994, durante il processo a Eric Priebke, nascosti in uno scantinato della procura militare in quello che verrà chiamato “l’armadio della vergogna”, furono rinvenuti i documenti archiviati, tra cui quelli relativi a Sant’Anna di Stazzema.

Cominciò quindi, per iniziativa soprattutto dell’allora procuratore militare di La Spezia Marco De Paolis, un lavoro di ricerca che portò nel 2004 al processo contro i responsabili ancora viventi dell’eccidio: la sentenza del Tribunale Militare di La Spezia, confermata in Appello e Cassazione, condannò all’ergastolo dieci ufficiali e sottufficiali che avevano partecipato all’azione, ma non poté mai essere applicata. Nel 2012 la procura di Stoccarda archiviò infatti l’inchiesta, dopo aver rifiutato l’estradizione delle ex SS, in base alla motivazione che non potesse essere dimostrata la partecipazione materiale dei singoli agli omicidi e che non era chiaro se l’attacco contro i civili fosse stato deciso in risposta alle azioni partigiane nella zona.

Se non per via giudiziaria, la memoria dell’eccidio, delle vittime e della lotta per la liberazione è stata preservata con il conferimento al Comune di Sant’Anna della medaglia d’oro al valor militare (1970), la creazione di un Museo Storico della Resistenza in loco e l’istituzione del Parco Nazionale della Pace (l. 381/2000), finalizzato a promuovere la collaborazione fra i popoli attraverso iniziative culturali a carattere internazionale.

Silvia Boverini

Fonti:
“Così venne premeditato l’eccidio di Sant’Anna di Stazzema”, Dino Messina, www.corriere.it ;
“12 agosto 1944: l’eccidio di Sant’Anna di Stazzema, www.infoaut.org ;
“Eccidio di Sant’Anna di Stazzema”, www.it.wikipedia.org ;
“Sant’Anna di Stazzema. Il Processo, La Storia, I Documenti”, Paolo Pezzino e Marco de Paolis, ed. Viella 2016.