Henri Landru viene ghigliottinato a Versailles

Il 25 febbraio 1922 muore, decapitato dalla ghigliottina sulla pubblica piazza a Versailles, Henri Désiré Landru, il Barbablù francese, passato alla storia come omicida seriale ante litteram. La sua vicenda è stata oggetto d’interesse sotto il profilo giudiziario (non furono mai rinvenuti i cadaveri delle vittime), criminologico (tratti personologici e modus operandi insoliti rispetto alla vulgata attorno a questo tipo di reato) e per il clamore, che oggi definiremmo mediatico, suscitato presso l’opinione pubblica dell’epoca e l’immaginario collettivo fino ai giorni nostri: la sua figura ha ispirato narrativa, cinema, studi psicoanalitici.

Landru nasce nel 1869, in una famiglia parigina piuttosto agiata che, per gli standard dell’epoca, si impegna per impartirgli una buona educazione e istruzione: a quanto si sa, nessun evento traumatico sconvolge la sua vita da adolescente. Alunno diligente, frequenta l’istituto di Ingegneria Meccanica a Parigi, abbandonando gli studi per la leva militare obbligatoria e una successiva carriera nell’esercito francese, che lascerà dopo quattro anni con il grado di sergente.

Con l’abbandono della carriera militare iniziano i problemi, giacché, per la prima volta, si trova a contatto con una società troppo veloce e ostile per lui, che deve sostenere due nuclei familiari: aveva avuto una figlia da una cugina, sposando poi un’altra donna, che gli darà altri quattro figli.

La nascita dei bambini gli procura un forte dissesto economico e Henri cambia 15 lavori prima d’entrare nel mondo delle truffe. Tutto inizia con una campagna pubblicitaria nazionale nella quale propone una bicicletta fabbricata dall’azienda di famiglia: l’ordine di acquisto doveva essere accompagnato da un terzo del prezzo di vendita; gli ordini fioccano e Landru scompare con i soldi senza mai consegnare una bicicletta. Negli anni successivi entra ed esce dalle carceri francesi, sempre per frode. Nel 1906, dopo un tentativo di suicidio in carcere, alcuni psichiatri lo dichiarano malato mentale lieve. Nel 1910 muore sua madre, e il padre, che aveva sempre vissuto al fianco di Henri, si suicida due anni dopo, demoralizzato dal fatto che il figlio fosse ormai da considerare un criminale a tutti gli effetti.

In prigione inizia a inserire sotto falso nome alcuni annunci matrimoniali su piccoli giornali di provincia, e una vedova di Lille, cedendo alle sue avance, gli lascia una dote di 15.000 franchi, con i quali fugge dopo aver scontato la pena; la truffa viene presto alla luce, e solo le false generalità fornite, che lo rendono irreperibile, gli evitano di scontare la condanna a quattro anni di carcere e alla deportazione in una colonia penale d’oltremare.

Con intuito degno di un sociologo o economista, Landru comprende come indirizzare le sue truffe durante il primo conflitto mondiale e nell’immediato dopoguerra: gli uomini morti al fronte lasciano una quantità immensa di vedove di ogni età e condizione economica, le quali, in molti casi, cercano una seconda occasione di vita sentimentale, riempiendo di inserzioni i giornali dell’epoca. Landru fiuta l’affare, pubblicando annunci inizialmente generici (“Signore serio desidera sposare vedova o donna incompresa tra i 35 e i 45 anni”), per poi alzare e precisare il tiro: “Signore, 45 anni, solo, senza famiglia, posizione 4000, con interessi, desidera sposare signora d’età con posizione equivalente”. Di colpo diviene il centro d’attrazione di centinaia di vedove, mantenendosi in contatto con 283 signore, tra le quali seleziona quelle più benestanti; dieci, e il figlio decenne di una di loro, gli saranno attribuite come vittime.

Quest’uomo barbuto, dotato di fascino, sicurezza di sé e modi eleganti, non uccide per impeto, né indulge in particolari grandguignoleschi; presumibilmente strangola le sue vittime e ne incenerisce i corpi nel forno della casa isolata affittata per le sue opere di seduzione. Organizzato e meticoloso, razionalmente predispone tutti i preparativi anzitempo e, raggiunto l’obiettivo (una procura per disporre dei beni delle donne), uccide e spoglia la vittima di ogni oggetto di valore, annotando il tutto sul suo inseparabile taccuino. Un vero e proprio lavoro, necessario a mantenere la sua numerosa famiglia, un lavoro da svolgersi con ferrea disciplina.

Sotto il profilo criminologico, il suo modus operandi è stato ricondotto a quello dell’omicida seriale per guadagno personale, in base al movente dei suoi delitti; la motivazione individuale sarebbe la ricerca della soddisfazione di una serie di bisogni personali, che divengono prioritari rispetto a considerazioni di ordine morale. Secondo questa chiave di lettura, l’assassino opererebbe un profondo processo di depersonalizzazione delle vittime che gli consenta di privarle delle qualità umane, trasformandole in semplici oggetti; gli omicidi seriali di questa categoria sarebbero quindi dei sociopatici puri, privi di sentimenti empatici, tuttavia la disamina del caso Landru condotta da una psicoanalista lacaniana francese suggerisce aspetti di ben maggiore complessità.

Intanto gli abitanti delle case vicine, insospettiti dai miasmi provenienti dal camino della villa in ogni stagione, reiterano segnalazioni alla polizia locale, mentre i parenti delle donne scomparse in tutta la Francia attivano faticose ricerche, ma non ci sono prove, né cadaveri, e nemmeno il vero nome del misterioso seduttore di vedove.

Solo una fortunosa concatenazione di circostanze porta al riconoscimento di Landru da parte della sorella di una delle scomparse e all’arresto, il 12 aprile 1919. Gli viene sequestrato il taccuino e si perquisisce la villetta con scarsi esiti. La polizia è costretta a giustificare l’arresto in base a denunce per truffa ed estorsioni.

Il 7 novembre 1921, davanti alla corte d’assise di Seine-et-Oise, presso la sede di Versalles, si apre il processo e da subito la popolarità del caso è eccezionale. Non è stato rinvenuto alcun corpo, solo frammenti di ossa e denti, numerosi abiti e carte legali, ma non c’è nulla che possa provare l’omicidio delle undici persone indicate nel taccuino. Henri si dichiara innocente, ammettendo tuttavia di aver truffato le presunte vittime; si comporta in maniera distaccata, a volte provocatoria nei confronti della corte (“Mostratemi i cadaveri!”). La sua eleganza e socievolezza, l’attenzione e precisione da studioso gli guadagnano la simpatia popolare: la gente non riesce a credere che quel piccolo uomo abbia ucciso dieci donne e un bambino.

A rendere ancora più popolare l’affare Landru concorrono anche fattori esterni: il processo coincide con la firma dei trattati di pace di Clemenceau, per cui è stato detto che la stampa abbia fatto di tutto per distogliere l’attenzione dalla sofferta conferenza di pace, dando massimo rilievo al “mostro”; inoltre, l’avvocato difensore non è un legale qualunque: si tratta di Vincent Moro-Giafferi, deputato socialista, che aveva partecipato alla resistenza contro i tedeschi e la cui arringa difensiva finale lascia pensare a un possibile esito favorevole.

Nonostante l’assenza di prove risolutive e di una confessione, la giuria giudica Landru colpevole, ma propone di raccomandarne la grazia, che però non viene accettata. Il 30 novembre 1921 viene condannato a morte e la sentenza viene eseguita il 25 febbraio successivo, nel cortile della prigione di St. Pierre a Versailles, dove è allestito il patibolo. Poiché l’uso del palco per i giustiziati era stato soppresso da un decreto governativo, la ghigliottina è posta a livello del suolo, per cancellare il lato spettacolare dell’esecuzione: non è più il tempo dello “splendore dei supplizi” rappresentato da Foucault.

La testa mozzata di Landru, mummificata, si trova nel Museum of Death di Hollywood. Esposto in un museo di Parigi, ancora oggi, è visibile il suo inseparabile taccuino. Non è mai stato accertato come uccidesse le sue promesse spose, non si è mai capito quali fossero le sue sensazioni, i suoi sentimenti reali nei confronti delle vittime, né tanto meno ciò che provava durante gli omicidi, ma quei fogli, dove segnava con maniacale precisione tutti i suoi profitti, costituiscono ancor oggi un vero e proprio simbolo del suo stile.

Silvia Boverini

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Fonti:
www.it.wikipedia.org; www.adir.unifi.it; F. Biagi-Chai, “Le cas Landru à la lumière de la psychanalyse”, Imago, Paris 2007; M. Julini, “25 febbraio 1922: Henri Landru viene ghigliottinato a Versailles”, www.bdtorino.eu; M. Curtoni, M. Parolini, “Dizionario dei Serial Killer”, Vallardi 1998; F. Petrucci, “Henri Landru, assassino gentiluomo: ecco chi era il vero Barbablù”, www.altriconfini.it; F. Canalini, “Uno spietato assassino di nome Henri Landru”, www.viaggiatoricheignorano.blogspot.com

Iwo Jima: una fotografia che fece la storia

1945, Seconda Guerrra Mondiale. Iwo Jima, isola giapponese sperduta nell’Oceano Pacifico, è teatro di una sanguinosa disputa tra Americani e Nipponici. I primi ambivano a conquistarla per avere una base di partenza per la propria aviazione, più vicina di quanto non fossero la Cina e le Isole Marianne; i secondi la usavano, al pari di Okinawa, come scudo contro un eventuale sbarco alleato sulle isole metropolitane.

Gli USA, forti della superiorità numerica e di armamenti, approdarono a Iwo Jima il 19 febbraio, dopo alcuni mesi di bombardamenti aerei. Serviranno, però, più di un mese e di 70.000 soldati per espugnare completamente la fortezza, difesa da appena 20.000 giapponesi.

Per quanto strategicamente importante, l’operazione non divenne famosa per meriti di guerra, bensì a causa di una fotografia. Il 23 febbraio, dunque lungi dalla conclusione dello scontro, il fotografo Joe Rosenthal immortalò sei soldati nell’atto di issare la bandiera americana sulla cima del monte Suribachi. Lo scatto, denso di un potere iconico di cui lo stesso fotografo non era inizialmente consapevole, fece il giro degli States in un tempo brevissimo per l’epoca.

Visto lo strapotere visivo, il governo Roosevelt (e poi quello Truman) decise di mettere l’immagine al centro della campagna propagandistica a favore del prestito di guerra nazionale. I disastrosi bilanci del conflitto furono un elemento di forte motivazione. La foto, inoltre, vinse nel 1945 il premio Pulitzer, e fu riprodotta in vari formati: dai francobolli al memoriale dei Marines ad Arlington, in Virginia.

Flags of our fathers, libro scritto da James Bradley, figlio di un presunto soldato immortalato, racconta proprio la storia dello scatto e delle conseguenze sui militari coinvolti (al pari dell’omonimo film di Clint Eastwood del 2006). Di quei sei, ne sopravvissero tre, i quali furono fatti rientrare in patria quanto prima, proprio per dare maggior lustro a quell’impresa. Il mostro mediatico se li divorò durante il tour di propaganda.

Emersero, nel corso degli anni, diverse questioni riguardanti l’identità dei soggetti. La più rilevante ha trovato la sua conclusione addirittura nel 2016, quando il Corpo dei Marines ha ufficializzato che John Bradley (padre dello scrittore del best seller) fu scambiato con Harold Schultz. Altro punto d’interesse, il fatto che il gesto immortalato non fu il primo: quando Rosenthal raggiunse la cima del monte, infatti, trovò una bandiera già piantata. Mentre cercava chi l’aveva innalzata, altri sei ne stavano allestendo una seconda, più grande. Furono costoro a entrare nella storia.

Alessio Gaggero

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Lo stalking è reato anche in Italia

[…] chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita.

Così vennero definiti, nel nostro codice penali, gli atti persecutori. Prima, il nostro paese non era provvisto di una normativa specifica sul tema. Il decreto legge del 2009, che portava la firma dell’allora Ministro dell’Interno Roberto Maroni, riempì la lacuna, grazie al voto di tutte le forze politiche.

Essere seguiti, pedinati, sommersi da sms e/o mail, molestati con approcci di ogni genere: questo, e altro ancora, significa essere vittima di stalking. Le conseguenze possono essere molto pesanti: non riuscire più a lavorare, ad avere una normale vita sociale, subire gravi danni materiali, psicologici e a volte anche fisici.

In precedenza, lo Stato permetteva questi comportamenti, purché non si arrivasse ad altre fattispecie criminose, quali, ad esempio, la violenza privata, la minaccia o le molestie in luogo pubblico, o col mezzo del telefono. Dall’entrata in vigore di quel decreto sicurezza, invece, la giustizia può tutelare in modo molto più efficace le vittime di stalking.

Alessio Gaggero

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L’umanità scomoda di Totò

Subito dopo aver realizzato Guardie e Ladri, 1951 (di cui abbiamo parlato qui), Totò proseguì la sua collaborazione con la coppia di registi composta Steno e Mario Monicelli, finché due anni dopo interpretò Totò e Carolina, del solo Monicelli. Uno dei film italiani più censurati di sempre [1]. Il 22 febbraio del 1954 il giudizio della Commissione Censura, nel respingere l’autorizzazione richiesta per la sua distribuzione nelle sale cinematografiche, valutava il film come:

«offensivo della morale, del buon costume, della pubblica decenza, nonché del decoro e prestigio delle forze di Polizia».

Girato tra l’ottobre del ’53 e il gennaio del ’54, Totò e Carolina aveva suscitato l’indignazione anche del ministro degli Interni, Mario Scelba.

L’umanità sovversiva di Totò e Carolina

In Totò e Carolina, dopo aver interpretato il ladruncolo in Guardie e ladri, toccò a Totò la parte della guardia (l’agente Caccavallo). Anche in tal caso una guardia che finisce con lo sviluppare un rapporto umano con un soggetto deviante [2]. Infatti, dopo aver arrestato per errore, durante una retata della buon costume, una giovane donna, Carolina (Anna Maria Ferrero), che in realtà stava tentando il suicidio, l’agente è incaricato di ricondurla al suo paese e di trovare lì qualcuno cui affidarla. Poiché, però, Carolina è incinta nessuno vuol saperne di accoglierla in casa, neppure i suoi parenti. Il questurino, che è vedovo, finirà per riportare a la ragazza a Roma, proponendole di andare a vivere con lui, il figlio e l’anziano padre.

Oltre gli stereotipi e al di qua del rancore e dell’odio sociale

L’agente interpretato da Totò, come quello di Aldo Fabrizi in Guardie e ladri, aveva in sé qualcosa di “sovversivo”. Non soltanto non si lasciava abbruttire dal disagio sociale che vive, ma restava capace di rapportarsi agli altri per come sono e non per come le società le etichettava. Così si svincolava dalla mentalità dominante, che imponeva a ciascuno di sfogare le proprie frustrazioni de-umanizzando e criminalizzando chi era ancora più povero ed emarginato. Anche Caccavallo, infatti, viveva in un misero tugurio e stentava a mantenere la famiglia. Tanto che il suo anziano padre si trovava costretto a rubare i calzini sulla terrazza [3].

L’anti-eroe di Totò

Il personaggio interpretato da Totò, però, non è privo di ombre. Anzi, è un poliziotto il cui interesse per l’avanzamento di grado non ha nulla a che fare con il desiderio fornire un contributo più incisivo alla lotta contro il crimine. Né è motivato dalla ricerca di una realizzazione personale. Ingenuo ma accondiscendente verso il suo superiore, spera di ingraziarselo costruendogli un busto con le molliche di pane, che perciò sottrae al padre. In realtà, gli interessa solo avere uno stipendio più consistente alla fine del mese, dato che vive in una casupola e stenta a mantenere la famiglia [4].

…con un cuore

Inoltre, la sua empatia verso Carolina emerge poco a poco, essendo preceduta da una certa ostilità nei suoi confronti poggiata su istanze puramente egoistiche. Il poliziotto, infatti, teme che la ragazza possa tentare di uccidersi ancora mentre è sotto la sua responsabilità, cacciandolo nei guai. Perciò, in un primo momento, quell’ansia lo rende particolarmente duro, scontroso e intransigente con lei. Poi, però, diventa sempre più comprensivo. Vedendo come essa venga rifiutata dai “buoni paesani”, finisce con l’essere disgustato dal loro perbenismo opportunista e ipocrita. Perciò, smettendo di pensare prima a se stesso, decide, infine, di portarla a casa di un «fesso», cioè a casa sua [5].

L’accanimento della censura

Proprio gli aspetti che rendevano il poliziotto interpretato da Totò una persona capace di restare umana, rendevano il film inammissibile per l’organo statale di censura. Più, in generale, a rendere inammissibile il visto della censura era il fatto che in quell’opera venissero messi in discussione pregiudizi e stereotipi diffusi nella mentalità dominante, nonché l’ipocrisia e l’ottusità della gente cosiddetta “perbene”.

L’inammissibile smascheramento della “violenza simbolica” propria dell’ottusità moralista

In aggiunta a tutto quanto più avanti spiegato, ciò che costituiva un autentico vulnus per la commissione censoria era l’esplicita, per quanto non didascalica, denuncia di ciò che Pierre Bourdieu definiva “violenza simbolica (ne abbiamo parlato qui in occasione del diciassettesimo anniversario della sua morte). Quella esercitata semplicemente dall’ordine delle cose e il cui effetto su chi la subisce «è di essere messo nella condizione di pensare che non sta subendo alcuna violenza». Carolina, infatti, sapendosi giudicata colpevole dalla società, che non accetta lei e mai accetterà suo figlio, soffre ma non pare conscia fino in fondo delle ingiustizie inflittele.

L’inammissibile denuncia della violenza maschilista e reazionaria

Certo Carolina non prova sentimenti amichevoli per i parenti e i compaesani che la sfuggono come se fosse un’appestata, però pensa di farla finita. In altre parole, immagazzina dentro di sé la violenza morale di cui è fatta oggetto e tenta di tradurla in fatto. Respinta nel buio da una comunità, che cinica, maschilista e priva di umanità, la colpevolizza, cerca di fare ciò che essi inconfessabilmente vorrebbero: sprofondare nelle tenebre.

Manifestanti comunisti dai risvolti umani

Non era concepibile, inoltre, per l’organo di censura che i comunisti fossero presentati come dei bonaccioni. Del resto, i comunisti proprio non potevano essere portati sullo schermo (se non nella serie di Don Camillo). Così la censura intervenne pesantemente sulla scena in cui i manifestanti accalcati su di un camion aiutano Totò a spingere la sua jeep in panne. Monicelli, in seguito, ricordò:

«quando il film uscì non si capiva più chi era quel gruppo d’imbecilli con le bandiere su un camion, né cosa facessero!».

Niente “bandiera rossa”

Infatti, nella stesura originale i manifestanti cantavano “bandiera rossa“, ma nella versione censurata il canto diventava “di qua, di là dal Piave[6]. Venne anche cambiata la scena in cui un vecchio, incaricato da Totò di sorvegliare Carolina (mentre lui e gli altri manifestanti spingono la jeep del poliziotto), dopo aver chiesto alla ragazza se è comunista e aver udito la sua riposta affermativa, grida «Abbasso i padroni» (nella versione censurata la frase diventa «Viva l’amore»).

Dialoghi scandalosi

Un’altra battuta censurata era quella di Carolina:

«il suicidio è un lusso, i poveri non hanno nemmeno la libertà di uccidersi».

Nella versione censurata tali parole furono coperte dalla colonna sonora.

«Scusi, Eccellenza»

Tra le scene tagliate, ve n’è una all’inizio del film, che proprio non andava giù alla censura. In occasione della retata a Villa Borghese volta a catturare prostitute e clienti, si vedeva un agente che apriva la portiera di un auto ma subito si scusava con l’occupante, dicendo:

«Scusi, Eccellenza».

«Il personaggio interpretato da Totò in questo film appartiene al mondo…»

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Gli interventi censori alla fine esitarono in 31 tagli e 23 battute modificate. Alla fine il film uscì nelle sale solo nell’aprile del 1955, quasi un anno dopo. Degli iniziali 2595 metri di pellicola, dopo i tagli, se ne salvarono 2386. Osservò Mario Monicelli che «restava solo la storiella del questurino che alla fine si portava a casa la ragazza, magari con un’aria un po’ equivoca» [7].  Non paga di ciò la Commissione censoria sovrappose all’inizio del film la seguente schermata:

«Il personaggio interpretato da Totò in questo film appartiene al mondo della pura fantasia. Il fatto stesso che la vicenda è vissuta da Totò trasporta tutto in un mondo e su un piano particolare. Gli eventuali riflessi nella realtà non hanno riferimenti precisi e sono sempre riscattati dal quel clima dell’irreale che non intacca minimamente la riconoscenza ed il rispetto che ogni cittadino deve alle forze della Polizia».

I facili moralismi e i pregiudizi ottusi che nel film venivano svelati, trovarono così una ulteriore conferma istituzionale, seppure involontaria, dopo quella già contenuta nel giudizio della commissione del 22 febbraio ’54.

Altro che mondo della pura fantasia!

In realtà, il film di Monicelli, su un soggetto di Flaiano e sceneggiato da Age, Furio Scarpelli, Rodolfo Sonego, Suso Cecchi d’Amico e lo stesso Monicelli, pur stravolto dalla censura, conservava ancora un forte impianto realistico. E a ciò concorreva in modo determinante la performance degli attori, Totò e Anna Maria Ferreo in testa. Per quanto riguarda la capacità del primo di dare spessore umano, basta rivedere la scena in cui interagisce con crescente disgusto con la bigotta e ossequiosa famiglia Barozzoli, scoprendone la profonda ottusità e corruzione.

L’opera restaurata e la sua proiezione nel Festival del CinemaINstrada

Nel 1999 grazie ad alcuni ritrovamenti in varie cineteche il film fu restaurato e in parte reintegrato nelle parti mancanti. In particolare, tra le proiezioni in pubblico vale la pena ricordare quella realizzata nel 2005, a seguito di un lavoro di video interviste e di inchiesta sul campo coinvolgente gli abitanti del quartiere ad alta densità migratoria, Barriera di Milano, a Torino. La versione restaurata e reintegrata delle parti mancanti di Totò e Carolina, infatti, fu proiettata in italiano e con sottotitoli in italiano, nell’ambito della seconda edizione del festival CinemaINStrada. Un’iniziativa culturale tra le cui particolarità vi era quella di far precedere le proiezioni da un’attività di coinvolgimento e video-interviste dei residenti, italiani e stranieri, con i quali scegliere le loro pellicole “del cuore”. Ideato e sviluppato dall’Associazione i313, quel progetto culturale, che ebbe ben 9 edizioni, si fondava sull’idea che il cinema, con la sua capacità di suscitare emozioni e di permettere di scoprire l’umanità dell’altro, fosse un’ottima risorsa per permettere a persone con culture, nazionalità ed esperienze diverse di conoscersi e riconoscersi. Se nella prima edizione la scelta del film italiano era caduta su Guardie e ladri, nella seconda l’opera italiana della rassegna fu Totò e Carolina. Come gli altri titoli indicati dagli abitanti intervistati (pellicole prodotte nei diverse Paesi d’origine degli abitanti), era un’opera capace di suscitare identificazione in tutti gli spettatori, a prescindere dalla cultura di appartenenza.

Fa riflettere il fatto che appena una manciata di anni fa, gli abitanti di Barriera di Milano scelsero come opera italiana da proiettare in piazza un film tanto poco indulgente su ciò che, a qualsiasi latitudine, può intossicare una comunità: la chiusura mentale, il bigottismo, l’opportunismo, l’ignoranza, l’arroganza e il rifiuto dei più disagiati. Ed è ancora toccante ricordare, quell’8 luglio del 2005, le espressioni sui volti del pubblico alla fine del film rispetto alla sobria commozione di una solidarietà tra esseri umani, Totò e Carolina, mitigata dall’ironia.

Alberto Quattrocolo

[1] Totò, Monicelli e Steno realizzarono altri tre film, tra il ’52 e il ‘53, Totò e i re di Roma, Totò a colori Totò e le donne. Totò a colori risultò firmato dal solo Steno, mentre Totò e le donne, realizzato da Steno, fu co-firmato anche da Monicelli per pure ragioni contrattuali. Nel post su Guardie e ladri (L’umanità da non perdere) abbiamo ricordato come il film, presentato alla Commissione di Revisione Cinematografica presieduta da Giulio Andreotti il 19 luglio 1951, venne respinto il 2 agosto e ottenne poi il visto di censura n. 10.313 del 23 ottobre 1951. Anche Totò cerca casa (Steno e Monicelli, 1949), precedente a Guardie e ladri, aveva avuto qualche piccola difficoltà con la censura. Infatti, i produttori,  all’insaputa dei due registi, avevano fatto leggere i copioni dei loro film all’addetto alla censura Annibale Scicluna Sorge, prima che iniziassero le riprese. Costui diede alcuni “consigli” ai produttori sulle scene non dovevano essere girate. Anche nel caso di Guardie e ladri il rapporto con Scicluna Sorge fu a dir poco conflittuale. Infatti, si svolsero delle sedute al Ministero dello spettacolo per convincere Scicluna Sorge che con quel film registi e sceneggiatori non intendevano minare le basi della società italiana. Per il censore, però, la fraternizzazione fra guardia e ladro era un attacco alle istituzioni. I due registi, perciò, dovettero modificare e tagliare alcune scene e battute, che erano state considerate da Scicluna Sorge “sovversive”. Come dichiarò Monicelli, nel film «non c’era niente di censurabile, se non l’idea in sé». Comunque, accontentata la commissione con alcune modifiche ai dialoghi, i registi ottennero infine il via libera. A differenza di Guardia e ladri, i successivi Totò a colori e Totò e le donne non procurarono a Totò e agli autori particolari problemi con la censura. Qualcuno ne ebbe, invece, Totò e i re di Roma. Il titolo inizialmente previsto per Totò e i re di Roma era E poi dice che uno…, con riferimento a una frase pronunciata spesso da Totò durante il film: «E poi dice che uno si butta a sinistra…!». Ma la censura non lo permise. Inoltre, nella scena dell’interrogazione, quando Alberto Sordi chiede a Totò il nome di un pachiderma, si sente la risposta doppiata con voce diversa, che risponde: «Bartali!». Leggendo il labiale di Totò, invece, si può capire che pronuncia «De Gasperi!». Inoltre, fu tagliata una intera pagina di dialogo del colloquio finale tra Totò e Dio, ritenuta troppo irrispettosa nei confronti della religione. Analogamente fu giudicato inaccettabile che il protagonista ricorresse al suicidio per salvare la famiglia. Per correggere tale “provocazione”, fu introdotta una voce fuori campo a fine film, così da trasformare il senso del finale, rendendolo una sorta di sogno. Per la stessa ragione fu tagliata la battuta con cui Totò, preparandosi a morire, chiedeva di vedere per l’ultima volta le sue cinque figlie: era un’allusione troppo esplicita al suicidio. Più tormentata ancora fu la successiva vicenda censoria di Totò e Carolina.

[2] La reazione della censura democristiana dell’epoca, involontariamente, permette di evidenziare un aspetto che accomuna Guardie e ladri e Totò e Carolina. Nel primo, infatti, Aldo Fabrizi interpretava un poliziotto che finiva con lo sviluppare un rapporto umano con un delinquente (Totò) e la sua famiglia, al punto che il ladro si faceva portare in prigione proprio per aiutare la guardia.

[3] Ma Totò non scarica tali patemi e sofferenze su quelli più disgraziati di lui. Nel suo ruolo di uomo d’ordine, anzi, si scopre indisponibile ad esercitare un potere in cui in egli per primo non si riconosce, rifiutandosi, in particolare, di continuare a fare il forte con i deboli e il debole con i forti.

[4] Del resto, come previsto nella sceneggiatura originale, gioca al lotto.

[5] E non si tratta di una decisione opportunistica, ma del naturale sviluppo di un legame all’insegna di una vera e propria solidarietà fra esseri umani vilipesi, umiliati e trascurati dalla società.

[6] Inoltre, un altro camion con a bordo un gruppo di boy scout  canta “Noi vogliam Dio…”, ma in realtà si tratta di una sovrapposizione di voci fuori campo, perché tutti i ragazzi hanno la bocca chiusa.

[7] Analogamente a quanto accadeva negli Stati Uniti – dove, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, la montante paranoia anti-comunista aveva portato addirittura all’istituzione di una Commissione senatoriale d’indagine sulle attività anti-americane, cioè una caccia ai comunisti o presunti tali, che si era interessata anche e molto dell’industria dell’intrattenimento a partire da quella cinematografica -, si suppose che esistesse anche in Italia una lista con i nomi dei registi comunisti italiani e che fosse in mano della Commissione di censura. Per quanto Monicelli non fosse iscritto al P.C.I., ma fosse, invece, un elettore del P.S.I., decise di farsi sentire: «In tal caso è chiaro che basta pochissimo oggi per essere giudicato comunista. Basterebbe, oggi, rifare Ladri di biciclette (1948, di Vittorio De Sica) per vedersi negare il visto di censura».

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Fonti

La visione di Totò e Carolina

Alberto Anile, Totò proibito, Lindau, 2005

Gian Piero Brunetta, Guida alla storia del cinema italiano (1905-2003), Einaudi, Torino, 2003

Orio Caldiron, Totò, Roma, Gremese, 2001

Tatti Sanguineti. Totò e Carolina, Transeuropa, Bologna,  1999

Aldo Viganò, Commedia italiana in cento film, Le Mani, Recco, 1999.

Malcom X assassinato a New York

Nessuno può darti la libertà. Nessuno può darti l’uguaglianza o la giustizia o qualsiasi altra cosa. Se sei un uomo, te le prendi.

La X che campeggia in fondo al suo nome (così come la frase in alto) ben rappresenta l’obiettivo che si diede nella vita: liberarsi dal giogo impostogli dalla nascita. Malcom nacque infatti all’interno di una famiglia di cui lui stesso riconosceva le origini in una realtà di schiavitù:

Mio padre non conosceva il suo vero cognome. Lo ricevette da suo nonno che a sua volta lo ricevette da suo nonno che era uno schiavo e che ricevette il cognome dal suo padrone.

L’ascendenza priva di libertà, forse unita a una storia famigliare molto difficile (il padre mancò quando lui aveva sei anni, probabilmente assassinato da un gruppo di suprematisti bianchi; la madre fu ricoverata in un ospedale psichiatrico; i figli vennero divisi tra famiglie affidatarie e orfanotrofi), gli fornirono dei buoni motivi per volersi riscattare. Scelse, perciò, di sostituire il proprio cognome con la sola lettera X, per segnare un netto stacco da ciò che era successo prima.

Questo passaggio arrivò dopo una gioventù piuttosto burrascosa, che gli costò anche una condanna a otto anni di reclusione per dei furti in appartamento. Seppe però fare tesoro dell’esperienza nel penitenziario, poiché qui si avvicinò alla Nazione Islamica, un gruppo di suprematisti neri che ne predicava l’emancipazione, attraverso un’interpretazione originale della religione islamica.

Scontata la pena, iniziò il periodo di militanza nel movimento, che, anche grazie al carisma di Malcom, vide il numero dei propri seguaci salire vertiginosamente. In questo periodo espresse posizioni particolarmente radicali, che lo spinsero a dire che i neri degli Stati Uniti dovevano lottare per i loro diritti “con tutti i mezzi necessari”.

Proprio per quanto riguarda le modalità dell’attivismo si pose in netto contrasto con un altro grande leader dei diritti civili: Martin Luther King. La non-violenza fu oggetto di dure critiche, al pari della Marcia su Washington, l’evento durante il quale King pronunciò il celeberrimo discorso I have a dream:

Fatta da bianchi davanti alla statua di un presidente morto da cento anni e al quale, quando era vivo, noi non piacevamo.

Se il pastore protestante di Atlanta tentò addirittura di instaurare un dialogo con il Presidente Kennedy, l’attivista islamico di Omaha riteneva che tutti i bianchi fossero intrinsecamente malvagi, o comunque colpevoli dell’oppressione dei neri.

Paradossalmente, o forse no, fu proprio dopo aver abbandonato la Nazione Islamica che avvenne un cambiamento di prospettiva. Il successivo pellegrinaggio alla Mecca costituì un passaggio significativo:

In passato, è vero, ho condannato in modo generale tutti i bianchi. Non sarò mai più colpevole di questo errore; perché adesso so che alcuni bianchi sono davvero sinceri, che alcuni sono davvero capaci di essere fraterni con un nero.

Una rinnovata fiducia nei propri principi religiosi gli permise di ricominciare con nuova motivazione l’attività di difesa dei diritti umani. Sfortunatamente, questo periodo ebbe vita breve. Il 21 febbraio 1965, venne assassinato in circostanze mai chiarite durante un suo comizio ad Harlem, New York. Nel medesimo quartiere ebbe luogo il funerale, a cui parteciparono 1.500.000 persone.

Alessio Gaggero

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Luca Coscioni muore il 20 febbraio 2006

Non è una battaglia che ho scelto io, è lei che ha scelto me.

Il 20 febbraio 2006 muore a 38 anni Luca Coscioni, dal ’95 affetto da sclerosi laterale amiotrofica (SLA); muore soffocato perché non vuole la tracheotomia, rifiuta di continuare a vivere attaccato a una macchina. Non può parlare, è bloccato su una sedia a rotelle e completamente dipendente nei movimenti, eppure rivendica e mette in atto il diritto dell’individuo di decidere liberamente sulla propria vita e la propria morte.

Luca non è un paziente qualunque: ha fondato l’associazione che porta il suo nome per battersi per i diritti d’informazione e libertà di scelta di tutti i malati, è da sempre attivo nel sociale e in politica, ha condiviso le sue battaglie con i Radicali Italiani, di cui è stato presidente tra il 2001 ed il 2006.

Alla sua morte, i messaggi di cordoglio del mondo politico lo battezzano eroe, testimone di speranza, esempio da imitare: sono tuttora visibili, alla pagina web “Ciao Luca”, novantatré pagine di agenzie di stampa con testimonianze di accorata partecipazione da tutto l’arco costituzionale. Eppure, quella stessa politica che lo ha salutato commossa lo aveva emarginato, non voleva saperne delle sue lotte e delle sue idealità. In vita Luca era stato letteralmente bandito, sgradito sia al centro-sinistra che al centro-destra. Faceva, era scandalo: scandalo quel corpo malato che non accettava pietà, ma voleva giustizia, quel corpo messo in gioco per dare speranza a tutti quei malati che ancora oggi non sono riconosciuti come persone e diventano oggetti di scambio per la politica; si è detto che il suo era un “corpo politico”, una “straordinaria risorsa narrativa ed emotiva, tanto più nell’era dell’immagine. Il corpo come arma definitiva.”. Non gli veniva perdonato che si battesse per il rispetto di quei diritti che la Costituzione prevede e sancisce: il diritto a una vita dignitosa, il diritto a una morte non umiliante. Non gli si perdonava il suo essere contro ogni proibizionismo nella ricerca scientifica.

Nato nel 1967 a Orvieto, nella prima parte della sua vita insegna Economia ambientale all’università di Viterbo ed è un maratoneta appassionato; lo spartiacque è il 1995, come racconta lui stesso:

Mentre mi alleno per New York, fatti pochi passi, sono costretto a fermarmi, non riesco più a correre. Ancora non lo sapevo, ma quello sarebbe stato il mio ultimo allenamento. Due mesi dopo, mi viene diagnosticata la SLA. Il neurologo non ha la forza di comunicarmi personalmente che è stata emessa, nei miei confronti, una sentenza di condanna a morte. Mi consegna, quindi, in busta chiusa, una lettera, che avrei dovuto consegnare al mio medico di famiglia. Su quella lettera c’era scritto che entro tre-cinque anni sarei morto, paralizzato nel mio letto.

Luca viene visitato in vari ospedali, senza beneficio. In Italia ci sono circa 5mila persone affette da SLA, o morbo di Lou Gehrig; un numero incerto, calcolato sulle statistiche (1,5 casi ogni 100mila), visto che l’attivazione di un registro nazionale è stata promossa solo dal 2017, su iniziativa dell’AISLA. Solo dal 2001 inclusa nell’elenco delle patologie rare, è una malattia degenerativa del sistema nervoso, colpisce i neuroni che danno impulsi ai muscoli del corpo, provocando crescenti problemi al movimento, alla nutrizione, alla parola.

Tuttavia, le capacità intellettive di Luca permangono intatte e, quattro anni dopo la diagnosi, si sposa e decide di ritornare alla politica. Quando il Parlamento europeo vota una mozione contro la clonazione terapeutica, nel 2000, decide di candidarsi alle elezioni online per il rinnovo del Comitato Nazionale dei Radicali Italiani, l’organo deliberativo del movimento, promuovendo una campagna ispirata ai valori della laicità e della tutela dei diritti civili, contro il proibizionismo nella ricerca scientifica. Viene eletto e i radicali fanno della battaglia per la libertà di ricerca sulle cellule staminali il tema centrale della loro campagna per le elezioni politiche del 2001.

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Luca Coscioni è il candidato capolista ed è sostenuto da un appello firmato da decine di premi Nobel di tutto il mondo, tra cui lo scrittore José Saramago, che gli dedica pubblicamente parole di profonda stima. Partecipa a dibattiti televisivi nazionali, comunicando mediante il suo sintetizzatore vocale, viene ricevuto dal presidente della Repubblica Azeglio Ciampi e dal ministro della Sanità Umberto Veronesi, partecipa a sit-in di protesta e arriva ad autoridurre i propri farmaci, in un’azione nonviolenta atta a denunciare l’insufficiente informazione da parte della televisione pubblica sulla questione della libertà della ricerca scientifica.

Non viene eletto, ma pochi mesi dopo è di nuovo sostenuto da centinaia di scienziati, medici, malati e personalità politiche e della cultura come candidato per il rinnovo del Comitato Nazionale di Bioetica. Nonostante l’imponente mobilitazione, non viene scelto: secondo alcuni, pesano a suo sfavore la mancanza di titoli specifici nel curriculum e il ruolo di Presidente di Radicali Italiani, ma forse lo feriscono e indignano anche di più le parole di una docente eletta tra i nuovi membri, secondo cui la candidatura è stata respinta perché “il Comitato non è il luogo di rappresentazione del dolore del mondo”.

Per continuare a porre all’attenzione dell’opinione pubblica le istanze che connotano le sue battaglie, il 20 settembre del 2002, giorno in cui in Italia si commemora la liberazione di Roma dal potere temporale del Vaticano, viene fondata l’Associazione Luca Coscioni, con “lo scopo di promuovere la libertà di cura e di ricerca scientifica, l’assistenza personale autogestita e affermare i diritti umani, civili e politici delle persone malate e disabili”. Luca si impegna a 360 gradi per difendere i diritti dei malati: quando si combatte, si combatte per tutti.

Il suo obiettivo è “restituire mani e voce a chi mani e voce non ha oppure non può più utilizzarle o ancora utilizzarle solo con grandi difficoltà”. Ha sperimentato sulla propria pelle che la persona malata, non appena una diagnosi le fa assumere questo nuovo status, perde immediatamente elementari diritti umani, tanto più quanto più gravi sono le condizioni di salute, e s’infuria contro chi lo considera “un povero handicappato strumentalizzato”:

La mia, la nostra battaglia radicale per la libertà di Scienza, mi ha consentito di riaffermare, in particolare, la libertà all’elettorato passivo, il poter essere cioè eletto in Parlamento, per portare istanze delle quali nessun’altra forza politica vuole e può essere portatrice.

La sua voce, resa metallica dal sintetizzatore vocale, diviene un tratto distintivo nelle numerose occasioni in cui prende la parola in pubblico:

La comunicazione è vita. Privare una persona di questa facoltà non equivale a toglierle la vita. È molto peggio. Significa imprigionarla in un corpo che non ha più alcun senso di esistere. Se poi questo corpo è anche completamente immobile o soltanto parzialmente mobile, non poter comunicare diviene una vera e propria tortura psicologica e fisica.

La sua è anche, e consapevolmente, una lotta urgente:Il fatto è che non ho molto tempo, non abbiamo molto tempo. E, tra una lacrima e un sorriso, le nostre dure esistenze non hanno bisogno degli anatemi dei fondamentalisti religiosi, ma del silenzio della libertà. Le nostre esistenze hanno bisogno di libertà per la ricerca scientifica. Ma non possono aspettare. Non possono aspettare le scuse di uno dei prossimi papi.

L’Associazione Luca Coscioni, dopo essere stata impegnata nella campagna referendaria volta a cancellare la legge del 2004 sulla procreazione medicalmente assistita, che vieta qualsiasi forma di ricerca sulle cellule staminali embrionali (le più promettenti per la cura di malattie come la SLA), ha proseguito l’iniziativa politica per superarne i divieti attraverso proposte di legge e iniziative giuridiche che hanno portato nel tempo a pronunce giurisdizionali che ne hanno attutito la portata proibizionista.

Luca non ha fatto in tempo a vedere gli esiti delle battaglie da lui iniziate. Ad oggi, rimane ancora molto da fare: le fondamentali questioni della vita e della morte, del come vivere e come morire, della libertà di ricerca, di come garantire dignità a malati e disabili, e sollievo alle loro famiglie, sono ancora lì, e attendono soluzione, attenzione, “regola”. E continua, opprimente, la cappa di una informazione “scientifica” superficiale, monca, inquinante a tutti gli effetti.

È stato scritto che la vicenda di Luca Coscioni

Riassume perfettamente il perché trattare i cosiddetti “diritti civili” come qualcosa di secondario, di non indispensabile, come un capriccio di élite sazie e incoscienti sia tanto superficiale quanto sbagliato, sia per le vite degli individui, sia per la ricchezza materiale e culturale del Paese in cui essi vivono.

In fondo, Luca non si è battuto che per questo: il diritto umano e civile alla conoscenza.

 

Silvia Boverini

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Fonti:
www.it.wikipedia.org; “Vivo o morto, X? Intervista con Luca e Maria Antonietta Coscioni”, www.aduc.it; M. A. Farina Coscioni, “Nove anni fa moriva Luca Coscioni una vita spesa per la libertà”, www.articolo21.org; M. Mascioletti, “Luca Coscioni, l’Italia e il tempo che abbiamo perso”, www.stradeonline.it; www.associazionelucacoscioni.it; V. Vecellio, “Vi racconto Luca Coscioni, mio marito guerriero”, http://ildubbio.news; “Ciao Luca”, www.scribd.com

La strage di Adis Abeba: una vergogna tutta italiana

La strage compiuta dagli italiani, civili e militari, sulla popolazione inerme di Adis Abeba costituisce uno degli esempi più brutali della sanguinosa storia delle dominazione coloniale in Africa. E una delle più criminali imprese realizzate dai nostri concittadini nella già vergognosa occupazione dell’Etiopia. Alla fine della Seconda Guerra Mondiale il governo etiopico riferì che erano stati massacrati 30.000 cittadini nella strage di Adis Abeba [1]. Tra le testimonianze italiane di quell’orrore, iniziato il 19 febbraio 1937, c’è quella di Antonio Dordoni:

«Nel tardo pomeriggio, dopo aver ricevuto disposizioni alla “Casa del Fascio”, alcune centinaia di squadre composte da camice nere, autisti, ascari libici, si riversarono nei quartieri indigeni e diedero inizio alla più forsennata “caccia al moro” che si fosse mai vista. In genere davano fuoco ai tucul e finivano a colpi di bombe a mano quelli che tentavano di sfuggire a i roghi […]. Molti di questi forsennati li conoscevo personalmente. Erano commercianti, autisti, funzionari, gente che ritenevo serena e del tutto rispettabile. Gente che non aveva mai sparato un solo colpo durante tutta la guerra e che ora rivelava rancori ed una carica di violenza insospettata».

«Dopo quindici secoli Mussolini ha ridato a Roma il suo impero immortale» (Raffaele Carrieri)

Nel 1935, l’Italia, già detentrice di tre colonie in Africa – la Somalia, l’Eritrea, che era stata una regione dell’Impero Etiope, e la Libia (abbiamo ricordato le atrocità della conquista e della dominazione italiana in Libia qui, qui e qui) -, decise che era arrivato il momento di invadere l’Etiopia. Mussolini voleva dare agli italiani «un posto al sole», della terra da colonizzare e un vero e proprio impero coloniale. Così, il 3 ottobre 1935, senza far precedere l’attacco da una dichiarazione di guerra, si era scagliato contro l’impero etiope. Aveva rovesciato un’onda immensa di orrore sulla popolazione di quello stato, che, dal 1923, faceva parte della Società delle Nazioni e che, insieme alla Liberia ed era l’unica porzione di Africa non soggetta alla dominazione europea (ne abbiamo parlato qui, sulla rubrica Corsi e Ricorsi). Pur facendo da subito ricorso anche ai gas tossici (ne abbiamo parlato in questo post), banditi dalla Convenzione di Ginevra del 1925, le truppe italiane, dopo 7 mesi, non erano riuscite a sottomettere totalmente gli etiopi. Ma il 5 maggio del 1936 il maresciallo Pietro Badoglio riusciva ad entrare in Adis Abeba senza combattere. L’imperatore etiope Hailè Selassiè, tre giorni prima, l’aveva abbandonata, andando in esilio. E il 9 maggio Mussolini annunciava dal balcone di Palazzo Venezia alla folla esultante che

«i territori e le genti che appartennero all’impero d’Etiopia sono posti sotto la sovranità piena e intera del Regno d’Italia». Era una menzogna, ovviamente. Come era menzognera e grottesca nella sua pretesa solennità quanto scriveva Raffaele Carrieri, il 17 maggio, su L’illustrazione italiana:  «Dopo quindici secoli Mussolini ha ridato a Roma il suo impero immortale».

La resistenza etiope

In realtà, gli etiopi erano tutt’altro che sottomessi e l’Etiopia tutt’altro che occupata. Due terzi del suo territorio restavano liberi. E 100.000 uomini dell’esercito imperiale etiope erano ancora ancora attivi. Di fatto, i 10.000 soldati italiani installati ad Adis Abeba erano sotto assedio [2].

Quegli ordini sanguinari di Mussolini che Graziani era ben felice di eseguire

Tra il 5 e l’8 luglio di quel 1936, Benito Mussolini ordinava espressamente, per iscritto, mediante telegramma, al nuovo viceré, governatore generale e comandante delle truppe d’Etiopia, Rodolfo Graziani, di uccidere tutti i ribelli già catturati, di ammazzare i resistenti, facendo ricorso ai gas, e di attuare una politica di terrore e sterminio [3]. Ma le esecuzioni sommarie, le rappresaglie con i gas (60 tonnellate di bombe caricate a iprite e fosgene), gli incendi di interi villaggi, chiese incluse, le deportazioni di massa, l’attivazione di nuovi campi di concentramento, ecc. non bastavano a soffocare le rivolte.

Altro che colonia di ripopolamento

Mussolini era impaziente. Autorizzava

a «condurre sistematicamente la politica del terrore e dello sterminio contro i ribelli e le popolazioni compliciSenza la legge del taglione al decuplo non si sana la piaga in tempo utile. Attendo conferma».

Il fatto è che il duce aveva promesso al popolo italiano che l’immenso territorio etiope sarebbe diventato rapidamente una colonia di ripopolamento, in cui avrebbe insediato da 1 a 10 milioni di italiani. Nei cinque anni di occupazione fascista, invece, si stabilirono in Etiopia solo 3.500 famiglie, su appena 114.000 ettari. Gli etiopi, pur divisi tra loro, non si rassegnavano a cedere le loro terre a questi sanguinari invasori.

L’attentato del 19 febbraio ’37 contro Graziani ad Adis Abeba

Nella capitale etiope la situazione era tesissima. Gli etiopi piangevano per i loro cari uccisi dagli italiani, pregavano per famigliari e vicini finiti nelle prigioni italiani ed erano in ansia per quei giovani che, per ordine di Mussolini, fin dal 3 maggio, dovevano essere presi e fucilati sommariamente [4].

Due giovani studenti di origine eritrea (Abraham Dobotch e Mogus Asghedom), con l’aiuto di un tassista, Semeon Adefres, il 19 febbraio del ’37 realizzarono l’attentato che avevano preparato [5]. In occasione di una cerimonia per la nascita del primogenito del principe Umberto di Savoia, i due eritrei, si introdussero di nascosto nel palazzo del piccolo Ghebì. Dalla balconata, scagliarono otto bombe di limitato potenziale tipo Breda, sul vicerè Graziani e sulle autorità italiane ed etiopiche, che gli stavano attorno sulla scalinata sottostante il balcone. L’esito fu di sette morti e circa 50 feriti, tra cui lo stesso Graziani, trafitto da 350 schegge [6].

La rappresaglia sulla popolazione etiope di Adis Abeba

Il federale fascista di Adis Abeba, Guido Cortese, obbedendo ad un telegramma di Mussolini, di provvedere ad «un radicale ripulisti», provvedeva alla rappresaglia: un massacro raccapricciante per le strade e nelle case etiopi di Adis Abeba.

«Inutile dire che la rappresaglia si compie su gente ignara e innocente»

Così raccapricciante che il giornalista Ciro Poggiali nel suo diario segreto scriveva:

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«Tutti i civili (italiani) che si trovano in Adis Abeba hanno assunto il compito della vendetta, condotta fulmineamente coi sistemi del più autentico “squadrismo fascista”. Girano armati di manganelli e di sbarre di ferro, accoppando quanti indigeni si trovano ancora in strada […]. Inutile dire che la rappresaglia si compie su gente ignara e innocente» [7].

La rappresaglia dei militari

Accanto a quella condotta dai civili italiani contro la popolazione inerme (che era anche derubata dei pochi denari e averi che possedeva), veniva svolta anche quella, appena più organizzata, dei militari. Questi rinchiudevano 4.000 etiopici in improvvisati campi di concentramento e incendiavano i vasti agglomerati di tucul che fiancheggiavano due fiumi che attraversavano la città. La mattina dopo Alfredo Godio osservava «cumuli di cadaveri bruciati» e il transito di camion «sui quali erano accatastati, in un orribile groviglio, decine di corpi di abissini uccisi».

L’ordine di cessare le rappresaglie

«Per tre giorni durò il caos. Per ogni abissino in vista non ci fu scampo in quei terribili tre giorni in Adis Abeba, città di africani dove per un pezzo non si vide più un africano», scrisse un altro testimone italiano, Dante Galeazzi.

Saputo che i diplomatici stranieri, con le loro macchine fotografiche, documentavano le atrocità in corso, il viceré Graziani, dal suo letto di ospedale, ordinava la cessazione delle rappresaglie [8]. Quelle dispiegate dai civili e dalle camicie nere, quindi, furono interrotte dalle ore 12 del 21 febbraio. Non si fermò, però, il bagno di sangue [9].

La strage infinita ordinata da Mussolini

Mussolini, infatti, scrisse a Graziani che nessuno dei fermati attuali o venturi doveva essere rilasciato senza suo ordine, mentre «tutti i civili e i religiosi etiopi sospetti devono essere passati per le armi e senza indugi».

Un migliaio di altri civili fucilati ad Adis Abeba

Il 22 febbraio Graziani scriveva a Mussolini:

«In questi tre giorni ho fatto compiere nella città perquisizioni, con ordine di passare per le armi chiunque fosse trovato in possesso di strumenti bellici, che le case relative fossero incendiate. Sono state, di conseguenza, passate per le armi un migliaio di persone e bruciati quasi altrettanti tucul»

La strage dei notabili di Adis Abeba

Poiché l’avvocato militare Bernardo Olivieri aveva riferito, falsamente, che l’attentato a Graziani era stato ordito da un vasto complotto in cui avrebbero avuto un ruolo fondamentale i cadetti della Scuola militare di Olettà (mentre, in realtà, era stato compiuto da due studenti eritrei, con l’aiuto di un tassista), il 21 febbraio il viceré riferì a Mussolini:

«Duce, questa mattina sono stati passati per le armi 45 fra notabili e gregari risultati colpevoli manifesti dell’attentato del 19 febbraio» [10].

L’eliminazione dell’intellighenzia etiope

Il 22 febbraio venivano assassinate altre 26 persone. La logica era quella di eliminare i giovani ufficiali, gli ancor più giovani laureati negli Stati Uniti, in Francia e in Gran Bretagna, nonché gli alti funzionari governativi e i collaboratori più validi dell’imperatore Hailè Selassiè. Per liquidare la classe dirigente etiope, Mussolini approvò la proposta di Graziani di deportare in Italia i notabili ancora imprigionati dal 19 febbraio nei sotterranei del palazzo del viceré [11]. Così in due tranche furono deportati in Italia, sull’isolotto dell’Asinara, 400 aristocratici etiopi, inclusi alcuni bambini e delle donne. Mentre quelli di livello inferiore erano rinchiusi nei campi di concentramento di Nocra, in Eritrea, e di Danane, in Somalia. La metà sarebbe morta di malattia o di denutrizione [12].

L’elogio del Gran Consiglio del Fascismo ai fascisti e agli operai italiani di Addis Abeba

Il Gran Consiglio Fascismo (di tale organo abbiamo parlato quiqui e qui) nella seduta del 2 marzo espresse la sua piena approvazione per i massacri perpetrati. Il comunicato, pubblicato anche sul Corriere della Sera del giorno dopo, diceva:

«Il Gran Consiglio del fascismo ha infine inviato un cameratesco saluto e un fervido augurio al viceré maresciallo d’Italia Rodolfo Graziani, nella certezza che egli saprà applicare la giusta, ma inflessibile legge di Roma, e ha tributato un particolare elogio ai fascisti e agli operai italiani di Addis Abeba per il contegno da essi tenuto dopo l ’attentato» [13].

Il peggio per gli etiopi doveva ancora arrivare.

Alberto Quattrocolo

[1] La stampa americana, francese e inglese dell’epoca parlava di circa 6.000 etiopi uccisi ad Adis Abeba dal 19 al 21 febbraio 1937.  Angelo Del Boca stima circa in 3.000 le vittime dei primi tre giorni di violenze ad Addis Abeba, come l’inglese Anthony Mockler. Lo storico Giorgio Rochat ipotizza che la cifra potrebbe essere più alta e arrivare a 6.000 vittime, come farebbero pensare le carte del “Fondo Graziani”.

[2] Badoglio, conoscendo la rischiosità della situazioni si faceva richiamare in Italia, lasciando il posto al più giovane e ambizioso maresciallo d’Italia Rodolfo Graziani, che il 20 maggio veniva nominato viceré d’Etiopia, governatore generale e comandante superiore delle truppe.

[3] Graziani non aveva alcuna riserva nel dare esecuzione a tali ordini. La sua disponibilità al massacro si era già palesata eloquentemente in Libia.

[4] «Siano fucilati sommariamente tutti i cosiddetti giovani etiopici», aveva ordinato il duce, riferendosi a quelli che l’imperatore Hailè Selassiè, negli anni precedenti l’invasione italiana, aveva mandato a studiare e a laurearsi all’estero e ai cadetti della scuola militare di Olettà.

[5] I due eritrei lavoravano negli ambienti governativi di Addis Abeba, anzi erano informatori dell’Ufficio Politico di Graziani. Proprio per questo, oltre che per la fama di collaborazionismo che avevano gli eritrei in genere, non avevano contatti con i notabili abissini né con i “giovani etiopici”.

[6] Subito dopo, i due studenti, approfittando del caos, raggiungevano il taxi di Semeon Adefres e si dirigevano verso la città conventuale di Debrà Libanòs. Poi da lì tentavano di fuggire in Sudan, venendo, però, misteriosamente uccisi nel viaggio. Mentre l’autista, arrestato, veniva torturato a morte dagli agenti dell’Ufficio Politico di Adis Abeba.

[7] Non sfuggiva alla violenza omicida neppure la chiesa di San Giorgio (costruita ai tempi di Menelik da un ingegnere italiano, Sebastiano Castagna), che veniva data alle fiamme e dentro la quale i civili italiani volevano far bruciare vivi, spingendoceli a scudisciate, una cinquantina di diaconi. Fu solo l’intervento di un colonello dei granatieri ad impedire questo ulteriore crimine.

[8] Graziani decise di arrestare i massacri anche, se non soprattutto, per dimostrare a Mussolini di avere in mano la situazione – malgrado le ferite che lo trattenevano in ospedale (aggravate da una polmonite provocata dall’anestesia a etere) – e per impedire che il federale Cortese acquistasse troppa notorietà.

[9] Il federale Cortese, allora, faceva diffondere un manifesto con il bollo della “Federazione dei fasci di combattimento” di Adis Abeba che iniziava così: «Camerati! Ordino che dalle 12 di oggi 21 febbraio XV (cioè quindicesimo anno della “rivoluzione fascista”, NdA) cessi ogni e qualsiasi atto di rappresaglia». Riguardo a quell’ordine Dordoni scrisse: «Lo lessi e lo rilessi. Non credevo ai miei occhi. Non credevo che dopo una simile strage si potessero mettere in giro documenti del genere, che erano una palese autodenuncia».

[10] Il tenente colonnello Princivalle suggerì a Graziani di mostrare una certa clemenza verso i notabili che avevano collaborato con il governo italiano, per «non ingenerare la convinzione che noi trattiamo allo stesso modo coloro che ci servono e coloro che ci tradiscono». Ma Graziani, seguendo il criterio base della rappresaglia, per il quale del gesto di uno deve pagare tutta la comunità cui appartiene, continuò nella sua spietata politica repressiva. Così rispose, per iscritto, a Princivalle, il capo del suo Ufficio politico: «fatti del genere si reprimono non solo colpendo gli esecutori, ma colpendo la collettività nella quale è sorta l’idea e nella quale vivevano i colpevoli».

[11] Mussolini approvò tale idea, dopo aver respinto la proposta di Graziani di distruggere tutta la parte di Adis Abeba abitata dagli etiopi e deportarne gli abitanti in campi di concentramento. Scrisse Graziani: «Debbo pertanto giungere alla decisione di proporre di radere al suolo la vecchia città indigena e accampare tutta la popolazione in un campo di concentramento fino a che essa non si sarà ricostruita le sue abitazioni. Ne faccio pertanto formale proposta mentre mi riservo rimettere i preventivi dei teli da tenda necessari e tutto il resto[…]. D’altra parte io non posso mitragliare in massa o dare alle fiamme l’intera città, non potendo non preoccuparmi delle ripercussioni all’estero. Invoco pertanto che tutti provvedimenti proposti siano approvati perché possa darvi immediata attuazione. Prego massima urgenza risposta per non tenere più questo puzzolente carnaio [i duecento notabili arrestati] ammassato nei locali del governo generale». Il duce replicò a Graziani che ciò «solleverebbe nel mondo una impressione sfavorevolissima e non raggiungerebbe lo scopo».

[12] Diversi esponenti abissini di provata fedeltà, dopo essersi congratulati con Graziani per lo scampato pericolo, gli consigliarono moderazione nelle rappresaglie per non alienare al dominio italiano le simpatie della popolazione. Graziani interpretò il loro atteggiamento come una prova della loro collusione con gli attentatori e ne ricambiò i cortesi consigli facendoli deportare in Italia.

[13] Lo stesso giorno Starace in un telegramma scriveva al federale Cortese di Adis Abeba: «Mi compiaccio moltissimo con te e con i fascisti tutti». Interessanti sono anche i comunicati dell’agenzia Stefani sulla stampa quotidiana del 22 febbraio («squadre di fascisti hanno ripulito quartieri sospetti della capitale») e del 24 febbraio (tutti gli indigeni «trovati in possesso di armi sulla persona e nei loro tucul sono stati fucilati»).

Fonti

Angelo Del Boca, L’attentato a Graziani, in Gli italiani in Africa Orientale – 3. La caduta dell’Impero, Mondadori, Milano, 1996, in www.italia-resistenza.it/wp-content/uploads/ic/RAV0053532_1998_211-213_12.pdf

Angelo Del Boca, Italiani, brava gente?, Neri Pozza, Vicenza, 2014

Angelo Del Boca, Il colonialismo italiano tra miti, rimozioni, negazioni e inadempienze, in “Italia contemporanea”, settembre 1998, n. 212

Matteo Dominioni, Lo sfascio dell’impero. Gli italiani in Etiopia 1936-1941, Editori Laterza, Roma-Bari, 2008

Giorgio Rochat, Le guerre italiane in Libia e in Etiopia dal 1896 al 1939, Gaspari Editore, Udine, 2009

Giorgio Rochat, L’attentato a Graziani e la repressione italiana in Etiopia nel 1936-1937, in “Italia contemporanea”, 1975, n 118, pp. 3-38. in www.italia-resistenza.it/wp-content/uploads/ic/RAV0053532_1975_118-121_01.pdf

La Rosa Bianca viene arrestata dalle SS

Gli accusati hanno, in tempo di guerra e per mezzo di volantini, incitato al sabotaggio dello sforzo bellico e degli armamenti, e al rovesciamento dello stile di vita nazionalsocialista del nostro popolo, hanno propagandato idee disfattiste e hanno diffamato il Führer in modo assai volgare, prestando così aiuto al nemico del Reich e indebolendo la sicurezza armata della nazione. Per questi motivi essi devono essere puniti con la morte.

Con queste parole fu decisa la sorte dei primi tre componenti della Rosa Bianca arrestati dalle SS. Il Tribunale del Popolo, presieduto da Roland Freisler, impiegò cinque ore ad emettere la sentenza: morte per ghigliottina. Era il 22 febbraio 1943. I fratelli Hans e Sophie Scholl, insieme all’amico Cristoph Probst, erano stati arrestati quattro giorni prima. Quattro giorni di torture.

La loro attività era iniziata nemmeno un anno prima, quando decisero di ribellarsi allo status quo nazista. Guidati dal professor Kurt Huber, scrissero, pubblicarono e diffusero una serie di volantini che iniziarono con queste parole:

Fate resistenza passiva, resistenza ovunque vi troviate; impedite che questa atea macchina da guerra continui a funzionare, prima che le città diventino un cumulo di macerie…

Lo stampo cristiano emergeva chiaramente anche dalle citazioni della Bibbia e di Sant’Agostino, affiancate da Aristotele, Goethe e Schiller. Gli opuscoli erano chiaramente indirizzati all’intellighenzia tedesca. Purtroppo, come ha detto bene in tempi più recenti Franz Josef Müller:

La maggior parte dei Tedeschi sosteneva in modo convinto il regime o divenne nazista perché conveniva esserlo. Troppo pochi la pensavano diversamente e troppo pochi furono raggiunti dai volantini. Non credo fosse possibile eliminare il nazionalsocialismo dall’interno. Infatti ci volle l’aiuto degli Alleati.

Müller prese parte al gruppo mentre ancora era minorenne, perciò gli fu risparmiata la sentenza di morte. Forse, l’azione della Rosa Bianca non impresse un’accelerazione particolare alla caduta del regime, ma è innegabile che svolse, e svolge tuttora, un’azione di rilevanza culturale:

La storia dei fratelli Scholl e della Rosa Bianca, seppure lentamente, ha aiutato moltissimo a smontare questa equazione [tedesco come sinonimo di nazista] nell’opinione pubblica internazionale.

Alessio Gaggero

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La caccia ai capri espiatori

La caccia (di Arthur Penn) uscì nelle sale cinematografiche americane il 17 febbraio del 1966 e in quelle italiane il 21 settembre di quell’anno. Non ebbe un successo proporzionato ai suoi meriti artistici e ai suoi costi di produzione [1]. Divenne un cult, sì, ma un “cult maledetto”. Infatti, a cinquantacinque anni di distanza quel film non ha perso un grammo del suo peso di opera scomoda. Continua ad essere lo specchio di qualcosa di orribilmente vero non soltanto negli USA, e in particolare negli Stati del Sud, ma in tutto quello che normalmente viene chiamato l’Occidente. Italia inclusa. Anzi, oggi, Italia più che mai.

Tre capri espiatori perfetti cui dare la caccia

Il film di Arthur Penn è suscettibile di essere guardato con molteplici chiavi di lettura. Una di quelle più immediate riguarda il tema del capro espiatorio. Il capro espiatorio cui gli abitanti di Tarl, una piccola città del Texas, danno la caccia è indubbiamente il giovane evaso Bubber Reeves (Robert Redford). Ma altri due capri espiatori emergono nello sviluppo della vicenda e finiscono in qualche modo sacrificati.

La caccia inizia, in effetti, con la fuga di Bubber Reeves dal carcere – insieme ad un compagno, che uccide un automobilista e poi si dilegua. Ma nel corso del film scopriamo che la sua carriera di deviante dentro e fuori gli istituti di pena è iniziata con un errore giudiziario. Nessuno, allora, credette alla sua innocenza neppure sua madre [2]. Non era stato lui a commettere il furto che lo spedì in riformatorio, ma un suo compagno, Edwin (interpretato da Robert Duvall).

Bubber Reeves, colui che fa paura a chi la ha coscienza sporca

Costui, un dipendente di Val Rogers, il petroliere, magante e sovrano di fatto della regione, è tormentato dal timore che Bubber possa avere intenzioni vendicative. Come lui lo è il suo datore di lavoro. Val Rogers, infatti, ha imposto al suo unico figlio Jack (James Fox) di sposarsi con una ragazza della sua stessa classe, ma il giovane gli ha obbedito solo in apparenza, continuando ad amare e frequentare la ragazza della quale da sempre è innamorato, Anna (Jane Fonda). E suo padre, sapendolo, ne è atterrito, dato che Anna tempo prima aveva sposato il loro comune amico d’infanzia, Bubber. Questi, in realtà, non ha alcuna intenzione di tornare a regolare i conti con Edwin o con Jake Rogers. Se Val o Edwin si fossero presi la briga di parlarci e di ascoltarlo, senza essere condizionati dai loro programmi o dai loro timori, saprebbero che ben diverse sono le sue intenzioni [3].

Jack Rogers, colui che arrivando a pensare con la propria testa si espone ad un rischio mortale

Jack Rogers, ad esempio, che, invece, lo conosce non ha alcuna reale paura di Bubber. Come non ce l’ha Anna. Non solo perché un tempo Jack e Bubber erano amici, ma perché il primo conosce la natura non violenta e non vendicativa del secondo. La venuta di Bubber, anzi, aiuta Jack a fare davvero i conti con se stesso, con il profondo sentimento che lo lega ad Anna e con le scelte comode di conservazione dei privilegi, ma disastrose sul piano affettivo ed esistenziale, che ha compiuto fino ad allora. Inoltre, fa i conti con la propria soggezione ai voleri del padre e con la mancanza di dialogo vero nella relazione con lui. La sua sensibilità lo porta anche ad accettare il legame di profondo affetto che lega Anna a Bubber e a non cadere preda di quella gelosia nutrita da chi vede nel partner un oggetto da possedere, anziché un soggetto con cui rapportarsi paritariamente [4]. La sensibilità di Jack, quindi, gli fa prevenire il rischio di cercare all’esterno un nemico da incolpare per i propri fallimenti [5]. Ma inevitabilmente la sua consapevolezza finisce con l’isolarlo dai suoi simili (l’upperclass locale, in primis, ma anche gli altri abitanti di Tarl). Capaci solo di guardare alle persone per come appaiono o per quello che, in termini di denaro e potere, possiedono, essi vedono in Jack null’altro che un privilegiato viziato, che se la spassa con la moglie di un evaso [6].

Calder, ovvero il rappresentante istituzionale odiato per la sua intelligenza e la sua non furbizia

Il terzo outcast è lo sceriffo Calder (Marlon Brando). È l’uomo nel mezzo. Il rappresentante della legge, il garante istituzionale della pace sociale, che si sforza di tutelare la sicurezza individuale e collettiva con buon senso, umanità e onestà. E perciò sta sul gozzo agli abitanti di Tarl. Opportunisti e frustrati, ignoranti e intolleranti, quali sono, lo odiano perché in lui vedono un alieno. La sua intelligenza e il suo equilibrio, non avendo alcuna parentela con la loro furbizia, sono mal tollerati da tutti. Perché lo portano a rifiutare le loro richieste di favoritismi e i loro piccoli tentativi di manipolarlo e corromperlo, a contrastare il loro razzismo brutale e a svelare il loro perbenismo di facciata. È divenuto sceriffo di Tarl grazie anche all’appoggio del petroliere Val Rogers, il quale, pur stimandolo, cerca inconsciamente di corromperlo [7]. Calder, invece, si sforza vincolare la propria condotta soltanto alla legge e alla coscienza, respingendo la logica dello scambio sottobanco [8]. Così, profondamente a disagio in mezzo a tanta ignoranza, presunzione e intolleranza, risulta inviso a tutti. Ai ricchi, ai borghesi e ai poveri. Non è uno di noi, pensano i suoi concittadini, che non si fidano di lui e gli sono intimamente ostili. Più che altro temono e odiano ciò che rappresenta: il senso della comunità e il rispetto per l’altro come premessa del rispetto della legge. E, per non fare i conti con la sua onestà, che rispecchia la loro corruzione, si convincono che, in fondo, anche lui, come tutti gli altri, non può che essere un corrotto, cioè una marionetta manovrata dal potente Val Rogers.

Una comunità di forti con i deboli con i forti

La comunità composta dagli abitanti di questa città di provincia, infatti, è popolata in gran parte da gente dalla mentalità chiusa e dall’animo opportunista. Fatti salvi i suddetti capri espiatori, gli altri personaggi rappresentati sono dei moralisti reazionari in pubblico, la cui immoralità è talmente prepotente da esplodere apertamente, senza che neppure se ne preoccupino. Rigidamente aderenti alla netta divisione in classi, la patiscono, ma non si ribellano, né cercano di rimediarvi. Quelli del ceto medio sfogano la frustrazione personale e sociale, umiliando e maltrattando chi si trova ai livelli più bassi. Mentre si limitano a spettegolare su chi sta sopra di loro nella gerarchia sociale. Nell’high society il posto al vertice è occupato dal petroliere Val Rogers (interpretato da E. G. Marshall). Potentissimo, rispettato pubblicamente, detestato e invidiato privatamente tanto dai membri della casta quanto da quelli del ceto medio [9]. Né una figura migliore fanno i poveracci. Come la madre di Bubber: talmente ottusa da non capire che l’unico di cui può fidarsi è proprio lo sceriffo Calder.

Una comunità da incubo

La caccia propone, dunque, una vicenda corale di odio sociale che a mezzo secolo di distanza ci riporta alla nostra attualità. È, quindi, una pellicola scottante e sconvolgente più di quanto potrebbe essere un film a noi contemporaneo. Ci rivela fino a che punto una società può regredire a livelli che, un tempo, avremmo giudicato con il disgusto e il sollievo di chi vive in un altro modo e in un altro mondo. Cioè, di chi non respira un clima sociale in cui tutti sono contro tutti, le relazioni sociali sono all’insegna dello sfruttamento del più debole, nessuno si fida dell’altro e men che meno delle istituzioni, ma tutti sono accomunati da una rabbia violenta. Da una frustrazione che genera prima la caccia e, poi, l’olocausto dei capri espiatori.

Il problema è che le persone intelligenti sono piene di dubbi, mentre quelle stupide sono piene di sicurezze (Charles Bukowski)

I tre capri espiatori citati – Bubber (l’evaso innocente), Jack (il ricco rampollo con un cuore e dei valori che non sapeva di possedere) e Calder (lo sceriffo assennato) -, quindi, sono intrinsecamente estranei, stranieri in patria. E sui tre spicca Calder. Quello più odiato dagli abitanti di Tarl. Perché a coloro che gli ricordano che sono loro «a pagargli lo stipendio» ribatte che la legge non è quella del più forte, né quella della caccia al diverso o del sacrificio rituale. Riflettendo, con la sua razionalità dubbiosa, l’arroganza della follia reazionaria che lo circonda, il suo semplice esistere costituisce una critica per la distorsione dei loro comportamenti e della vacuità delle loro autogiustificazioni.

«Hanno il cervello vuoto e non hanno mai letto un libro»

«Hanno il cervello vuoto e non hanno mai letto un libro», osserva ad un cero punto Calder, parlando con sua moglie Rubie (Angie Dickinson).

È questo un commento quanto mai efficace nel sintetizzare, tanto la sua sensazione di isolamento in una città in cui sembrano tutti impazziti, quanto la sua consapevolezza che una comunità simile può improvvisamente deflagrare nella violenza omicida. Egli riconosce che, quella in cui vive e che deve governare, è una comunità il cui deficit di civiltà nutre sia il razzismo diffuso, sia l’odio e il sospetto verso chiunque rispetti l’umanità altrui e sia altruista. Più e meglio di Jack e di Bubber, che come lui non sono assimilabili in questa città in piena deriva civile, lo sceriffo sa vedere la violenza strisciante e sa prevederne l’esplosione irrazionale. Per questo, il regista dedica tanto spazio alla scena del pestaggio che gli viene inflitto e all’esito che questo ha sulla sua vista. Si cerca non soltanto di punirlo e umiliarlo per la sua sobria rettitudine e di impedirgli di opporsi all’escalation violenta prevista in danno di Bubber e del suo amico nero Lem, ma anche di levargli la sua capacità di vedere e di smascherare.

Il flop economico di La caccia

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Il film, pur vantando un cast notevole (Marlon Brando, Jane Fonda, Robert Redford, Angie Dickinson, James Fox, Robert Duvall, E. G. Marshall, Janice Rule, Richard Bradford, Miriam Hopkins, Henry Hull, Jocelyn Brando, Clifton James, Martha Hyer, Bruce Cabot, Steve Ihnat) una fotografia splendida in Cinemascope (di Joseph La Shelle) e pregi registici notevoli, tali da renderlo un potenzialmente redditizio blockbuster sociale all-star, fu invece un tonfo economico. Eppure il produttore era l’esperto e coraggioso Sam Spiegel [10]. Perché il pubblico non corse a vederlo?

Una spiegazione possibile potrebbe essere costituita propria dalla sua natura di commento schietto sul mondo contemporaneo e sulle varie miserie (anche affettive) che lo desertificano. All’epoca, però, la critica francese e quella italiana, a differenza di quella americana, apprezzarono La caccia. Pur non giudicandolo un film perfetto, ne lodarono la forza polemica e la bravura di tutto il cast, Marlon Brando, Jane Fonda, James Fox e Robert Redford in testa.

Chissà se oggi La caccia susciterebbe da noi reazioni simili a quelle della critica americana Pauline Keel, la quale deplorava il suo essere un atto di accusa senza riserve ai bianchi del Sud?

 

Alberto Quattrocolo

[1] Prodotto da Sam Spiegel, produttore di talento e dal fiuto infallibile, La caccia era, sulla carta, assolutamente in linea con i gusti del pubblico. Scritto a più mani, a partire da un’opera di Horton Foote, era basato su una sceneggiatura cui aveva lavorato per dieci anni Micheal Wilson, sceneggiatore di sinistra finito vittima della “caccia alle streghe” anti-comunista della fine degli anni Quaranta, imprigionato e poi emarginato, ma sostenuto proprio da Spiegel, che gli commissionò la sceneggiatura di Il ponte sul fiume Kway (1957, di David Lean). La caccia era poi stato sceneggiato anche da Lillian Hellman, anch’essa perseguitata dalla Commissione per le attività anti-americane, e dallo stesso Horton Foote. Vantava un cast impressionante, in cui, accanto alla superstar Marlon Brando, figuravano gli emergenti Jane Fonda e Robert Redford, la già affermata e celeberrima Angie Dickinson e uno dei più noti rappresentanti del nuovo cinema inglese, James Fox. E tutti costoro, attentamente diretti da Arthur Penn, fornivano delle interpretazioni notevolissime. Marlon Brando sapeva modulare attentamente le sfumature di un uomo sensibile, dubbioso e introverso, costretto a confrontarsi continuamente con l’arroganza e la violenza e a reprimere il disgusto e la rabbia che quelle gli suscitano. Redford risultava toccante per il modo sobrio in cui rappresentava l’emarginato, braccato, che non sa spiegarsi come la vita lo scaraventi sempre nei guai. Jane Fonda amministrava con molta intelligenza i diversi registri emotivi che delineavano il suo personaggio: rabbia, impotenza, senso di colpa, tenerezza, paura. James Fox riusciva particolarmente credibile nel dare spessore alle ambivalenze di Jack, “il principe ereditario” del “re del petrolio” Val Rogers, che scopre di avere dei valori e degli ideali. Angie Dickinson conferiva uno spessore non scontato al suo personaggio, di moglie dello sceriffo, di cui condivide i principi e alla cui solitudine partecipa con tenerezza riflessiva. E. G. Marshall dava al personaggio del petroliere risvolti umani tali da prevenire il rischio di trasformarlo nella maschera del cattivo. Così come Richard Bradford, Janice Rule e Robert Duvall, nella parte dei borghesi corrotti, sapevano recare ai loro personaggi tocchi di autenticità utili a non far deragliare il film in un’opera a tesi.

[2] Interpretata mirabilmente da Miriam Hopkins, splendida attrice affermatasi negli anni Trenta.

[3] È fuggito, infatti, soltanto perché si è ribellato alle angherie di un guardiano, ma, salito su un treno merci che riteneva sarebbe andato in Messico, scopre troppo tardi che era invece diretto a nord e fatalmente finisce con il fare ritorno nella sua città natale.

[4] Anzi, egli si sente e si dichiara innamorato di Anna proprio per la capacità di amare disinteressatamente e per l’onestà e la schiettezza di cui è dotata.

[5] Lo obbliga, infine, ad agire lealmente, seguendo ciò che detta il sentimento dell’amicizia, anziché perseguire un mero tornaconto personale.

[6] La sua diversità, pertanto, lo candida involontariamente ad essere guardato con sospetto dai suoi concittadini, che nel loro cinismo non possono immaginare che egli sia l’uomo che in realtà è. In parte, tale ottusità avrà esiti nefasti su Jake, trasformandolo in vittima di una violenza bestiale quanto gratuita.

[7] Val Rogers ammira le qualità di Calder vede in lui una sorta di figlio. Ma tanto forte è la sua inclinazione ad usare il denaro e il potere in tutte le relazioni, anche in quelle affettive, da agire in questi termini anche nei confronti dello sceriffo Calder.

[8] Calder è costantemente a cavallo del fossato tra le classi sociali, tentando di non esserne condizionato. Da un lato, deve avere a che fare con le pressioni, amichevoli inizialmente poi via via più dure, di Val Rogers e della sua combriccola. Dall’altro deve vedersela con la palese sfiducia della maggioranza piccolo-borghese. Una maggioranza nutrita di invidia sociale verso i più potenti e di rabbia e disgusto verso i poveracci. In primo luogo, verso la popolazione nera e, poi, verso qualche bianco dropout come Bubber.

[9] È l’uomo ai cui progetti tutti aderiscono, senza neppure comprenderli, ai cui principi e desideri tutti si conformano, ma solo a parole, senza ascoltarlo come essere umano né riconoscerlo come figura autorevole. Così, pronti ad obbedirgli ad ogni suo cenno, in quanto interessati soltanto ai suoi favori, sono proprio i suoi lacchè a inavvertitamente sfuggire al suo controllo, a disobbedirgli, assecondandolo Anzi, nel violento sfogo delle loro frustrazioni, finiscono con l’ammazzargli involontariamente il figlio.

[10] Sam Spiegel, ebreo polacco, rifugiatosi negli USA per sottrarsi alla persecuzione nazista, fin dall’inizio della sua carriera mostrò un talento indiscutibile come produttore di opera controcorrente ma capaci di raggiungere un vasto pubblico, senza farsi condizionare dal crescente anticomunismo dell’epoca. Anzi, fin dall’inizio non esitò a produrre opere di registi finiti nel ciclone dell’isteria crescente (tra questi: Lo straniero, 1946, di Orson Welles che era alquanto inviso alla commissione senatoriale di inchiesta sulle attività dei presunti comunisti; Stanotte sorgerà il sole, 1949, di John Huston, interpretato da John Garfield, che sospettato fin dal ’47 di essere filocomunista morirà d’infarto poco prima di essere interrogato dalla commissione senatoriale; Sciacalli nell’ombra, di Jospeh Losey che fu costretto ad emigrare, prima, in Italia e, poi, in Inghilterra per evitare il carcere in quanto sospetto comunista). Prima de La caccia, Sam Spiegel aveva inanellato una corposa serie di grandissime soddisfazioni, producendo pluripremiati successi mondiali di pubblico e di critica, come La regina d’Africa (1951, di John Huston, un Oscar a Humphrey Bogart come miglior attore), Da qui all’eternità (1953, di Fred Zinneman, 8 Oscar), Fronte del porto (1954, di Elia Kazan, 8 Oscar), Il ponte sul fiume Kway (1957, di David Lean, 7 Oscar), Improvvisamente l’estate scorsa (1959, di Joseph Lee Mankiewicz), Lawrence d’Arabia (1962, di D. Lean, 7 Oscar). Con La caccia, invece, gli andò storto. Per renderlo più “commerciale” Spiegel sottopose la pellicola a numerosi tagli, eliminando alcune parti che riteneva rallentassero troppo il ritmo e dilatassero eccessivamente la durata e che fossero sacrificabili, poiché la loro eliminazione non riduceva la carica drammatica né la vis polemica de La caccia. Fu così eliminata l’ampia descrizione della vita della popolazione afroamericana del Sud degli States, che prevista come “controcanto” alla società bianca. Inoltre venne ridimensionato parecchio pure lo spazio narrativo previsto per diversi personaggi, su tutti quello interpretato da Angie Dickinson.

Fonti

La recente (ri)visione de La Caccia

Fernaldo di Giammatteo, Dizionario del cinema americano, Editori Riuniti, Roma, 1996

Luca Malvasi, Il cinema di Arthur Penn, Le Mani, 2008

Giuliana Muscio, Robert Redford, Gremese Editore, Roma, 1997

www.quinlan.it

 

1989, prime rivelazioni sul disastro aereo di Lockerbie

Il 16 febbraio 1989, un paio di mesi dopo l’incidente aereo del volo Pan Am 103, gli investigatori annunciarono che la causa dello schianto fu una bomba nascosta all’interno di un apparecchio radio. Il 21 dicembre 1988 il velivolo, un Boeing 747-121, era decollato verso le 18.30 dall’aeroporto internazionale di Heathrow (Londra) diretto a New York, con 243 passeggeri e 16 membri dell’equipaggio a bordo. Alle 19.02 il Boeing sparì dai tracciati radar.

Un minuto dopo la sezione centrale dell’aeroplano, che conteneva circa 91.000 kg di carburante, si schiantò al suolo presso Lockerbie, in Scozia, provocando una scossa sismica registrata come 1,6 della scala Richter; molte case e 60 metri di ala si frantumarono all’impatto. La disintegrazione dell’apparecchio fu rapida, la parte con la cabina di pilotaggio e il terzo motore si separarono dal resto del mezzo in circa 3 secondi. Nessuna procedura d’emergenza poté essere intrapresa a bordo. L’esplosione distrusse tutti i sistemi di navigazione e comunicazione; si staccò anche parte del tetto, mentre il resto dell’aereo continuò ad andare su e giù per poi precipitare in posizione quasi verticale. I detriti derivanti dalla disintegrazione del mezzo coprirono un’area di circa 2.000 chilometri quadrati.

Tutti i passeggeri e i membri dell’equipaggio morirono nel disastro. La Fatal Accident Inquiry concluse che la decompressione strappò la maggior parte dei vestiti dei passeggeri e trasformò oggetti come il carrello delle vivande in proiettili. Le persone non sedute o adeguatamente assicurate ai sedili vennero sbalzate fuori dalla cabina a una temperatura di -46 °C. Molti passeggeri rimasero all’interno dell’aereo grazie alle cinture di sicurezza, fino allo schianto. Secondo il medico legale, i membri dell’equipaggio e 147 passeggeri sopravvissero all’esplosione a bordo, nonostante l’enorme decompressione, e arrivarono al suolo vivi.

A terra, 11 abitanti della piccola comunità di Lockerbie morirono quando le ali dell’aereo, ancora attaccate alla parte centrale della fusoliera, colpirono le loro case alla velocità di 800 km/h, polverizzandole all’istante, creando un cratere lungo 47 metri e danneggiando nelle vicinanze altre case, che furono in seguito demolite.

Nei giorni successivi, gli uomini dell’Air Accident Investigation Branch, una sezione della polizia scozzese specializzata in disastri aerei, trovarono danni e bruciature che sembravano confermare i segni di un’esplosione ravvicinata, oltre alle tracce di due sostanze chimiche usate per fabbricare un esplosivo al plastico.

Le indagini si svolsero con la collaborazione dell’FBI, poiché più della metà delle vittime erano di nazionalità statunitense. Sedici giorni prima della strage, la Federal Aviation Administration aveva pubblicato un bollettino secondo cui un uomo con forte accento arabo aveva chiamato l’ambasciata americana a Helsinki, avvertendo che un volo della Pan Am verso New York sarebbe esploso in volo entro le due settimane successive. Inoltre, poche settimane prima, la polizia tedesca aveva catturato due componenti del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina intenzionati a compiere un attentato su un volo di linea, per cui le prime ipotesi investigative si volsero in quella direzione.

Poiché molti indizi sembravano invece condurre a un coinvolgimento libico, cominciò a circolare l’idea che l’attentato al volo Pan Am 103 potesse essere una vendetta del leader Gheddafi per la morte della figlia nei bombardamenti americani su Tripoli del 1984.

Dopo tre anni di investigazioni congiunte, l’FBI e la polizia di Dumfries and Galloway accusarono dell’attentato Abd el-Basset Ali al-Megrahi, ufficiale dell’intelligence libica e capo della sicurezza per Libyan Airways, e Lamin Khalifah Fhimah, responsabile della Libyan Airways presso l’Aeroporto Internazionale di Malta.

Non esistendo però trattati diretti fra i due paesi, gli inglesi non potevano richiedere ufficialmente l’estradizione dei presunti colpevoli, per cui incaricarono gli uomini dell’MI-6 di aprire dei canali extradiplomatici con Tripoli per ottenere in altri modi la loro consegna. Nel frattempo partì una pubblica escalation di accuse, ricatti e controaccuse, che culminò con una pesante serie di sanzioni internazionali imposte alla Libia dall’ONU, per ottenere la consegna dei due presunti attentatori.

A lungo andare il prezzo pagato per le sanzioni diventò insostenibile: dopo lunghe trattative, la Libia riconobbe ufficialmente “le responsabilità dei nostri ufficiali” e consegnò i due sospettati, a condizione che venissero giudicati in un tribunale neutrale, nei Paesi Bassi, alla presenza di osservatori internazionali. Al termine del processo, nel 2001, Fhimah fu assolto, mentre al-Megrahi fu ritenuto colpevole e condannato all’ergastolo, con una pena minima di venti anni da scontare.

Nonostante questi si proclamasse innocente, e nonostante il principale osservatore dell’ONU, Hans Köchler, abbia definito il verdetto uno “spettacolare aborto giuridico” (“a spectacular miscarriage of justice”), il mondo si convinse che l’attentato fosse partito proprio dalla Libia. Nel 2002 al-Megrahi tentò un ricorso in appello, ma la sua richiesta fu respinta per “inconsistenza delle motivazioni”.

Al-Megrahi non si arrese, e iniziò a far raccogliere tutta la documentazione possibile per preparare un secondo appello.

Nel frattempo Gheddafi appariva ammansito, sullo scenario internazionale, e, a conferma delle sue buone intenzioni, si impegnò a pagare 2.7 miliardi di dollari alle famiglie delle vittime (circa 10 milioni di dollari per famiglia), legando però i pagamenti alla cancellazione definitiva delle sanzioni contro la Libia e alla rimozione del suo paese dalla lista degli “stati-canaglia”.

Il 20 agosto 2009, tra enormi polemiche, al-Megrahi fu rilasciato dalle autorità scozzesi perché malato di cancro e morì a Tripoli tre anni dopo. Con la sua morte, si sono messi a tacere i segreti delle sue attività al servizio di Gheddafi all’epoca della strage, ma sulla sua innocenza l’unico condannato per la strage di Lockerbie ha lasciato abbastanza materiale ai posteri per riflettere. Se avesse presentato un nuovo ricorso, avrebbe molto probabilmente vinto. La testimonianza del commerciante Tony Gaucci a Malta, che indicò in lui il cliente cui vendette abiti che lo avrebbero ricollegato alla valigia-bomba della strage, ha fatto sempre acqua da tutte le parti. E al-Megrahi non era a Malta il giorno in cui furono venduti i famosi vestiti.

Al-Megrahi ha comprensibilmente scelto di morire in Libia, anziché combattere dalla prigione per riabilitare il suo nome. Come testamento ha lasciato le memorie che John Ashton, ricercatore per i suoi avvocati al processo e autore di un libro sul caso, collega a una serie di fatti e documenti che dimostrano falle nelle indagini; lo stesso Scottish Criminal Review Commission, in un rapporto di 800 pagine sul caso, affermò che la difesa di al-Megrahi era stata danneggiata e che pertanto “un errore giudiziario possa essere occorso”. Persino tra i parenti delle vittime c’è chi pensa che Abd el-Basset Ali Al-Megrahi sia stato vittima di un clamoroso errore giudiziario.

Nel 2014, l’emittente araba al Jazeera produsse il documentario “Lockerbie: What Really Happened?”, incentrato sull’intervista a un ex agente dell’intelligence iraniana, Abolghassem Mesbahi; secondo l’ex spia fu l’Ayatollah Khomeini a ordinare l’abbattimento del volo Pan Am, come rappresaglia per un attacco messo a segno sei mesi prima dalla marina USA contro un airbus iraniano, costato la vita a 290 persone. L’attentato di Lockerbie sarebbe stato organizzato da membri dei regimi iraniano, siriano e libico, e materialmente eseguito da un gruppo terroristico avente base in Siria, costituito da fuoriusciti del Fronte popolare per la liberazione della Palestina. Della pista iraniana avevano già parlato alcuni analisti e giornalisti, tra cui Robert Fisk, individuando una connection libano-palestinese.

Il documentario suggerisce che le indagini abbiano cambiato improvvisamente corso, puntando su Tripoli, dopo una telefonata tra l’allora presidente USA George Bush e la premier britannica Margaret Thatcher, molto probabilmente perché Washington non voleva scontrarsi con il regime di Damasco, che appoggiava Stati Uniti e Regno Unito nella prima Guerra del Golfo contro Saddam Hussein. USA e Gran Bretagna avrebbero poi dirottato l’attenzione dall’Iran sulla Libia, poiché Tripoli era all’epoca un avversario più “facile” e perché erano in corso negoziati segreti con Teheran finalizzati alla liberazione di ostaggi occidentali nelle mani dell’Hezbollah filo-iraniano.

L’Iran ha immediatamente smentito questa tesi.

Nel giro di tre anni dal disastro di Lockerbie, la Pan American World Airways, già in crisi, cessò le proprie attività.

In ricordo delle 270 vittime è stato eretto un memoriale, il Garden of Remembrance, nel cimitero di Lockerbie.

Silvia Boverini

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Fonti: www.it.wikipedia.org; www.corriere.it; M Mazzucco, “La vera storia del volo di Lockerbie”, https://comedonchisciotte.org; “L’attentato di Lockerbie venne ordinato dall’Iran”, www.today.it; www.globalist.it