Sorge la Repubblica partigiana della Val d’Ossola il 10 settembre del ’44

L’esperienza delle cosiddette “zone libere”, chiamate anche, a posteriori, repubbliche partigiane, espresse la capacità del movimento italiano di Liberazione di creare un’organizzazione politica di stampo democratico, fondata su precisi valori umani e civili.

Nell’estate del 1944, mentre le truppe tedesche incalzate dalle armate anglo-americane si ritiravano verso il Nord, in luoghi come Montefiorino, Alba, la Carnia, la Resistenza italiana inaugurò questa nuova tattica, che andò ad affiancare agitazioni di fabbrica, scioperi, sabotaggio e guerriglia nel complesso delle operazioni finalizzate alla liberazione della pianura Padana.

La vicenda della Val d’Ossola ebbe forse la maggiore risonanza per la vastità del territorio interessato (un’area di 1600 km², sei vallate, 32 Comuni e più di 80.000 abitanti), l’elevato indice demografico, il notevole livello di industrializzazione, e la collocazione geografica, che consentiva tanto di controllare il valico ferroviario e stradale del Sempione quanto di costituire per i tedeschi una potenziale minaccia sulla pianura padana tra Torino e Milano.

Secondo alcuni rapporti inviati al Comitato di Liberazione Nazionale per l’Alta Italia, già in luglio gli Alleati avevano elaborato il progetto di far occupare stabilmente la Val D’Ossola e la Valle d’Aosta da parte di formazioni partigiane, per assicurare “l’occupazione permanente” e attuare quindi “il piano di lotta schierata” contro i tedeschi. Il Comando alleato in seguito desistette per il progressivo consolidarsi delle truppe tedesche sulla linea Gotica e per ragioni politiche: nell’ambito della suddivisione dell’Europa nelle zone d’influenza anglo-americana e sovietica, da parte degli Alleati non si voleva un esercito partigiano italiano, ma semplici squadre di sabotatori e di disturbo alle spalle dei tedeschi.

Ma proprio nello stesso periodo, indipendentemente dalle intese fra gli Alleati e il CLNAI, nell’Ossola le formazioni partigiane delle divisioni “Valdossola”, “Valtoce”, e “Piave” riuscirono a liberare tutta la vallata dalla presenza nazi-fascista, entrando a Domodossola la mattina del 10 settembre 1944. I tedeschi opposero poca resistenza e gli scontri a fuoco in campo aperto con i fascisti durarono poche ore, mentre per riprendere il capoluogo venne stipulato un trattato di resa, che concedeva agli sconfitti l’onore delle armi e un ritiro in sicurezza; la trattativa, condotta dal solo nucleo partigiano dei c.d. Autonomi, produsse frizioni tra le diverse componenti politiche della Resistenza locale e comportò il mancato riconoscimento ufficiale da parte del CLNAI.

La popolazione esplose in festa e non si registrarono episodi di violenza o rappresaglia contro i fascisti locali, come annotato da A. Levi:

Questo rarissimo caso d’una guerra paesana che non degenera in una sciagurata sequela di violenze da ambo le parti, va segnalato, a mio avviso, come l’esempio della più difficile vittoria, di quella cioè, sopra i propri più istintivi sentimenti e risentimenti.”.

Gli storici hanno rilevato che, se è indubbio che le diverse formazioni partigiane locali siano state le artefici della nascita della Repubblica dell’Ossola, tale vicenda non può essere confinata ad un mero fatto d’armi. Immediatamente insediatasi, la Giunta provvisoria si dimostrò capace di organizzare, nel pur breve tempo della sua attività di governo, i rifornimenti essenziali per la popolazione, l’assistenza, la difesa militare, la polizia, l’ordinamento degli impieghi, le finanze, la scuola, la giustizia, con un’ampiezza di prospettive che permise di sperimentare un nuovo tipo di comunità nazionale. In quei giorni, in Val d’Ossola si trovarono riunite personalità politiche e culturali di grande rilievo come Umberto Terracini, Giancarlo Pajetta, Concetto Marchesi, Gianfranco Contini, Mario Bonfantini, Carlo Calcaterra, Franco Fortini, Aldo Aniasi, Andrea Cascella, che contribuirono ad apportare a quell’esperienza un respiro più vasto rispetto alle mere necessità contingenti.

Tra le prime iniziative vi fu l’apertura della frontiera con la vicina Svizzera, da cui giunsero numerosi giornalisti internazionali per testimoniare e raccogliere informazioni su quello che stava accadendo.

Furono anzitutto destituiti i podestà e i commissari prefettizi di nomina fascista e per la pubblica sicurezza fu creata una Guardia nazionale, reclutata fra i cittadini, costituendo inoltre delle commissioni di epurazione per allontanare i fascisti dai servizi pubblici. L’amministrazione della giustizia si ispirò a ideali di equità, legalità, imparzialità e libertà dell’individuo e ai circa 150 prigionieri politici fu garantito un trattamento corretto e umano.

Si organizzarono in tutta la valle il Fronte della Gioventù e i Gruppi di difesa della donna, cui aderirono tante donne anche senza partito; l’esponente comunista Gisella Floreanini fu per la Repubblica ossolana la prima donna ministro d’Italia, in un’epoca in cui i diritti politici attivi e passivi, compreso il voto, erano riservati agli uomini: “A me sembrò naturale, ma fu il giorno dopo, quando il segretario della giunta Umberto Terracini (poi padre dell’Assemblea Costituente) salutò ‘la compagna diventata ministro’ che colsi del tutto il fatto nuovo.”. La stampa, la vita sociale e culturale e la partecipazione attiva dei cittadini furono straordinariamente vivaci, e fu stilato un programma scolastico innovativo e all’avanguardia.

In materia di lavoro furono subito sciolti i sindacati fascisti e organizzati i nuovi sindacati, su base tripartitica comunista, socialista e cattolica, introducendo i principi della giusta retribuzione e del rispetto della dignità di ogni lavoratore. Sul piano economico la Giunta regolamentò il mercato dei generi di prima necessità, i prezzi e la distribuzione dei beni di largo consumo, avviò trattative commerciali con la Svizzera per scambiare prodotti minerari e industriali della valle con generi alimentari, oltre alle patate e alla farina che la Croce Rossa svizzera aveva inviato in dono. Particolare cura fu dedicata al servizio sanitario e all’assistenza agli indigenti, sia per la popolazione civile che per le unità partigiane, anche attraverso specifici accordi con la Svizzera che permisero in seguito, al momento della resa, di mettere in salvo centinaia di bambini ossolani.

Non mancarono le difficoltà, quali i difficili rapporti tra i comandi partigiani “autonomi” e i garibaldini o l’isolamento sostanziale da parte del CLNAI, che accusava il governo ossolano di eccessivo autonomismo e lamentava la preponderanza nella Giunta di elementi esterni al territorio.

Ma ciò che compromise maggiormente la difesa del territorio fu la mancanza di supporti economici, armi e munizioni, promessi ripetutamente dagli Alleati e mai pervenuti. Già dalla fine di settembre le forze nazi-fasciste iniziarono a riorganizzarsi, ammassando nella zona circa 13.000 uomini dotati di artiglierie e mezzi blindati, che il 10 ottobre scatenarono l’offensiva sul versante meridionale della Repubblica: la resistenza fu accanita, ma il 21 ottobre dovette cedere.

I bambini erano già stati evacuati in Svizzera, dove cercarono scampo anche migliaia di ossolani, molti partigiani e la Giunta; la II Divisione Garibaldi e la Beltrami riuscirono ad arretrare e mettersi in salvo per organizzare la ripresa partigiana già a partire dal mese successivo, ma l’esperienza della libera repubblica dell’Ossola era ormai conclusa.

Silvia Boverini

Fonti:
“La repubblica dell’utopia”, www.lastoriasiamonoi.rai.it;
www.wikipedia.org;
F. Frassati (a cura di), La Repubblica dell’Ossola, Comune di Domodossola;
www.1944-repubblichepartigiane.info;
www.anpi.it;
F. Rossi, “L’Italia della Resistenza: la repubblica dell’Ossola”, www.sconfinare.net;
G. Bocca, “Una repubblica partigiana. La Resistenza in Val d’Ossola”, il Saggiatore.

Gli alleati sbarcano a Salerno il 9 settembre 1943

L’8 settembre 1943 a Salerno era stata una bella giornata calda e piena di sole, senza preallarmi o allarmi aerei; da giugno, la città era sottoposta a frequenti bombardamenti da parte dell’aviazione delle forze alleate e gli abitanti avevano loro malgrado familiarizzato col rombo di “Ciccio o’ ferroviere”, il piccolo aereo da ricognizione inglese la cui puntuale e quotidiana comparsa nei cieli sopra la ferrovia aveva preceduto di qualche mese l’arrivo dei devastanti bombardieri statunitensi e inglesi.

Nel giro di poco più di due mesi, Salerno aveva subito ferite tali da sconvolgerne la fisionomia: 600 vittime civili, gravi danni ai 2/3 delle abitazioni, quasi del tutto dissolta ogni forma di vita sociale e culturale, il fragore delle esplosioni, i risvegli notturni causati dalle sirene di allarme, la corsa ai soffocanti e maleodoranti rifugi, gli sfollati che con ogni mezzo tentavano di raggiungere le località dei dintorni, la perdita collettiva del senso di sicurezza.

Quel giorno, invece, il cielo era sgombro e sereno e nel tardo pomeriggio si era diffusa la notizia che l’Italia aveva firmato l’armistizio con le Forze Alleate (si veda il post 8 settembre 1943, giorno dell’armistizio di Cassibile, pubblicato su questa rubrica, Corsi e Ricorsi): il proclama di Badoglio scatenò tanta gioia nella popolazione, con cortei di giubilo e festa in tutti gli ambienti, compresi quelli militari, dove, però, ciascuno restò al suo posto in attesa di disposizioni (che non arrivarono).

Quel che i salernitani e gli stessi militari ignoravano era che le coste prospicienti la città nel giro di poche ore sarebbero divenute teatro di uno scontro bellico cruciale, e che la precipitosa accelerazione imposta dal generale Eisenhower circa la comunicazione dell’avvenuto armistizio era intesa a eliminare dai combattimenti le forze del Regio Esercito e generare sgomento nelle fila germaniche.

L’annuncio dell’8 settembre fu inteso dalla popolazione come la fine di tutto e costituì, invece, l’inizio della tragedia, sia per chi rimase in città sia per chi fuggì nei presunti centri sicuri della Valle dell’Irno e si trovò, di lì a poco, al centro degli scontri tra gli alleati incalzanti e i tedeschi in lenta ritirata. Infatti, la flotta che portava le truppe che dovevano sbarcare a Salerno quella stessa notte era partita da Orano, Biserta e Tripoli tra il 3 e il 7 settembre e si era ricongiunta con le navi partite da Palermo e da Termini Imerese il giorno 8: al momento dell’annuncio di Badoglio l’armata navale era al largo di Capri.

Lo sbarco a Salerno (nome in codice Operation Avalanche) fu un’operazione militare di sbarco anfibio messa in atto dagli Alleati lungo le coste del golfo di Salerno per costituire una testa di ponte per la prevista susseguente conquista di Napoli e del suo porto, fondamentale per rifornire le truppe alleate impegnate sul fronte italiano. Le forze della 5ª Armata statunitense del generale Mark Clark sbarcate nel salernitano sarebbero state successivamente raggiunte dagli uomini dell’8ª Armata di Bernard Montgomery provenienti da sud (operazione Baytown), assieme ai quali avrebbero poi attaccato le postazioni difensive tedesche del Volturno e della Gustav nell’Italia centrale.

A posteriori, diversi storici valutarono criticamente sia la scelta del luogo per lo sbarco, sia la strategia del giovane generale Clark, che avrebbe sottovalutato la morfologia della piana del fiume Sele, utile alla difesa tedesca, e la portata della reazione nemica.

La scelta di Salerno era stata motivo di forte discordia tra inglesi e americani: questi ultimi, che non  percepirono mai realmente gli italiani come popolazione nemica, volevano sbarcare più a nord, per costringere le truppe tedesche a una rapida ritirata. Tale posizione non era condivisa dagli inglesi, che vedevano nell’Italia un’antagonista nel Mediterraneo e nello sbarco un proficuo mezzo per stroncarne le velleità, lasciando maggior tempo e spazio alle truppe tedesche in ritirata per attuare il piano di distruzione del Regio Esercito e rappresaglia per la fuoriuscita separata dell’Italia dall’Asse, piano di cui i servizi segreti britannici erano a conoscenza. I tedeschi erano presenti in forze, pronti a colpire gli italiani, e il comandante in capo Kesselring era un deciso sostenitore della difesa di ogni palmo di terreno, così le cose non andarono come previsto dagli strateghi militari anglo-americani.

Alle 3,30 a.m. del 9 settembre il generale Mark Clark diede il via all’operazione Avalanche. Mentre i paracadutisti si impadronivano di Taranto e altre forze di terra risalivano da Reggio Calabria, 100.000 soldati inglesi e 70.000 statunitensi sbarcavano sulla costa fra Paestum e il fiume Sele senza incontrare resistenza: inizialmente non ci fu nessuna consistente reazione, l’artiglieria tedesca taceva, la Luftwaffe sembrava scomparsa e gli alleati costituirono una testa di ponte lunga 100 km e profonda 10, mentre il colonnello Lane dell’esercito USA assumeva formalmente il comando militare di Salerno. Ma la mattina del 12 i tedeschi scatenarono il contrattacco.

La battaglia divenne uno scontro durissimo per circa dieci giorni. Alla fine gli alleati, sostenuti dal fuoco delle artiglierie navali e da una superiorità aerea schiacciante, riuscirono ad avere la meglio; i tedeschi, minacciati anche dalla non velocissima ma costante avanzata dell’8ª Armata inglese dalla  Calabria, dovettero iniziare il ripiegamento che effettuarono lasciandosi dietro una cospicua serie di demolizioni.

Spostando la prospettiva dal punto di vista militare a quello della popolazione civile, le prime avvisaglie sull’avvio delle operazioni di sbarco si ebbero già poco dopo l’imbrunire dell’8 settembre: grosse formazioni di aerei cominciarono a sorvolare Salerno, si udirono deflagrazioni di bombe e cannonate, provenienti dalla pianura di Paestum, che anche a Salerno provocarono tremolii di infissi e muri. Da notare che solo in quel momento pervenne la comunicazione ufficiale dello sbarco imminente al Comando Marina cittadino.

La prima reazione tedesca è segnalata dall’esplosione dei depositi di munizioni e dei magazzini generali sulle banchine del porto, che procura l’affondamento di alcuni natanti e i primi morti civili.

Dapprima nessuno ci fece caso. I colpi erano lontani, poi via via sempre più vicini e più possenti e reiterati. Mio padre si rizzò a sedere allarmato. Ma non era finita la guerra? Non era stato firmato l’armistizio? Che cosa significavano quelle esplosioni? Anche gli altri si erano destati e ci ritrovammo come qualche ora prima, ma con animo diverso, tutti fuori nello spiazzo. Al di là delle colline, in direzione di Salerno, era tutto un fiammeggiare, un alternarsi di bagliori e scoppi forti, laceranti, senza soste e mentre avanzava il solito massiccio ossessivo rombo degli aeroplani, il cielo si dipingeva di cento e cento colori. Io credo che mai più si vedrà, nel nitore tiepido di una notte di settembre, uno spettacolo più affascinante, una più travolgente fantasmagoria di luci e di colori, un incrociarsi di bengala luminosi bianchi gialli rossi azzurrognoli, un indagare di cento fotoelettriche, un tambureggiare di calibri diversi da terra, dal mare e dalle colline.”.

Alla conclusione della battaglia la situazione del salernitano era assai grave: tutta l’area portava i segni di intensi combattimenti, i bombardamenti aero-navali avevano fatto strage di civili, Battipaglia, Sarno e Scafati rase al suolo, Salerno duramente colpita nella parte sud, dove si trovavano la stazione ferroviaria, due caserme e una fabbrica di siluri. La viabilità sia stradale che ferroviaria fu gravemente compromessa.

Con ottobre i combattimenti si spostarono più a nord, lasciando alle spalle lutti, macerie e una popolazione stremata da malattie e fame, con la penuria di alimenti e lo strangolamento della borsa nera; non furono inoltre sempre scorrevoli i rapporti con i vincitori, che ostentavano l’evidente forza militare, un’enorme differenza culturale e larga disponibilità di beni e di denaro, fossero anche le AM-lire, il cui corso poco controllato finì per dare un’ulteriore spallata alla già traballante economia italiana.

Silvia Boverini

Fonti:
“Schegge di storia. Salerno e l’Operazione Avalanche”, www.archiviodistatosalerno.beniculturali..it;
G. d’Angelo, “Parte la ‘Valanga’: durante lo Sbarco il mare è nascosto da migliaia di navi”, www.corrieredelmezzogiorno.corriere.it;
F. Dentoni Litta, “Guerra  a  Salerno”,  (a  cura  di  P.  De  Rosa),  Edizioni  Grafica  Mediterranea;
M. Mazzetti, N. Oddati (a cura di) “1944 Salerno Capitale”, Cassa di Risparmio Salernitana;
www.wikipedia.org

 

8 settembre 1943, giorno dell’armistizio di Cassibile

L’otto settembre 1943 è ricordato come il giorno in cui fu reso noto l’armistizio di Cassibile, con il quale l’Italia, sfilandosi dall’Asse Roma-Berlino-Tokio, si arrese senza condizioni alle forze alleate antihitleriane. L’Italia, infatti, per volere del capo del governo Benito Mussolini, era entrata nella Seconda guerra Mondiale, accanto alla Germania di Hitler, il 10 giugno del 1940 (lo abbiamo ricordato su questa rubrica, Corsi e Ricorsi, nel post Solo alcune migliaia di morti), ma nell’estate del 1943, l’ultraventennale regime fascista (abbiamo ricordato la presa del potere da parte di Mussolini in diversi post, tra i quali: Il 31 ottobre 1922 si insediò il primo governo Mussolini3 dicembre: la violenza fascista ottiene i pieni poteriDall’Aventino alla dittaturaViene ritrovato il cadavere di Matteotti il 16 agosto del 1924Quell’irrealizzabile attentato a Mussolini che favorì l’affermazione della dittatura) era entrato in una rapida agonia, a causa dell’incredibile cumulo di pesantissime sconfitte subite dalle forze armate italiane (non ultima quella sul fronte russo, che abbiamo ricordato nel post 1942, inizia la seconda battaglia sul fiume Don) e dello sbarco anglo-americano in Sicilia (si veda il post Con lo sbarco in Sicilia, dopo 21 anni di regime, subisce un’accelerazione la fine del Fascismo), per spegnersi con il voto di sfiducia a Mussolini da parte del Gran Consiglio del Fascismo, il 25 luglio di quell’anno (se n’è parlato nel post Il 25 luglio 1943 il Gran Consiglio del Fascismo sfiducia il Capo del governo, Benito Mussolini), a seguito del quale, il re, Vittorio Emanuele III, fatto arrestare Mussolini, aveva affidato il governo nelle mani del maresciallo Pietro Badoglio.

In realtà, la firma dell’armistizio era stata preceduta da mesi di trattative via via più convulse attraverso canali diplomatici, ecclesiastici e militari, fra tentennamenti, procedure contraddittorie e diffidenza reciproca tra le parti; i tentativi italiani di temporeggiare, nella speranza di strappare concessioni territoriali e garanzie per i Savoia a guerra finita, si arenarono contro l’evidenza dell’andamento disastroso del conflitto in corso e contro l’atteggiamento intransigente degli alleati anglo-americani, che sin dal 1940 consideravano l’Italia “l’anello più debole dell’Asse”, da eliminare prioritariamente dalle forze in campo.

La non belligeranza del Regio Esercito avrebbe dovuto favorire le massicce operazioni militari prossime a partire sul territorio italiano, i cui dettagli non furono però condivisi dagli alleati con gli ex nemici italiani, nella cui affidabilità non veniva riposta eccessiva fiducia: l’armistizio fu concluso in fretta e furia già il 3 settembre, e tenuto segreto, al punto che nemmeno ai più alti livelli gerarchici militari italiani se ne era a conoscenza. La segretezza avrebbe dovuto scongiurare la reazione dei tedeschi (cui, ancora in quegli stessi giorni, l’Italia garantiva fedeltà “nella vita e nella morte”), in vista del progettato aviosbarco di truppe anglo-americane a Roma, peraltro annullato perché troppo rischioso.

La data dell’8 settembre fu imposta dal generale Eisenhower, per rendere pubblico l’armistizio a ridosso dello sbarco alleato a Salerno del giorno successivo; a fronte dei tentennamenti del capo del Governo italiano Badoglio, il comandante in capo delle forze alleate nel Mediterraneo forzò la mano, comunicando egli stesso la notizia dai microfoni di Radio Algeri già nel pomeriggio, costringendo di fatto Badoglio a ribadire l’annuncio dagli studi dell’EIAR alle 19.45.

La conclusione dell’armistizio tra l’Italia e le potenze alleate ha segnato un momento di rottura, rappresentando sul fronte interno la disgregazione della vecchia classe dirigente fascista e, sul piano internazionale, il primo segnale dell’imminente crollo dell’Asse; nello stesso tempo l’8 settembre è divenuto nella memoria collettiva uno dei momenti più tragici nella storia dell’Italia unita. La storiografia ufficiale e non, tra ambiguità e prese di posizione politicamente orientate, non ha ancor oggi messo un punto definitivo sull’interpretazione di quel momento storico.

Nell’immaginario nazionale, dal punto di vista simbolico, l’area dei significati attribuiti a quell’evento si divide tra l’idea di tradimento (della patria, degli italiani, dell’onor militare, degli ideali fascisti) e quella di catastrofe necessaria per rifondare su nuove basi l’idea stessa di unità del paese, conducendo infine al nuovo assetto politico e istituzionale repubblicano.

L’annuncio radiofonico fu seguito dalla fuga del re, del governo e del Comando supremo da Roma e dalla dissoluzione dell’esercito; la breve illusione di potersi schierare tempestivamente dalla parte degli angloamericani, togliendosi di dosso il marchio di nemico sconfitto, espose l’intero paese alla violenta reazione tedesca, con l’occupazione di gran parte del paese e brutali repressioni sulla popolazione.

Fra tutte le tragiche conseguenze dell’8 settembre, c’è una pagina meno esplorata che riguarda la sorte degli uomini appartenenti alle forze armate del Regio Esercito.

La notizia dell’armistizio era piovuta inaspettata e non accompagnata da istruzioni: le nuove regole d’ingaggio potevano a stento desumersi tra le righe dei due comunicati ufficiali di quel giorno.

Da un lato quello degli alleati:

Qui è il generale Eisenhower. Il governo italiano si è arreso incondizionatamente a queste forze armate. Le ostilità tra le forze armate delle Nazioni Unite [alleate] e quelle dell’Italia cessano all’istante. Tutti gli italiani che ci aiuteranno a cacciare il tedesco aggressore dal suolo italiano avranno l’assistenza e l’appoggio delle nazioni alleate.”.

Dall’altro quello del maresciallo Badoglio:

Il governo italiano, riconosciuta la impossibilità di continuare la impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione, ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate anglo-americane. La richiesta è stata accolta. Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza.”.

L’unica direttiva alle forze armate furono le ambigue parole lette da Badoglio alla radio: in parole povere, come disse un ufficiale,

Cercate di tergiversare, non irritate i tedeschi e trattate bene gli inglesi che stanno per arrivare”.

Soltanto alle 0:50, sommerso di richieste di istruzioni, il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito Roatta fece trasmettere il fonogramma

Ad atti di forza reagire con atti di forza”.

All’alba, Badoglio passò i poteri di primo ministro al ministro degli Interni e salì sul convoglio di automobili con cui il re, la famiglia reale, numerosi generali e altri dignitari lasciarono Roma diretti a Pescara e da qui, in nave, a Brindisi, dove fu insediato un nuovo governo. La “fuga di Pescara”, come passò alla storia l’episodio, divenne una delle più gravi accuse alla monarchia e al capo del governo, accusati di non aver fatto abbastanza per rimpatriare le centinaia di migliaia di soldati italiani sparsi per l’Europa e di averli lasciati senza ordini e disposizioni dopo l’annuncio dell’armistizio.

All’8 Settembre 1943 il Regio Esercito aveva schierate 12 Divisioni nell’Italia settentrionale, 8 nella zona di Roma e altre 2 in affluenza nella medesima zona, 3 Divisioni e 1 in affluenza nell’Italia meridionale, 6 Divisioni tra Sardegna e Sicilia, aliquote di forze nella Francia meridionale e 22 Divisioni tra i Balcani e le isole dell’Egeo, per un totale di 1.090.000 uomini dislocati in Italia e 900.000 nei Paesi occupati.

Un esercito numericamente notevole ma male equipaggiato, la cui dissoluzione si consumò nel breve volgere di tre giorni (9-11 settembre): sintomi di sbandamento, abbandono delle uniformi, allontanamenti dai reparti, generale disorientamento, caos nelle comunicazioni, il tutto dominato da un confuso senso di attesa dell’arrivo degli Alleati o di ordini del Governo. I soldati reagirono alla mancanza di ordini con il “tutti a casa”, illudendosi insieme ad altri milioni di italiani che la guerra fosse finita.

In realtà, l’ipotesi di trasformazioni nell’assetto delle alleanze tra i belligeranti era da tempo considerata dalla Germania, soprattutto dopo la destituzione di Mussolini; perciò, sin dalla fine di agosto Rommel e Kesserling avevano schierato le truppe in modo strategico a nord e a sud, accerchiando l’esercito italiano, e a tutti i comandi tedeschi era stato comunicato un piano da rendere operativo non appena avessero udito per radio la parola “Achse” [Asse]. Anche sul fronte italiano esisteva una “Memoria 44”, un piano che i comandanti d’Armata avevano letto per sommi capi ai comandanti di Corpo d’Armata, e che sarebbe dovuto entrare in funzione all’arrivo di un fonogramma di conferma, diramato però solo l’11 settembre da Brindisi, quando l’esercito italiano non esisteva più. La parola “Achse”, invece, attraversò l’etere la sera dell’8 settembre, appena si seppe dell’armistizio: i tedeschi, dai minimi gradi ai più alti, sapevano quel che dovevano fare, e a notte fonda si misero in moto, a sud e intorno a Roma per occupare la capitale.

Il disarmo delle Grandi Unità da parte dei tedeschi fu immediato: 1.265.660 fucili, 38.383 mitragliatrici, 9.988 pezzi d’artiglieria, 970 carri armati, 15.500 automezzi, 4.553 aerei, 10 torpediniere e cacciatorpediniere, 51 unità del naviglio minore, 500.000 capi di vestiario, 67.600 cavalli e muli, 123.114 m³ di carburante; inoltre, tutti i materiali in seguito recuperati nei magazzini: tonnellate di munizioni, esplosivi, materiali del genio, apparati vari, lubrificanti per motori, prodotti chimici, metalli, materiali sanitari, vestiari, viveri, pellami, che vennero inviati al nord dal Comando germanico.

A parte le perdite materiali, i costi umani del cambiamento di alleanze furono pesantissimi.

Nei momenti immediatamente successivi al proclama radiofonico di Badoglio, nell’assenza di direttive precise, si segnalarono alcuni casi tragicamente grotteschi di militari caduti in battaglia contro le truppe alleate che da cinque giorni non erano più in guerra con l’Italia, come i 400 paracadutisti morti sull’Aspromonte combattendo contro 5000 soldati canadesi, o come i piloti del 51° Stormo, inviati ad attaccare le navi americane in rotta verso Salerno e tutti abbattuti, nonostante il tentativo del loro comandante:

Ricevuta notizia armistizio. Possiamo sospendere previsto attacco Salerno?“; “Continuare secondo disposizioni ricevute“, fu risposto da Roma.

Le Forze Armate italiane riuscirono a mettere in fuga il nemico tedesco solo a Bari, in Sardegna e in Corsica; la Regia Marina, ancorata nei porti da circa un anno per penuria di carburante, dovette consegnarsi nelle mani degli Alleati a Malta come prescritto nelle condizioni di armistizio, mentre gli aviatori rimasti fedeli al governo Badoglio entrarono a far parte dell’Aeronautica Cobelligerante Italiana di supporto all’aviazione alleata.

I tedeschi disarmarono circa un milione di uomini, di cui 196.000 fuggirono o furono liberati. Gli 810mila militari italiani catturati sui vari fronti di guerra vennero considerati disertori oppure franchi tiratori e quindi giustiziabili se resistenti (come a Cefalonia e Corfù); tra essi, 94.000 optarono per la RSI o le SS italiane, come combattenti o ausiliari.

I circa 716.000 soldati che rifiutarono di aderire alla Repubblica di Salò furono quindi deportati in Germania (13.000 morirono durante il trasferimento), classificati prima come prigionieri di guerra, fino al 20 settembre 1943, poi come “internati militari italiani” (IMI), categoria ignorata dalla Convenzione di Ginevra sui Prigionieri.

Gli internati – rinchiusi nei lager con scarsa assistenza e senza controlli igienici e sanitari – a differenza dei prigionieri di guerra erano privi di tutele internazionali e obbligati arbitrariamente e unilateralmente al lavoro forzato (servizi ai lager, manovalanza, edili, sgombero macerie, ferrovieri, genieri, o al servizio diretto della Wehrmacht e della Luftwaffe, o presso imprenditori e contadini); dal luglio 1944, furono smilitarizzati e gestiti come lavoratori civili liberi, un’etichetta ipocrita che nascondeva la realtà del lavoro obbligato. Nei lager patirono fame, soprusi e umiliazioni, accompagnati dalla martellante reiterazione dell’offerta di aderire alla Repubblica Sociale Italiana, RSI (la cui creazione da parte di Mussolini, per volere di Hitler abbiamo ricordato nel post Il 18 settembre del ’43 Mussolini annuncia da Radio Monaco la costituzione della RSI) per garantirsi un trattamento migliore: durante l’internamento, 43.000 prigionieri accettarono di combattere per Salò e altri 60.000 di arruolarsi come ausiliari.

Oltre 600mila IMI, nonostante le sofferenze, il trattamento disumano e i vissuti di tradimento e abbandono da parte della madrepatria, rimasero invece fedeli al giuramento, scelsero di resistere e dire no alla RSI, per motivi etici, politici o di pura e semplice coerenza e dignità umana. Una ribellione silenziosa e disarmata che non ottenne mai riconoscimento.

Alla fine della guerra gli internati militari sopravvissuti trovarono infatti una patria a dir poco distratta, desiderosa di dimenticare la ferita aperta dalla catastrofe istituzionale dell’8 settembre, e una cortina di silenzio e ambiguità fu calata sull’intera vicenda.

La rivendicazione della Resistenza antifascista –scrive oggi lo storico Giorgio Rochat – si è ridotta per decenni al dibattito politico sulla guerra partigiana. Negli ultimi anni registriamo il recupero di una dimensione più ampia. Contiamo la resistenza contro i tedeschi delle forze armate all’8 settembre. Poi la guerra partigiana e la deportazione politica e razziale nei lager di morte. La partecipazione delle forze armate nazionali alla campagna anglo-americana in Italia. E infine la resistenza degli IMI (internati militari italiani) nei lager tedeschi: le centinaia di migliaia di militari che invece della guerra nazifascista scelsero e pagarono la fedeltà alle stellette della patria. Tutti avevano ragione di sentirsi traditi dal re e da Badoglio, che li avevano abbandonati senza ordini agli attacchi tedeschi. Ciò nonostante, una grande maggioranza di questa massa di sbandati preferì la fedeltà alle stellette e la prigionia nei lager”.

Silvia Boverini

Fonti:
www.sergiolepri.it;
www.storiaxxisecolo.it;
www.archivi.beniculturali.it;
M. Avagliano e M. Palmieri, “Gli Internati Militari Italiani. Diari e lettere dai lager nazisti 1943-1945”, Einaudi;
E. Aga Rossi, “Una nazione allo sbando”, il Mulino;
“8 settembre 1943”, www.ilpost.it;
D.M. De Luca, “8 settembre 1943. Cronaca della giornata in cui l’Italia si arrese agli Alleati e si illuse che la guerra fosse finita”;
F. Marcoaldi, “Prigionieri dell’8 settembre”, 06/09/2009, La Repubblica

 

Il 7 settembre 2004 sono rapite Simona Pari e Simona Torretta

Le due ragazze furono sequestrate esattamente sedici anni fa. Insieme a due colleghi iracheni, si trovavano nella sede di Baghdad di Un ponte per…, l’ong presso cui svolgevano le loro attività, quando il commando armato fece irruzione nell’edificio.

Iniziarono ore e giorni di terrore per loro e di apprensione per le famiglie. Il giorno successivo, il sito Islamic-minbar.com pubblicò la rivendicazione: era il gruppo Ansar El Zawahri ad aver agito. La richiesta: liberare le prigioniere musulmane nelle carceri irachene. Tempo concesso: 24 ore.

Dopo interminabili momenti costellati da informazioni errate, aumento delle richieste, appelli per la liberazione e false dichiarazioni di uccisione delle ragazze, la notizia tanto attesa, il 25.09: tutti gli ostaggi sono vivi!

Si susseguiranno altri tre giorni di tensione, prima che le ragazze possano riassaggiare la libertà. Il 28 settembre furono consegnate nelle mani della Croce Rossa italiana a Baghdad e, di lì a poco, poterono riabbracciare le proprie famiglie.

Alessio Gaggero

Eccidio di Rizziconi. 06/09/1943

L’estate del 1943 sta volgendo al termine, così come l’occupazione nazifascista della penisola italiana: gli anglo-americani erano già sbarcati in Sicilia tra il 9 e il 10 luglio di quell’anno e 15 giorni dopo, a causa dell’andamento disastroso della guerra, per l’Italia, il Gran Consiglio del Fascismo aveva sfiduciato il capo del Governo, Benito Mussolini, il re, Vittorio Emanuele III, lo aveva fatto arrestare e aveva affidato il ruolo di presidente del Consiglio dei Ministri al maresciallo Pietro Badoglio (abbiamo ricordato entrambi questi fatti, sulla rubrica Corsi e Ricorsi, nei post Con lo sbarco in Sicilia, dopo 21 anni di regime, subisce un’accelerazione la fine del Fascismo e Il 25 luglio 1943 il Gran Consiglio del Fascismo sfiducia il Capo del governo, Benito Mussolini). Nominalmente l’Italia e la Germania di Hitler erano ancora alleate. I Tedeschi hanno l’ordine di ritirarsi senza ingaggiare il nemico, cioè le forze anglo-americane, che avanza, se non tramite azioni di rallentamento. All’inizio di settembre, la zona interessata da questi movimenti di uomini e mezzi è quella calabrese. La Piana di Gioia Tauro, nello specifico.

Quando risulta chiaro che lo sbarco a Reggio Calabria e la successiva avanzata inglese sono inarrestabili, il generale tedesco Fries ordina la ritirata verso nord, anche per le truppe accampate intorno a Rizziconi, un piccolo paese dell’entroterra. Alle 13.00 del 6 settembre, questo contingente nazista, però, si macchia di un crimine sanguinario: per quasi 24 ore spara colpi di artiglieria pesante contro il paese, in cui erano presenti i soli civili.

Perderanno la vita 17 persone, di cui tre bambini e cinque ragazzi, che si sommano ai 56 feriti del bilancio finale della strage, unica di questo tipo in Calabria. Non è mai stata chiarita la motivazione alla base di tale crimine. Un’ipotesi pone al centro il lenzuolo bianco issato sul campanile della chiesa di San Teodoro in segno di resa: i Tedeschi potrebbero aver pensato che gli Inglesi fossero già entrati in paese. Una seconda ipotesi indica, invece, l’intervento della popolazione civile, che avrebbe tagliato i fili di comunicazione con il reggimento, sabotando le truppe naziste, indotte, dunque, alla rappresaglia.

Sono stati necessari 73 anni perché l’eccidio fosse ufficialmente riconosciuto. Si legge sul sito dell’ANPI:

Un accordo bilaterale tra Governo della Repubblica Federale Tedesca e Governo Italiano ha consentito di censire gli episodi di violenza contro i civili commessi dai Nazisti durante la Seconda guerra mondiale. La ricerca portata avanti dall’Anpi e dall’Insmli, con la collaborazione di studiosi provenienti dalle Università di Bologna, Napoli, Pisa, e Siena, segnala la strage di Rizziconi (6 settembre 1943) come unica strage nazista della Calabria.

La speranza è che la memoria pubblica, locale e non, si rafforzi nei tempi a venire grazie a questo riconoscimento, andando a compensare i lunghi anni di amnesia istituzionale e popolare emersi dalle ricerche.

Alessio Gaggero

Monaco, 5 settembre 1972: la strage delle Olimpiadi

Sono le 4:00 del mattino nel villaggio olimpico di Monaco, Germania. Un gruppo di atleti americani, dopo aver bevuto qualche birra di troppo, aiuta alcuni sconosciuti a scavalcare la recinzione che separa il resto degli atleti dall’esterno. Se avessero saputo cosa il loro gesto avrebbe comportato, non sarebbero certo stati così amichevoli.

I terroristi, otto uomini facenti parte di Settembre nero, gruppo vicino all’Organizzazione per la Liberazione della Palestina di Yasser Arafat, si dirigono subito alla palazzina che ospita gli sportivi israeliani. Due di questi fanno in tempo ad accorgersi di cosa sta succedendo e accennano una resistenza: pessima idea. Sono i primi a morire. Gli altri nove rappresentanti del controverso stato mediorientale diventano ostaggi da sfruttare.

A un’ora dall’irruzione, inizia la trattativa con le forze dell’ordine tedesche. Per mezzo di alcuni fogli di carta lanciati dal balcone, richiedono la liberazione di circa duecento prigionieri palestinesi, detenuti in carceri israeliane, e, ovviamente, una via di fuga per se stessi: degli aerei per lasciare il paese. Tempo a disposizione: quattro ore.

Golda Meir, Primo ministro di Israele, contattata da Willy Brandt, Primo ministro della Germania ovest, rifiuta ogni trattativa, preferendo l’invio di una squadra speciale per un blitz. La trattativa è comunque instaurata dai tedeschi, che riescono a posticipare la scadenza dell’ultimatum per diverse volte, mentre i giochi olimpici non si fermano, tra lo stupore di tutto il mondo.

A fine giornata, terroristi e ostaggi salgono su due elicotteri che li porteranno sulla seconda delle loro richieste, unica ad essere, apparentemente, soddisfatta: un aereo. È, appunto, solo apparenza: l’accordo si trasforma in una trappola. Scoppia una sparatoria sulla pista d’atterraggio, poiché i tedeschi riescono a mettere in atto il piano di salvataggio, che si conclude con l’arrivo dei mezzi corazzati: i terroristi capiscono che non c’è più alcuna speranza di uscirne indenni, perciò uccidono tutti gli ostaggi. Sopravvivono solo in tre, immediatamente arrestati, ma rilasciati poco più di un mese dopo, nell’ambito di una trattativa per un altro attentato.

Nello sgomento globale, i giochi si interruppero semplicemente per un giorno: la morte di 17 persone non fu ritenuta un motivo sufficiente per annullarli.

Alessio Gaggero

04/09/17. Pini (Lega): Credere che Regeni sia stato inviato in Egitto per studiare […] non ci crede la gente comune né gli addetti ai lavori

Le parole che danno il titolo all’articolo di oggi sono state pronunciate esattamente tre anni fa da Gianluca Pini, deputato leghista della precedente legislatura. Durante il suo intervento, all’interno del dibattito sulla morte di Giulio Regeni nelle Commissioni parlamentari Affari Esteri, il parlamentare del Carroccio non solo adombrava, presumibilmente, l’ipotesi di un coinvolgimento del giovane dottorando con i servizi segreti, ma aggiungeva:

“Intitolare i Giochi del Mediterraneo a Regeni è folle. Prima vogliamo la verità, non vorremmo poi essere costretti a togliere qualche lapide […] Noi, contrariamente a qualche attore o regista di sinistra caduto in disgrazia che in queste ore fa le passerelle a Venezia, non consideriamo Regeni un eroe, ma semmai una vittima di un gioco più grande di lui”.

In quello stesso mese di settembre 2017 il legale egiziano che seguiva il caso per conto della famiglia, Ibrahim Metwaly, vie incarcerato in Egitto con l’accusa di voler sovvertire il governo Al Sisi.

A due anni di distanza, siamo ancora lontani dall’avere in mano delle prove servibili sullo svolgimento dei fatti inerenti al rapimento, alle torture e all’omicidio subiti da Giulio.

Rapito il 25 gennaio 2016, durante il periodo di dottorato che stava svolgendo in Egitto, ne fu ritrovato il corpo, il 3 febbraio, che presentava evidenti segni di tortura. Da quel momento in poi, la protagonista è stata la reticenza del governo egiziano rispetto ai risultati delle indagini, nonché la scarsa collaborazione offerta ai rappresentanti italiani. Giulio Regeni non ha ancora trovato pace.

Da quell’intervento in Commissione, la Lega è passata dall’opposizione al governo. Ripercorriamo le vicende svoltesi dal giugno del 2018.

Il 13 giugno scorso, Salvini fa delle affermazioni che incrinano la già labile sicurezza offerta dallo Stato italiano nella ricerca della verità:

“[…] comprendo bene la richiesta di giustizia della famiglia di Giulio Regeni. Ma per noi, l’Italia, è fondamentale avere buone relazioni con un Paese importante come l’Egitto”.

Amnesty International, il cui striscione campeggia su numerosi palazzi delle istituzioni, italiani ed esteri (comuni, regioni, università per dirne alcuni), risponde al Ministro dell’interno:

“Da una parte, Salvini ritiene che la richiesta di giustizia sia un’esclusiva della famiglia di Giulio e non invece di tutta l’Italia, essendo in gioco la democrazia del nostro paese. E dall’altra, passa su un Regime dove ogni giorno spariscono due persone, proprio com’è accaduto a Giulio, e dove tengono in carcere persone come Amal Fathy, moglie del consulente legale della famiglia Regeni al Cairo, Mohammed Lotfy, in carcere da settimane con accuse gravissime e assolutamente non provate”.

Esattamente un mese dopo, il 13 luglio, il Presidente della Camera Fico, il Ministro degli esteri Moavero Milanesi e il premier Conte incontrano Claudio e Paola Regeni, i genitori senza più un figlio. Le dichiarazioni vanno in senso nettamente contrario: si farà di tutto per cercare di far scaturire la verità, che non sarà solo per i genitori, ma per tutto il paese; per questo lo Stato ha l’obbligo di cercarla.

Passano poi pochi giorni, cinque per l’esattezza, ed è lo stesso Matteo Salvini a tornare sotto i riflettori del teatro egiziano: incontra, al Cairo, il presidente Al-Sisi e il ministro omologo Ghaffar, che gli assicurano la piena volontà di fare chiarezza sulla vicenda, portando a termine le indagini. È il primo Ministro a posare il piede in Egitto dall’aprile 2016, quando il Governo Renzi richiamò l’ambasciatore.

Dobbiamo aspettare il 5 agosto perché un altro componente dell’Esecutivo si presenti nuovamente da Al-Sisi: il già citato Moavero Milanesi, tra i vari argomenti, affronti anche quello relativo all’omicidio del giovane ricercatore. Anche in questo caso sono confermate la ferma volontà di chiudere la vicenda e la disponibilità a cooperare in modo trasparente.

Arriviamo, quindi, ad un anno fa: è il 29 agosto 2018, e il protagonista, questa volta, è l’altro Vicepresidente del Consiglio, Di Maio. Anche lui in viaggio al Cairo, incontra Al-Sisi, ma, diversamente dalle dichiarazioni dei suoi predecessori, scatena una dura polemica. Secondo il Ministro del lavoro, il Presidente egiziano avrebbe detto che Regeni è “uno di noi”, frase,che, però, è ritenuta da molti offensiva verso la famiglia Regeni e verso lo stesso Giulio, considerato il presunto coinvolgimento dei servizi egiziani.

Del resto, c’è anche la vicenda di Amal Fathy a gettare ombre ulteriori sul caso.

Il 18 dicembre dello scorso anno, in effetti, la corte d’Assise del Cairo ha ordinato la scarcerazione e la sottomissione al regime della libertà controllata della sopracitata Amal Fathy: l’attivista era stata condannata a due anni di carcere per aver condiviso su internet un video in cui accusava il governo di non difendere i diritti delle donne che hanno subito molestie sessuali. Fathy è la moglie di Mohamed Lofty, direttore della Commissione egiziana per i diritti umani e consulente della famiglia di Giulio Regeni. Era in custodia cautelare in carcere da maggio. Lei, il marito e il loro figlio di tre anni erano stati arrestati, nella loro abitazione, all’alba dell’11 maggio, dalle forze di sicurezza. Lotfy e il bambino, che hanno anche passaporto svizzero, erano stati rilasciati poche ore dopo. Le accuse contro Amal Fathy non erano collegate al caso Regeni, in quanto a fine settembre era stata condannata per aver denunciato, in un video pubblicato su Facebook, le molestie sessuali da lei subite e per aver criticato il governo per il mancato contrasto alla violenza di genere. Nel video non c’erano tracce di incitamento alla ribellione violenta contro il governo egiziano. Altrettanto pretestuosa e fasulla pare essere la seconda inchiesta in cui era coinvolta: “appartenenza a un gruppo terroristico“, “diffusione di notizie false e dicerie per danneggiare la sicurezza pubblica e gli interessi nazionali” e “uso di Internet per istigare a compiere atti di terrorismo”. Il 30 dicembre la Corte d’appello egiziana ha confermato la condanna a due anni di carcere inflitta a fine settembre. Amal, nei sette mesi di detenzione preventiva, aveva perso circa 20 chili di peso.

Il 25 gennaio 2019 in numerose piazze d’Italia si svolgono delle fiaccolate in memoria di Giulio Regeni. A Fiumicello si celebra la commemorazione con i genitori e il presidente della Camera Roberto Fico.

Il 20 giugno, Massimiliano  Fedriga, il presidente della regione Friuli Venezia Giulia, ha deciso di fare rimuovere in modo permanente lo striscione. Nello stesso periodo alti esponenti egiziani rilanciano la tesi dell’omicidio di criminalità comune e giungono notizie dall’Egitto sulla repressione ai danni di avvocati e difensori dei diritti umani che collaborano alla ricerca della verità.

A fine aprile, la Camera dei deputati aveva approvato l’istituzione di una Commissione monocamerale di inchiesta sulla morte di Giulio Regeni. In favore avevano votato tutti i gruppi tranne Forza Italia, che si era astenuta, dopo la bocciatura di un proprio emendamento. I sì erano stati 379, gli astenuti 54.

Agli inizi di maggio un funzionario dell’intelligence egiziana racconta a un collega straniero, nel corso di una riunione di poliziotti africani avvenuta nell’estate 2017, di aver preso parte al sequestro del giovane ricercatore italiano.

Credevamo che fosse una spia inglese, lo abbiamo preso, io sono andato e dopo averlo caricato in macchina abbiamo dovuto picchiarlo. Io stesso l’ho colpito più volte al volto”, avrebbe riferito l’agente egiziano.

A rivelare questa conversazione, si legge sui giornali, è stata una persona che ha assistito alla conversazione, la quale la riferisce agli avvocati e ai consulenti della famiglia Regeni, coordinati dall’avvocato Alessandra Ballerini. Costoro, a loro volta, mettono questa testimonianza a disposizione della Procura di Roma che indaga sul caso. Il procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone, e il sostituto Sergio Colaiocco considerano la testimonianza così attendibile, da inoltrare al Cairo una nuova rogatoria.

Alessio Gaggero e Alberto Quattrocolo

Il generale-prefetto Dalla Chiesa è assassinato il 3 settembre 1982

Di elementi in comune, gli uomini uccisi dalla mafia, ne hanno sicuramente molti. Colpisce uno in particolare: il presentimento. Li si ricorda, nei giorni che precedono l’ultimo, guardinghi, quasi paranoici, spesso disillusi e rassegnati a un destino ormai scritto. Uomini che sapevano di dover morire di lì a poco, e che non potevano farci assolutamente nulla. Perché la fuga non è mai stata, per loro, un’opzione.

Tale sensazione è spesso accompagnata da un sentimento terribile per tutti noi, animali sociali, ma in special modo per chi, come loro, ha bisogno degli altri per sopravvivere in senso stretto: la solitudine. Essere abbandonati da chi stava loro intorno, forse era proprio questo il vissuto che scatenava quel presentimento di morte: in effetti, quando si fiuta il pericolo, ci si allontana per salvarsi la pelle. E il pericolo, allora, era proprio intorno a loro. Dunque, li si abbandona. Solo famiglia e collaboratori stretti rimangono, spesso condividendo la fine di quegli uomini già destinati all’oltretomba. È il caso di Ninni Cassarà, di Giovanni Falcone, di Giuseppe Montana, di Rocco Chinnici, di Paolo Borsellino e di Carlo Alberto Dalla Chiesa (si vedano su questa rubrica, Corsi e Ricorsi, i post 6/08/1985. Vengono uccisi da Cosa Nostra Ninì Cassarà e Roberto AntiochiaLo spirito di servizio di Giovanni FalconeL’attentato di via Pipitone si consuma il 29 luglio 1983, a Palermo).

È proprio di quest’ultimo che cade oggi l’anniversario della morte. Fu ucciso da Cosa Nostra mentre era Prefetto di Palermo. Nomina che suscitò non poche perplessità, soprattutto in relazione al fatto che non vennero concessi quei poteri speciali che gli erano stati promessi dal Ministro Rognoni:

Mi mandano in una realtà come Palermo con gli stessi poteri del Prefetto di Forlì, se è vero che esiste un potere, questo potere è solo quello dello Stato, delle sue istituzioni e delle sue leggi, non possiamo delegare questo potere né ai prevaricatori, né ai prepotenti, né ai disonesti.

100 giorni di lavoro, diventati ormai famosi, in cui chiarì fin da subito il suo preciso intento: non chiudere un occhio in nessun caso, mai, con nessuno. Prova ne fu il Rapporto dei 162, che mappava l’organizzazione della Cupola mafiosa; prova ne furono le dichiarazioni pubbliche, che non risparmiarono imprenditori apparentemente slegati dal potere criminale; prova ne fu, infine, il suo omicidio.

Dopotutto, accettò l’incarico per tentare di reiterare gli ottimi risultati conseguiti negli anni precedenti con la lotta al terrorismo. Dalla Chiesa aveva infatti alle spalle quasi vent’anni di carriera dedicata al combattere la criminalità organizzata, fosse essa da ricondurre alla mafia (ne abbiamo fatto cenno anche nel post Placido Rizzotto: «I nostri nemici non sono i padroni, ma noi stessi») o alle Brigate Rosse. Campania, Sicilia, Toscana, Lombardia, Lazio, Piemonte e, infine, ancora Sicilia. Aveva raggiunto il grado di Vicecomandante generale dell’Arma, massima carica di cui poteva essere allora investito un Carabiniere. Per poter comandare la Prefettura palermitana fu messo in congedo, ma i poteri promessi non arrivarono: a sostituirli, la sera del 3 settembre, raffiche di Kalashnikov che si abbatterono sulla macchina del generale e quella della scorta, uccidendo anche l’agente Domenico Russo.

La solitudine, dunque, accompagnò il generale-prefetto alla sua fine. Solo una donna al suo fianco: Emanuela Setti Carraro. Neanche due mesi erano passati da quando si erano sposati a Trento, lontano dalla terra, e dagli uomini, che avrebbero dato loro la morte.

Alessio Gaggero

 

Il 2 settembre 2015 Alan Kurdi affoga nell’Egeo insieme alla sua famiglia

Due settembre 2015. Una barca di migranti siriani affonda nell’Egeo. Qualcuno si salva, qualcuno no. Tra quest’ultimi, due bambini, due fratelli. Uno in particolare diventerà famoso nel giro di poche ore. O meglio, una foto scattata al suo corpo senza vita, steso sulla battigia di una spiaggia turca. La foto farà il giro del mondo in tutte le forme, anche incollata all’interno di una riunione ONU, a suggerire la responsabilità politica di quanto accaduto: chi ci governa non è nemmeno in grado di proteggere bambini di 3 anni dall’affogamento in un mare dove dovrebbero semplicemente andare in vacanza.

Alan era un piccolo siriano kurdo di Kobane, partito con padre, madre e fratellino a bordo di un’imbarcazione, invece che di un aereo, poiché la zia, residente in Canada, non è riuscita a porsi come garante della famiglia. Solo il padre è sopravvissuto al naufragio, vedendosi strappare via i figli dalle mani, presi di forza da quel mare che avrebbe dovuto essere la loro via di fuga da un paese martoriato da guerra e politica.

L’immagine di Ayan steso su quella spiaggia ha colpito duramente gli occhi e le menti di milioni di persone in tutto il mondo, come facilmente accade oggi. Un’altra foto ha raggiunto picchi di diffusione paragonabili in quei giorni. È la copertina di Charlie Hebdo, che utilizza l’immagine del piccolo siriano per realizzare una vignetta satirica.

Charlie Hebdo, altro nome che ha fatto il giro del mondo in brevissimo tempo, quando, il sette gennaio 2015, la sua sede parigina fu attaccata a suon di kalashnikov da dei terroristi che vendicavano l’Islam, mortalmente offeso dalle precedenti vignette della rivista.

Charlie Hebdo e Aylan Kurdi. Quattro parole che hanno tempestato i motori di ricerca di milioni di dispositivi in quei giorni. Gli autori della rivista decisero dunque di mettere Alan al centro della propria copertina. Si scatenarono le reazioni più indignate, in difesa del piccolo siriano ingiustamente attaccato: Charlie Hebdo fu accusato di sfruttare la morte di un minore al solo scopo di attirare attenzione; di essere razzista, xenofobo e moralmente abietto; di fomentare i crimini d’odio e le persecuzioni; soprattutto, di prendersi gioco di Alan e della sua morte. A nulla, o poco, sono valse le precisazioni del giornale: l’idea non era sbeffeggiare il bambino, ma puntare il dito contro la società consumistica, rappresentata dal cartellone pubblicitario di McDonald’s.

Satira. Questo è il nome cui risponde la tipologia di arte che crea Charlie Hebdo. Cosa significa satira? Cos’è la satira? Serve a qualcosa? E, se sì, a cosa? È lecita? Lo è sempre?

Facilmente si può trovare in internet una definizione di questa forma d’arte, che a sua volta può assumere molteplici forme: vignette, poesie, canzoni, film, fino ad opere magne, la Divina Commedia su tutte. Satira sono le immagini che scorgiamo tra le pagine dei giornali (web o cartacei che siano). Disegni e testi che cercano di svelare una realtà che a volte conosciamo, altre è subito svoltato l’angolo o scostato il velo che ci caliamo davanti agli occhi, perché ci fa comodo così. Per farlo, ci sono tanti modi e uno di questi è colpire il lettore (ascoltatore, spettatore ecc.) con una sensazione, scatenare in lui un’emozione, profanando ciò che c’è di sacro: se per Dante erano i papi, per la satira odierna sono le morti degli innocenti. Charlie Hebdo sferra pugni dritti nello stomaco delle persone, fa contorcere loro le budella, sperando che quella rabbia, quel disgusto, quella tristezza siano poi utilizzate per accendere neuroni e sinapsi, che dovrebbero collegare i puntini che hanno davanti agli occhi. Prendersela con i vignettisti per la rabbia che quell’immagine induce, è un po’ come prendersela con l’ambasciatore di una cattiva notizia: non dovrebbe portare pena, no?

Alessio Gaggero

La strage di Beslan ha inizio la mattina del primo settembre 2004

385 morti, di cui 154 bambini e 10 esponenti delle forze dell’ordine russe, oltre quasi 800 feriti.

A tanto arrivò il commando che tenne col fiato sospeso milioni di persone, avendo preso in ostaggio bambini, genitori e personale di una scuola dell’Ossezia del Nord, per un totale di circa 1.200 persone. Evidentemente, il gruppo armato era a conoscenza del fatto che, il primo giorno di ritorno dalle vacanze, le famiglie si fermano insieme agli alunni per assistere alla cerimonia, perciò, in quelle ore, il numero di individui presenti a scuola in quelle poche ore è molto più alto del solito.

I sequestratori partirono da un campo poco lontano dalla città, ma già all’interno dei confini dell’Inguscezia. Ci troviamo, infatti, nei territori della Federazione Russa, di cui fa parte anche la tristemente nota Cecenia, che giocherà un ruolo di primo piano anche in questa vicenda. Dunque, trenta uomini e due donne lasciarono i boschi dove avevano passato la notte, alla volta di Beslan, trasportati da un camion militare e un’auto della polizia.

L’inizio del terrore…

In pochi minuti presero il controllo della situazione, radunando la maggior parte dei presenti nella palestra, dove avrebbero passato le successive 52 ore, in mezzo alle bombe: i terroristi, infatti, minarono tutto il terreno circostante. Dopo circa un’ora, le forze dell’ordine, compresi alcuni reparti speciali russi, circondarono l’edificio, ma dovettero aspettare un altro paio d’ore per il primo contatto: un ostaggio liberato riferì che i sequestratori pretendevano di parlare con il presidente osseto, l’ex presidente dell’Inguscezia e Leonid Roshal, il pediatra che negoziò con gli attentatori del teatro Dubrovka. Imposero anche violente regole: 10 ostaggi uccisi se l’elettricità o le comunicazioni fossero state tagliate, 20 per ognuno dei terroristi feriti, 50 per ogni terrorista ucciso.

Quali erano, però, le reali intenzioni del commando? Si scoprì che il gruppo era composto in gran parte da Ceceni, e in minoranza da arabi, che esigevano la libertà del loro paese d’origine: la Cecenia doveva essere ripulita di qualsiasi militare russo presente sul territorio.

… e la sua triste conclusione

Il sequestro terminò con quello che si ritiene sia stata l’esplosione accidentale di due ordigni, che causò la morte della maggior parte delle vittime totali. Entrambi gli schieramenti attribuirono la responsabilità all’altro, e si scatenò il disastro: ostaggi che fuggivano dalle brecce aperte nelle mura, militari e civili armati che fecero incursione nell’edificio e i terroristi che cercavano di causare più vittime possibili. Al termine della sparatoria, solo un membro del commando riuscì a salvarsi, sia dai proiettili che dalla folla: fu catturato e portato via dalle forze dell’ordine.

Circa due settimane dopo il termine delle atrocità, il leader separatista ceceno Shamil Basayev rivendicò l’attacco, affermando di aver sottovalutato la capacità del Governo di affrontarlo senza alcuno scrupolo.

Alessio Gaggero