La domenica di sangue degli Usa

Stati Uniti, metà anni Sessanta. La questione razziale attraversa tutta la nazione, concentrandosi in particolar modo negli stati conservatori del Sud. Sud, dove, peraltro, l’idolatrato John Kennedy ha da poco perso la vita. A Lyndon Johnson l’arduo compito di raccoglierne l’eredità: dialogare con Martin Luther King, senza, però, perdere l’appoggio di chi ancora non vede di buon occhio l’uguaglianza tra bianchi e neri.

Da Washington D.C. a Selma, Alabama. Amelia Boynton Robinson e suo marito guidano la Dallas County Voters League (DCVL) che tenta di tutelare il diritto di voto degli afroamericani in quella terra difficile. Insieme allo Student Nonviolent Coordinating Committee (SNCC), però, incontrano serie difficoltà a far rispettare quel fondamentale diritto. Decisero di chiamare in causa il pastore di Atlanta e la sua Southern Christian Leadership Conference, nella speranza di attrarre gli occhi della nazione sulle ingiustizie che venivano perpetrate. Il movimento per i diritti civili degli afroamericani stava per far sentire la propria voce una volta di più.

Infatti, nonostante i cittadini neri avessero già legalmente il diritto di voto, una serie di requisiti discriminatori impediva, di fatto, a milioni di afroamericani, nel sud del Paese, di iscriversi al registro elettorale e poter così votare. Fu organizzata, per il sette marzo, una marcia pacifica di protesta: da Selma, i partecipanti avrebbero dovuto raggiungere a piedi Montgomery, la capitale dello stato dell’Alabama.

Arrivati sul ponte Edmund Pettus, i 600 partecipanti furono accolti da manganelli e gas lacrimogeno, dando luogo a quella che sarà poi chiamata bloody sunday. Il ricordo di quei momenti è ancora vivo nella memoria collettiva, in gran parte a causa delle immagini che vennero trasmesse su tutte le televisioni. L’intervento di King aveva sortito il suo effetto: piena visibilità nazionale.

Il pastore partecipò attivamente alla seconda marcia, due giorni dopo: con un atto di grande coraggio e determinazione, guidò i 2500 manifestanti appena oltre il ponte che aveva visto la fine del primo evento. Turnaround Tuesday (martedì dell’inversione di marcia), così fu chiamata, poiché King decise di far tornare tutti indietro, rispettando le decisioni del giudice, che non l’aveva autorizzata.

Una settimana dopo, la Corte Federale concesse agli attivisti la possibilità di manifestare, dichiarando illegittima l’abrogazione del Primo emendamento costituzionale da parte del giudice locale. Il 21 marzo, 8000 persone iniziarono a marciare verso Montgomery, scortate da migliaia di esponenti delle forze dell’ordine, Esercito compreso. Arrivati alla capitale dopo quattro giorni, il numero di partecipanti era più che triplicato.

Cinque mesi più tardi, il voting rights act, la legge che proibiva la discriminazione razziale e rafforzava il diritto di voto difeso dal quindicesimo emendamento della Costituzione Usa, entrava a pieno titolo nella normativa americana. Era stato proposto dallo stesso Presidente Johnson.

Alessio Gaggero

Quei Rosenberg fatti sedere sulla sedia elettrica per niente

Il 6 marzo del 1951 furono denunciati Julius Rosenberg, ingegnere elettrico, di 33 anni, e sua moglie, Ethel Greenglass, trentaseienne, segretaria di una società di spedizioni navali. Entrambi ebrei newyorchesi e membri della Young Communist League di New York, erano accusati di aver trasmesso ad agenti sovietici informazioni utili a costruire la boma atomica. Il loro processo, la loro condanna a morte, pronunciata meno di un mese dopo, il 5 aprile, e l’esecuzione della sentenza, avvenuta nel penitenziario di Sing Sing (Stato di New York), il 19 giugno del 1953, sollevarono un clamore paragonabile a quello del caso Sacco e Vanzetti [1]. E come la vicenda dei due italiani di ventisei anni prima, anche quella dei coniugi Rosenberg, gli unici due civili condannati a morte per spionaggio, ovvero per “attività anti-americane”, risentì enormemente del clima politico interno e internazionale del periodo.

La Guerra fredda

La fine della Seconda Guerra Mondiale, con la vittoria alleata sull’impero giapponese, fu segnata dallo sganciamento di due bombe atomiche, il 6 agosto del 1945, su Hiroshima, e il 9 agosto, su Nagasaki [2]. Le due bombe erano state prodotte nell’ambito del progetto Manhattan, l’operazione messa a punto nella base di Los Alamos, nel Nuovo Messico [3]. Con la loro esplosione, “la guerra destinata a porre fine a tutte le guerre” generava nel mondo la paura di un nuovo e più catastrofico olocausto. Infatti, con la fine del secondo conflitto mondiale, l’effimera alleanza tra Stati Uniti e Unione Sovietica veniva rapidamente liquidata e riprendeva lo scontro ideologico, politico ed economico, sviluppatosi fin dalla Rivoluzione bolscevica del 1917, tra l’Ovest capitalista, e l’Est comunista. Tale conflitto, che coinvolse l’intero pianeta per più di quarant’anni e che fu definito “guerra fredda”, perché, per fortuna, non si tradusse in uno scontro militare diretto tra U.R.S.S. e USA, si sviluppò su diversi registri. Non ultimo, come accade per i tutti conflitti, quello della propaganda interna, che sempre gioca un ruolo potente sulle emozioni e sui sentimenti della collettività [4].

La caccia alle streghe

In tale contesto, dal 1947, negli USA cominciò ad operare la Commissione d’indagine sulle attività antiamericane (House Un-American Activities Committee –HUAC). Tale commissione permise a demagoghi senza scrupoli e politicanti di second’ordine di raggiungere notorietà e potere insperati, perseguitando migliaia di persone, incolpevoli in realtà, ma comodi capri espiatori di quella paura rossa che si diffondeva con la rapidità di un’epidemia. Nel 1949, il deputato repubblicano Richard M. Nixon, membro dell’HUAC, riusciva, infatti, a far condannare per spionaggio Alger Hiss, che era stato un funzionario del Dipartimento di Stato sotto le amministrazioni democratiche dei presidenti Franklin Delano Roosevelt e Harry Truman [5]. Ciò portò ad un’ulteriore escalation dell’isteria anticomunista, tanto che iniziò a diffondersi la convinzione che tutte le istituzioni americane brulicassero di traditori [6].

L’antintellettualismo della caccia alle streghe

Oltre ad un inconfessato antisemitismo, la caccia alle streghe si nutrì ampiamente di un crescente antintellettualismo. Accanto alle indagini a tutto spiano dell’FBI  che squassavano la vita di migliaia di privati cittadini, spesso sospettati di essere dei “rossi” solo per aver firmato appelli per la pace o per aver elargito del denaro ad organizzazioni di tutela dei diritti civili -, e in aggiunta ai vergognosi “processi” dell’HUAC, tra il ’49 e il ’50 proliferarono, infatti, anche comitati ultrapatriottici, più o meno spontanei [7]. Questi, volti a “scoprire” e a stroncare la propaganda comunista ovunque, a loro parere, si annidasse, raggiungevano vertici inimmaginabili di assurdità, Ma erano in pochi a rilevarli e soprattutto a denunciarli pubblicamente [8]. Il pensiero dominante non ammetteva dubbi né critiche. Chi si azzardava era tacciato di filo-comunismo. Il che equivaleva ad essere sospettati di anti-americanismo, vale a dire dei traditori. Come minimo tali accuse, anche informali, implicavano la perdita dell’impiego e l’impossibilità di trovarne un altro.

Il maccartismo

Un solo politico americano si avvantaggiò dell’anticomunismo isterico di quegli anni, più di Richard Nixon. Il 9 febbraio del 1950, Joseph McCarthy, secondo senatore del Winsconsin, durante una conferenza in un club repubblicano femminile, affermò di essere in possesso di una lista di 250 membri del Dipartimento di Stato noti al segretario di Stato, Dean Acheson, come membri del Partito Comunista. Joe McCarthy non dimostrò mai la fondatezza di tale accusa, del tutto campata in aria, ma non ne aveva alcun bisogno. Il popolo era disperatamente incline a credergli sulla parola (abbiamo rievocato la sua parabola in questo post). Le sue balle avevano facile presa su di un popolo angosciato e, perciò, arrabbiato. Moltissimi americani, ben più della maggioranza, preferiva sospendere ogni capacità critica e bersi le frottole di ciarlatani come McCarthy, perdendo, così, fiducia nelle fondamentali istituzioni democratiche e rinunciando ad alcuni diritti inalienabili, piuttosto che tollerare l’ansia [9].

L’atomica russa e i Rosenberg

Ad accrescere terribilmente l’isteria anticomunista fu la raggiunta “parità” atomica dall’URSS nel ’49 (ne abbiamo parlato qui, ricordando la figura di Andrei Sakharov) [10]. La realizzazione del primo esperimento atomico da parte dell’URSS, che privava gli USA del monopolio sulla “bomba”, anche per la velocità con cui i sovietici ci erano arrivati, sollevò immediatamente il sospetto che ci fosse stata una fuga di informazioni. In tale cornice maturò il caso dei coniugi Rosenberg [11]. Nel febbraio del 1950 l’FBI arrestò il tecnico Kalus Fuchs, sospettato di aver passato ai russi informazioni sulla bomba nucleare. Il suo arrestò portò ad individuare altre presunte spie, ognuna delle quali, interrogata, fece il nome di altri presunti traditori. Tra costoro, David Greenglass, il fratello di Ethel Rosenberg, che, come militare, era di servizio proprio a Los Alamos. Costui, sotto incredibili pressioni, decise di collaborare con gli investigatori in cambio di uno sconto di pena, sostenendo di avere consegnato a Julius Rosenberg dei documenti segreti e dicendo che questi documenti erano stati copiati proprio da Ethel. Il 17 febbraio del 1950 gli agenti dell’FBI arrestarono Julius Rosenberg,  l’11 agosto toccò ad Ethel. Nel frattempo scoppiava il conflitto in Corea [12].

L’accusa nei confronti dei coniugi Rosenberg

L’accusa nei confronti di Julius Rosenberg era di essere il capo di una cellula di spie di cui facevano parte anche sua moglie e un altro attivista di sinistra, Morton Sobell. I principali elementi accusatori erano, quindi, le affermazioni di David Greenglass e di sua moglie Ruth, dato non c’erano altre prove, a parte, appunto, la testimonianza diretta dei Greenglass.

La sentenza di condanna

Il 5 aprile del 1951, neppure un mese dopo essere stati ufficialmente incriminati, i Rosenberg furono condannati a morte, mentre David Greenglass fu condannato a 15 anni di carcere e Morton Sobell a 30. Durante la lettura della sentenza, il giudice Irvin Kaufman disse:

«Considero il vostro crimine peggiore dell’omicidio. Io credo che la vostra condotta abbia messo nelle mani dei russi la bomba atomica molti anni prima di quanto avevano previsto i nostri migliori scienziati e che questo fatto abbia già causato l’aggressione comunista in Corea, che ha portato già a 50 mila morti, mentre nessuno sa quanti altri milioni di innocenti potrebbero pagare il prezzo della vostra infedeltà alla nazione. Con il vostro tradimento avete senza dubbio alterato il corso della storia a sfavore della vostra nazione».

L’esecuzione

Il presidente Dwight Eisenhower respinse la grazia e la sentenza venne eseguita il 19 giugno 1953. Julius Rosenberg venne dichiarato morto dopo le tre scariche utilizzate di solito sulla sedia elettrica. Ethel, invece, dopo le tre scosse era ancora viva. Le furono date altre due scariche.

«Usciva del fumo da sotto l’elmetto della sedia elettrica», raccontò un testimone.

Le proteste e i dubbi sul processo ai Rosenberg

Durante il processo, molte persone, incluse delle figure spicco e moltissimi intellettuali, di sinistra e non, in tutto il mondo, difesero i coniugi Rosenberg, accusando il governo degli Stati Uniti di aver inscenato un processo farsa per soddisfare la paranoia dell’opinione pubblica. Tra costoro vi erano Bertolt Brecht, Dashiell Hammett, Frida Kahlo e suo marito Diego Rivera, Jean Paul Sartre e Pablo Picasso. Anche il Papa, Pio XII, chiese pubblicamente che ai Rosenberg venisse risparmiata la pena di morte. Renato Guttuso immortalò i loro volti in un disegno a matita su carta, che intitolò semplicemente Julius ed Ethel Rosenberg. I figli dei Rosenberg, che avevano al momento della sentenza l’uno, Micheal, 10 anni, e l’altro, Robert, 6, per decenni portarono avanti una campagna tesa dimostrare l’innocenza dei loro genitori, chiedendo la diffusione di documenti secretati e intentando diverse cause legali.

Le rivelazioni di VENONA

Nel 1995 furono pubblicate una serie di comunicazioni russe intercettate dai servizi segreti americani e inglesi negli anni Quaranta e Cinquanta. Queste comunicazioni – chiamate in codice VENONA – sembrarono rivelare che Julius Rosenberg avesse avuto davvero un rapporto con i servizi segreti russi. I figli dei Rosenberg, però, ritennero quelle intercettazioni delle prove scarsamente credibili, anche perché nei messaggi di VENONA non si faceva quasi nessun cenno sulla loro madre, Ethel Rosenberg.

La manipolazione dei testimoni David e Ruth Greengrass

Risultò poi assodato che gli investigatori avevano manipolato i testimoni. In particolare, avevano convinto David e Ruth Greengrass a ritrattare le loro deposizioni originarie, per meglio accusare i Rosenberg. In pratica, quasi certamente, Ethel era stata arrestata e trattenuta al solo scopo di mettere sotto pressione Julius Rosenberg, così da costringerlo a parlare, visto che la minaccia della condanna a morte sembrava non avere effetto su di lui. Nonostante i ricatti e le pressioni, però, nessuno dei due Rosenberg aveva denunciato altri possibili membri di quella rete spionistica, che gli investigatori speravano di perseguire [13].

Le pressioni sul giudice Irvin Kaufman

Inoltre, emerse che il giudice Kaufman aveva ricevuto diverse raccomandazioni e pressioni per orientare il processo verso la condanna dei Rosenberg. In particolare, da parte del procuratore Roy Cohn (che rappresentava la pubblica accusa), il quale di lì a poco divenne un elemento di spicco nello staff del senatore McCarthy.

I Rosenberg e i segreti di Los Alamos

Davvero, però, come aveva sostenuto il giudice Kaufman, i Rosenberg avevano «cambiato la storia»? Avevano davvero consegnato ai sovietici il segreto della bomba atomica? La loro condotta aveva realmente spinto, quindi, la Corea del Nord a cessare ogni indugio e attaccare quella della Sud? Sembra di no. Molti esperti, esaminati i documenti copiati da Julius Rosenberg, spiegarono che, poiché né lui né Greenglass capivano niente di energia nucleare, sempre che davvero lo avessero fatto, avevano sottratto documenti poco utili e per giunta li avevano copiati in modo inappropriato. Del resto, nel 1989 Boris V. Brokhovich (il direttore dell’impianto di arricchimento del plutonio con il quale era stata realizzata la prima bomba atomica sovietica), intervistato dal New York Times, spiegò che lo sviluppo della bomba russa, in realtà, «fu un processo fatto di tentativi ed errori» E aggiunse:

«Non ottenemmo niente dai Rosenberg. Li avete fatti sedere sulla sedia elettrica per niente».

Alberto Quattrocolo

[1] Lo abbiamo ricordato nel post 23 agosto 1927: esecuzione di Sacco e Vanzetti, su questa rubrica, Corsi e Ricorsi, dell’Associazione Me.Dia.Re.

[2] Solo per effetto della loro esplosione i due ordigni atomici spazzarono via 70.000 vite a Hiroshima e 40.000 a Nagasaki. Cinque giorni dopo l’imperatore Hirohito annunciò ufficialmente la capitolazione del Giappone.

[3] L’abbiamo ricordato qui, mentre abbiamo rievocato la vicenda della USS Indianapolis che portava la prima delle due bombe in un altro post: Seconda guerra mondiale: il sottomarino giapponese I-58 affonda la USS Indianapolis, uccidendo 880 marinai. È il 31 luglio 1945.

[4] L’interruzione del processo di smobilitazione dell’esercito sovietico nel febbraio del ’46, ad appena 9 mesi dalla cessazione della guerra in Europa. La totale presa di potere da parte dell’Unione Sovietica nell’Europa dell’Est. La costituzione nel ’47 del Kominform (Ufficio di informazione dei partiti comunisti), con il rafforzamento della rete della rete spionistica sovietica nei paesi occidentali. Lo stalinismo al suo culmine, che costò indicibili sofferenze a centinaia di migliaia di dissidenti, i quali furono perseguitati, incarcerati, fucilati o deportati in Siberia. La vittoria nel ‘48 di Mao Zedong nella guerra civile cinese e poi, nel ’50, l’invasione della Corea del Sud da parte della Corea del Nord, comunista e appoggiata anche militarmente dalla Repubblica Popolare Cinese:tutti questi fatti seminarono un’ansia diffusa in tutto l’Occidente.

[5] Hiss, che aveva contribuito alla fondazione delle Nazioni Unite, era stato accusato dall’HUAC di essere stato un membro del Partito Comunista Americano. Alger Hiss aveva negato sotto giuramento di essere stato comunista, venendo poi condannato per spergiuro, in virtù della testimonianza di Whittaker Chambers.

[6] Una prima lista di sospetti filocomunisti, oltre ad Hiss, includeva il defunto Frankln D. Roosevelt, il presidente Harry Truman, l’intera organizzazione sindacale, il segretario di Stato Dean Acheson e il suo intero dicastero!

[7] La Commissione passava al setaccio, massacrandoli, funzionari federali, dipendenti pubblici e perfino dei militari, nonché sceneggiatori, produttori e registi dell’industria cinematografica e delle emittenti televisive. Il suo quesito era invariabilmente questo: «Lei è o è stato membro del Partito Comunista?». Se si rispondeva di no, non si veniva creduti e si rischiava la condanna per spergiuro. Se si rispondeva di sì, si rischiava di essere processati come spie, a meno che non si mostrasse il proprio ravvedimento denunciando altri reali o presunti filocomunisti attuali o del passato. Se ci si rifiutava di rispondere invocando le norme costituzionali che consentono di non autoincriminarsi, si veniva denunciati seduta stante di oltraggio alla Commissione e invariabilmente condannati.

[8] Si verificavano così incursioni nelle biblioteche e nelle librerie volte a stanare libri filocomunisti e si rappresentavano come pericolosi sovversivi personaggi improbabili, reali o di finzione che fossero (inclusi, tra i primi Eleonore Roosevelt, la vedova del presidente). Infatti, tra i primi testi ad essere condannati al rogo ci fu Furore (The Grapes of Wrath) di John Steinbeck. Mentre la signora Thomas J. White della Commissione per i libri di testo dello Stato dell’Indiana mise sotto accusa Robin Hood: «Robin Hood rubava ai ricchi e dava ai poveri: questo è comunismo. Quindi è contro la legge e l’ordine». Perfino la vita e le esperienze di Henry Wadsworth Longfellow divennero un tabù, per via delle sue attività pacifiste, considerate pericolosamente assimilabili al pacifismo comunista.

[9] Così, mentre a Hollywood ripartiva una seconda ondata di inchieste da parte dell’HUAC, che, in cerca della massima visibilità, aveva deciso di mettere alla gogna gli attori, inclusi alcuni divi, McCarthy conduceva in proprio la sua campagna, riscuotendo una notorietà impensabile, mentre devastava la vita di coloro che finivano nel suo tritacarne e calpestava la Costituzione. Per alcuni anni, quindi, il senatore McCarthy fu l’uomo più temuto d’America. Molti lo reputavano un difensore della patria, ma per molti altri egli era l’antitesi dei principi e dei valori sanciti dalla Costituzione degli Stati Uniti. Costoro ritenevano che il suo operato fosse oltre che illiberale, sfacciatamente manipolativo e persecutorio. Pensavano, soprattutto, che la diffusione della sua psicosi, che lo portava a vedere nemici in ogni angolo del Paese, fosse quanto di più pericoloso potesse accadere in America. Più pericoloso perfino della cospirazione comunista. Sul clima di sospetto e persecuzione provocato dal maccartismo ci siamo soffermati anche nei post dedicati all’elezione a presidente di John F. Kennedy e in quello su Paul Newman, in occasione dell’anniversario della sua morte.

[10] Il 23 settembre del 1949 il presidente Harry Truman rilasciò alla stampa la seguente drammatica dichiarazione: «Ritengo che il popolo americano abbia diritto ad essere informato nella più ampia misura compatibile con la sicurezza nazionale, di tutto quanto si verifica nel campo dell’energia atomica. Ecco perché ritengo necessario rendere nota la seguente notizia: da prove in nostro possesso, risulta che nelle ultime settimane ha avuto luogo in Unione Sovietica una esplosione atomica».

[11] Julius Rosenberg ed Ethel Greenglass, entrambi attivisti politici di sinistra fin da giovanissimi, si conobbero nel 1936, frequentando la Young Communist League, di cui Rosenberg era leader, e si sposarono nel 1939, lo stesso anno in cui egli si laureò in ingegneria elettrica.

[12] Il 25 giugno 1950, infatti, iniziava il conflitto tra le due Coree, nel quale gli Stati Uniti, sotto l’egida dell’ONU, intervenivano in modo determinante a sostegno di quella del Sud.

[13] Nel 2001 David Greenglass rivelò che nell’accusare Ethel aveva commesso il reato di falsa testimonianza. Spiegò di aver accusato la sorella per proteggere la moglie e che a spingerlo in quella direzione furono gli investigatori e i magistrati dell’accusa. Nel 2008, quando vennero resi pubblici i documenti del gran giurì (l’udienza segreta che portò all’inizio del processo contro i Rosenberg), emerse che in quell’occasione Ruth Greenglass disse che era stata lei a trascrivere il documento segreto: al processo, qualche mese dopo, Ruth cambiò versione e sostenne che era stata Ethel Rosenberg a copiarlo. Ciò sembra davvero confermare che Ethel Rosenberg sia stata coinvolta nel processo per fare pressioni su suo marito e ottenere da lui una confessione in cambio del proscioglimento della moglie. Sempre nel 2008 Martin Sobell, disse al New York Times che sia lui che i Rosenberg erano stati delle spie, ma confermò che Ethel Rosenberg, per quanto a conoscenza delle attività del marito, non lo aiutò mai attivamente. I figli dei Rosenberg, una settimana dopo, affermarono di accettare l’idea che i loro genitori avevano davvero compiuto attività di spionaggio a favore dell’Unione Sovietica.

Fonti

Fabio Cociancich, Il caso Rosenberg e la paranoia collettiva negli USA: ieri e oggi, 29 marzo 2017, http://www.sconfinare.net

Davide Maria De Luca, I Rosenberg e la bomba atomica, 19 giugno 2013, https://www.ilpost.it

Giorgio Ferrari, Ombre rosse. Il caso Rosenberg e la Guerra fredda, BookTime, 2010.

Robert Meeropol, Quando il governo decise di assassinare mio padre e mia madre, Zambon 2003

 

 

 

Idy Diene viene ucciso a Firenze. La rabbia della sua comunità scoppia in città

Il secondo degli eventi di violenza a sfondo razzista del 2018 (abbiamo ricordato qui il primo di una lunga serie) si svolge nel capoluogo toscano, un giorno dopo il voto delle elezioni politiche. La campagna elettorale ufficiale è conclusa, ma i suoi effetti sono appena incominciati.

Quel lunedì, in tarda mattinata, Roberto Pirrone, 64 anni, tipografo in pensione, esce di casa con l’intenzione di suicidarsi. Ha appena discusso con la moglie, probabilmente per l’ennesima volta, dei problemi di natura economica che assillano la famiglia: questa, però, è l’ultima, perché ha deciso di togliersi la vita. Porta con sé la Beretta semiautomatica, per cui ha il porto d’armi, e si dirige verso il centro storico: dalla casa in Oltrarno passa su ponte Vespucci, dove non riesce a trovare il coraggio di compiere il gesto letale.

Decide di chiudere la partita in un altro modo, altrettanto tremendo: togliendo la vita a qualcun altro e finendo in carcere per il resto dei suoi giorni. Sembra che inizialmente abbia desistito dallo sparare a una donna di colore con un bambino, per poi rivolgere l’arma contro Idy Diene, ambulante senegalese di 54 anni. I dipendenti del vicino consolato americano, sentendo gli spari, danno subito l’allarme: sul posto si precipitano i soccorsi, che, però, non possono far nulla per la vittima; una pattuglia dell’esercito ferma invece Pirrone, mentre, a suo dire, stava andando a costituirsi dai carabinieri. Negli stessi momenti, pare che la figlia, avendo trovato in casa un biglietto scritto dal pensionato, abbia chiamato il 113, chiedendo aiuto per il padre.

La sera stessa esplode la rabbia della comunità senegalese. Un centinaio di persone è sceso in piazza qualche ora dopo l’omicidio, per protestare e “chiedere chiarimenti“. Dal ponte, teatro della tragedia, si sono diretti verso la questura, danneggiando le vie del centro: fioriere divelte, cestini rovesciati e scooter gettati a terra. Cittadini e turisti impauriti si sono rifugiati nei negozi vicini. Il corteo si è poi spostato verso la stazione, dove il traffico è stato bloccato su tutta la piazza.

Violenze non giustificabili, ma che trovano fondamento in una situazione di grande tensione, già alta dal 2011: in piazza Dalmazia, l’attivista di CasaPound Gianluca Casseri aveva ucciso a colpi di pistola due uomini senegalesi. Si era poi suicidato durante la caccia delle forze dell’ordine. Evidentemente, quella comunità non aveva ancora dimenticato:

Abbiamo raccolto due morti in questa città e abbiamo mantenuto la calma. Stavolta basta!

Il corteo ha anche incontrato l’imam Izzedine Elzir, presidente dell’Unione delle comunità e organizzazioni islamiche in Italia:

Dobbiamo dare un grande abbraccio alla famiglia e alla comunità colpita da questa tragedia, non è il tempo delle divisioni: tutta la città di Firenze abbraccia i senegalesi in questo momento di dolore […] Il clima di intolleranza di questa campagna elettorale certo non ha aiutato.

E continuerà a non aiutare.

Alessio Gaggero

 

Nicola Calipari viene ucciso da proiettili americani

Nel 2003, una “coalizione di volenterosi”, Italiani compresi, invase l’Iraq per deporre Saddam Hussein e sventare la minaccia dei fondamentalisti islamici di al Qaida. Il capo del regime fu catturato dopo pochi mesi, ma i volenterosi non se ne andarono: il pericolo del terrorismo era ancora vivo.

Giuliana Sgrena era sempre stata contro l’intervento militare. Andò a Baghdad come inviata de Il Manifesto e svolse il suo lavoro di giornalista fino al 4 febbraio 2005: quel giorno fu rapita dall’Orga­niz­za­zione per la Jihad isla­mica. Dopo un mese di rivendicazioni, richieste di ritiro delle truppe e video sul web, l’ostaggio viene liberato: l’annuncio lo dà al Jazeera.

Giuliana, Giuliana sono Nicola, non ti preoccupare ho parlato con Gabriele Polo [allora direttore de Il Manifesto. N.d.a], stai tranquilla, sei libera.

Queste sono le prime parole amiche che Sgrena sente una volta liberata. E’ Nicola Calipari a parlare. 52 anni, originario di Reggio Calabria, laureato in giurisprudenza, ha solo tre anni di esperienza al SISMI (Servizio per le informazioni e la sicurezza militare. Oggi sostituito dall’Agenzia informazioni e sicurezza esterna, AISE), ma ha già condotto diverse trattative per ostaggi in Iraq.

I due salgono in macchina, ma solo uno dei due ne scenderà sulle proprie gambe. A circa 700 metri dall’aeroporto, dove un volo aspetta proprio il loro arrivo per partire, c’è un posto di blocco americano. E’ stato posizionato alle 19.30 e dovrebbe durare mezz’ora, giusto il tempo di controllare il convoglio dell’ambasciatore statunitense, John Negroponte: tenerlo attivo troppo a lungo espone i militari a un rischio a crescita esponenziale.

I due italiani arrivano alle 20.50, 50 minuti dopo il termine previsto inizialmente; 20 minuti dopo la richiesta di smantellamento da parte del capitano Drew, a cui è stato opposto un rifiuto dal comando. Alla mitragliatrice c’è Mario Lozano, che spara una raffica in direzione dell’auto: Nicola si lancia su Giuliana, salvandole, probabilmente, la vita al costo della propria.

A questo punto la storia si complica oltre ogni possibilità di vederci chiaro. Le versioni si rincorrono, si ostacolano, si contrappongono. La macchina correva troppo? Aveva fari e luci interne spente? Si trattava effettivamente di un posto di blocco? E’ stato davvero un errore? In Italia abbiamo una verità giudiziaria, che offre poche soddisfazioni: nel 2008 la Corte di Cassazione ha stabilito che il soldato americano non poteva essere processato nel nostro paese, a causa della cosiddetta immunità funzionale.

Certo è che gli Stati Uniti fornirono pochissima collaborazione, perlopiù formale, nello svolgimento delle indagini. Così, la mente viaggia con facilità verso un caso più recente, sicuramente diverso, ma a tratti somigliante: quello di Giulio Regeni. Speriamo che allo studente friulano, alla sua famiglia e al suo Paese sia tributato maggior rispetto.

Alessio Gaggero

Viene uccisa Teresa Gullace che ispirerà il personaggio di Anna Magnani in “Roma città aperta”

A Roma, a pochi passi da San Pietro, c’è Vicolo del Vicario; qui, accanto alla zona abitata dai fornaciari, chiamata non a caso Valle dell’Inferno, sorgeva uno dei tanti baraccamenti che ospitava i più miserabili tra i poveri. Erano perlopiù meridionali che si erano trasferiti nella capitale in cerca di lavoro nell’edilizia; lavoravano a giornata come manovali, manodopera non specializzata costretta a continui spostamenti e licenziamenti. Il poco salario non era sufficiente a sfamare la famiglia, tantomeno per procurarsi una casa, così vivevano in baracche di fortuna, nonostante contribuissero con le loro fatiche a costruire i palazzi dei quartieri ricchi. Per una parte di questa umanità dimenticata, il regime fascista aveva costruito delle borgate con case provvisorie, come San Basilio o Gordiani, con lo scopo di allontanare i reietti dal centro della città: la Roma imperiale non poteva tollerare tanta miseria. Tuttavia, molti baraccamenti come quello a Vicolo del Vicario nel 1944 ancora esistevano, malgrado la propaganda di regime tentasse di nasconderli.

In questo “villaggio” di invisibili vive, ammassata in una sola stanza, una famiglia di sette persone, Girolamo e Teresa Gullace con i loro cinque bambini; la donna è incinta, il marito lavora nei cantieri, la paga è scarsa, per mangiare ci si arrangia rimediando un pasto dalle suore o scambiando i bollini della tessera annonaria, una razione di burro per una di pasta.

Una mattina, Girolamo esce a piedi, ignaro che per le vie di Roma è in corso un rastrellamento, ordinato dai tedeschi per avviare una vasta quantità di uomini adulti ai campi di lavoro e prigionia in Germania; viene così fermato dai carabinieri, portato prima al distaccamento di via delle Fornaci e successivamente al comando tedesco. I tedeschi lo internano alla caserma dell’81° Fanteria in via Giulio Cesare insieme a tanti altri. La famiglia viene a conoscenza del fatto con molto ritardo, attraverso il passaparola.

La mattina del 3 marzo ‘44, Teresa Gullace, accompagnata dal suo secondogenito, si reca in via Giulio Cesare, come già aveva fatto nei giorni precedenti, per cercare di vedere il marito e passargli, magari, un pezzo di pane nero, qualche sigaretta e una camicia pulita. Quella mattina, però, la situazione è differente: le donne degli internati sono centinaia di fronte alla caserma, gridano, piangono, implorano, ma sono bloccate da una muraglia di soldati tedeschi. I rastrellati sono rinchiusi all’ultimo piano e si affacciano. Sulla via passa avanti e indietro una motocicletta con due SS, uno guida e quello dietro agita in aria il mitra, lo punta contro l’assembramento delle donne per non farle scendere dal marciapiede, poi lo alza e spara contro le finestre per far rientrare i reclusi.

Dissimulati tra la folla vi sono anche alcuni partigiani della Resistenza romana, una ventina di gappisti armati: hanno mobilitato la popolazione, soprattutto donne da tutti i quartieri della città, per fare delle dimostrazioni e avere notizie sui parenti fermati, ma l’intento è quello di attaccare la caserma per liberare quanti più prigionieri possibile.

Teresa Gullace è impaurita di fronte a tanta moltitudine, ma si fa coraggio, sgomita tra la folla e riesce a raggiungere la prima fila. Vede il marito aggrappato alla grata della finestra, si fa ancora più avanti, ha in mano l’involto di cibo, si stacca dal marciapiede e attraversa la strada dirigendosi decisa verso la caserma. Le si para davanti un soldato tedesco, le sbarra il passo, spiana il fucile. Teresa tenta di spiegargli che vuole solo lanciare quel pezzo di pane a suo marito, quello che si agita sopra la finestra; di fronte all’indifferenza del militare, la donna comincia ad alzare la voce, inveisce, si dispera. Forse il soldato capisce male, forse si sente minacciato e, senza dire una parola, spara e la colpisce in pieno.

Il caos è totale, la folla esplode, accorrono truppe tedesche di rinforzo, alcune militanti partigiane e comuniste presenti inveiscono e minacciano i militari tedeschi, una di loro viene arrestata, mentre le altre improvvisano una protesta pacifica, pregando e ricoprendo il corpo dell’uccisa con mazzi di fiori sempre più numerosi; i gappisti devono rinunciare all’azione pianificata, ma un piccolo gruppo di loro uccide alcuni soldati prima di darsi alla fuga.

Il figlio di Teresa, che si era allontanato per recuperare i documenti attestanti che il padre “non era uno sfaccendato” giacché aveva un regolare posto di lavoro, ritorna in via Giulio Cesare ignaro dell’accaduto:

Arrivo, scendo dal tram, e vedo tutta questa gente zitta, silenziosa, sembrava una cosa surreale. Io mi dicevo: ma cosa è successo. Allora inizio a guardarmi intorno per cercare mia madre. Mi avvicino verso il marciapiede e vedo che ci stava una montagna di mimosa e vicino un vecchietto seduto su uno sgabello. Io fra me mi sono detto: ma che è scemo questo, co’ ‘sto macello che ce sta questo venne la mimosa. Mi avvicino e vedo che sotto la mimosa ci stava una macchia di sangue. Allora inizio a girare tra la gente e sento che dicevano: povera donna, disgraziati, che fine le hanno fatto fare. Capirai, a me mi ha preso un colpo, perché non vedevo mia madre.

La protesta è tale che i nazisti sono costretti a liberare il vedovo Girolamo Gullace. Nel pomeriggio, viene stilato un manifestino sull’accaduto, che viene ampiamente diffuso. Nei giorni e nelle settimane seguenti (segnati, fra l’altro, dalla strage delle Fosse Ardeatine), la tragica storia diviene una delle icone della Resistenza.

Alla vicenda si ispira liberamente la celebre scena dell’uccisione del personaggio di Anna Magnani in “Roma città aperta”: la corsa disperata di Sora Pina dietro al camion su cui è prigioniero il marito, uno sparo, il silenzio, e lei che cade a terra inerme, senza vita. Una scena straziante e piena di pathos che Ascanio Celestini ha commentato così:

Lei muore prima di toccare terra, mentre sta volando, leggera ed elegante, spinta da una forza quasi inarrestabile, ad afferrare in volo la mano del suo uomo per trarlo via, unico e solo, da quella massa di derelitti.

Sofferenza, distruzione, rinascita e voglia di riscatto. Dell’enorme impressione che, nella Roma occupata, suscitò l’uccisione di Teresa, il film riporta solo echi molto affievoliti, perché altri erano gli intenti del regista Rossellini e alla pellicola era attribuita una funzione catartica, legata alla redenzione di un popolo dal quale far scaturire una nuova classe dirigente, in vista della ricostruzione.

Più minuti e intimi sono i sentimenti di una donna come Teresa, che si sarebbe forse accontentata di proteggere la sua famiglia. Muore sola, sconosciuta immigrata calabrese, accanto non ha nessuno, non ci sono i figli, non c’è un prete a impartirle l’estrema unzione, le sono vicine centinaia di donne che come lei invocano solo un gesto di umana pietà. Quella muta protesta, quelle preghiere cantilenate, quei mazzi di fiori che aumentano a vista d’occhio, quel corpo riverso sul selciato diventano un simbolo che la trascende.

Insignita della Medaglia d’oro al merito civile, alla sua memoria sono state dedicate narrazioni, celebrazioni, targhe, scuole, stampe filateliche. Ma è ancora il figlio, ormai ottuagenario, a ricordare gli aspetti meno nobili di quel lutto, divenuto pubblico suo malgrado:

Abbiamo fatto il funerale con il camion del Comune, in fretta, perché non volevano che si sapesse. È stata sepolta al Verano. La targa che ricorda la morte di mia madre era sul marciapiede opposto rispetto a dove è ora, è stata spostata. Dove stava prima i fascisti di Prati le davano fuoco, la imbrattavano continuamente, così la donna che aveva la finestra vicino alla targa aveva paura, quindi l’hanno spostata e messa sul muro della caserma, dove si trova adesso.

 

Silvia Boverini

Fonti:
www.it.wikipedia.org; A. Orlando, “Parte da Cittanova Roma città aperta”, www.larivieraonline.com; M. Sestili, “Le braccia verso il marito e le arrivò addosso la morte”, http://anpi.it

Rolling Thunder si scatena sul Vietnam

Il 4 agosto scorso ricordammo l’incidente del Golfo del Tonchino come la goccia che fece traboccare il vaso. Con quello scontro si aprirono le ostilità tra gli Stati Uniti e i Viet cong, anche se non dal punto di vista formale: non ci fu infatti alcuna dichiarazione di guerra. Era il 1964.

Gli obiettivi (non raggiunti) di Rolling Thunder

7 mesi più tardi, Lyndon Johnson, succeduto a John Kennedy alla presidenza, autorizzò una delle più violente operazioni aeree mai concepite: Rolling Thunder. Centinaia di migliaia di tonnellate di bombe sganciate sulle teste dei nord vietnamiti, Viet cong e non.

In questo caso, la goccia fu rappresentata da un attacco a una base aerea americana situata nel Vietnam del Sud, a Pleiku. Le ragioni a fondamento dell’operazione, però, furono diverse: limitare gli aiuti che Hanoi inviava agli insorti; ledere la volontà di combattere del nemico, rinvigorendo così le proprie truppe; evitare la caduta del precario governo del Sud.

Le conseguenze: 4,6 milioni di tonnellate di bombe, due milioni di Vietnamiti uccisi, la distruzione della maggior parte delle città e dei villaggi.

L’attacco, durato oltre tre anni, non sortì gli effetti sperati, principalmente a causa di un errore di valutazione: il tipo di guerra condotta dai Vietcong era sensibilmente diverso da quanto ipotizzato dagli Americani. Non avendo bisogno di rifornimenti ingenti, non necessitavano nemmeno di infrastrutture particolari. La guerriglia faceva uso di tutt’altre modalità. Inoltre, il mancato coordinamento tra le aviazioni di Aeronautica, Marina e Marines, e le truppe di terra causò un’ulteriore dispersione dei risultati.

Di più, probabilmente grazie agli aiuti di Cina e Unione Sovietica, gli asiatici riuscirono a dotarsi di efficaci sistemi contraerea. Il numero di velivoli americani abbattuti raggiunse, grazie a ciò, quasi il migliaio. Nixon, però, dopo aver preso il posto di Johnson, decise di ricominciare i bombardamenti. Si stima che, in totale, furono sganciate circa 4,6 milioni di tonnellate di bombe. Persero la vita due milioni di Vietnamiti e venne distrutta la maggior parte delle città e dei villaggi.

Alessio Gaggero

In Slovenia gli italiani “non ammazzavano troppo poco”

Il 1° marzo del 1942, a meno di un anno dall’invasione nazifascista della Slovenia, il generale Mario Roatta firmò la Circolare C. In applicazione di quelle disposizioni l’esercito italiano portò al parossismo le crudeltà che già avevano macchiato il trattamento riservato al popolo della Slovenia dalle autorità civili e militari italiane. Infatti, dall’estate 1942 fino all’autunno dello stesso anno, quasi 70.000 soldati italiani setacciarono un terreno di 3.000 chilometri quadrati a sud di Lubiana, radendo al suolo centinaia di paesi, massacrando gli ostaggi e imprigionando nei cosiddetti «campi del Duce» circa 30.000 persone, in gran parte donne, vecchi e bambini. La prima vittima del campo di internamento di Rab (Arbe) fu proprio un bambino, Malnar Vilijem, che era nato a Žurge presso Čabar il 22 maggio 1942. Così scrisse nella cronaca del monastero francescano di Sant’ Eufemia di Rab, il frate Odoriko Badurina:

«Ieri, 5 agosto 1942, abbiamo seppellito nel locale cimitero un piccolo angelo di due mesi, Vilijem Malnar, la prima vittima tra questi internati».

Vent’anni di “l’italianizzazione forzata”

In realtà, una parte della Slovenia soffriva da più di vent’anni sotto la dominazione del Regno d’Italia. Infatti, dopo la fine della Prima Guerra Mondiale, con il Trattato di Rapallo del 21 novembre 1920, furono annessi all’Italia, alcuni territori dello sconfitto Impero austro-ungarico con relativi abitanti, inclusi circa 500.000 croati e sloveni, nei cui confronti fu subito attuata una politica di “italianizzazione forzata. Vale a dire, la negazione di non pochi loro diritti fondamentali, a partire dalla limitazione dell’uso della lingua slovena e croata, sia nelle scuole che negli uffici.

L’imposizione della “superiore civiltà italiana”

Alla fine del 1922, con l’avvento del fascismo, il governo italiano assunse una condotta ancora più dura, fondata sul principio della “superiore civiltà italiana”: il divieto dell’uso della lingua serba e croata e lo studio solo dell’italiano nelle scuole, con la chiusura di quelle locali ed il trasferimento ed il licenziamento dei docenti di madrelingua slava; l’obbligo dell’italiano negli uffici pubblici; l’epurazione nei posti di lavoro pubblici; l’italianizzazione delle città, con il trasferimento in esse di migliaia di italiani; l’italianizzazione  della toponomastica e dei cognomi.

La criminale attività delle squadre fasciste e del Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato

All’uso della forza, per imporre la “superiore civiltà italiana”, provvidero anche le squadre fasciste, devastando e bruciando le sedi delle associazioni culturali, politiche, sociali, economiche e sportive slave, che si opponevano alla “italianizzazione”. Ma soprattutto ci pensò il Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato (ne abbiamo ricordato l’istituzione e l’attività qui e qui). Quest’organo, dal 1927 al 1943, celebrò 113 processi con 544 imputati slavi, di cui 476 condannati a complessivi 4.893 anni di carcere, e con ben 33 condanne a morte (su un totale di 42).

L’invasione della Slovenia

Dopo l’invasione della Jugoslavia da parte delle forze dell’Asse nell’aprile 1941, vaste parti di territorio jugoslavo furono attribuite all’amministrazione italiana, consentendo al regime fascista di soddisfare ampiamente l’ambizione di dominare su tutte le coste adriatiche e creare un Mare Nostrum da Trieste fino alle Bocche di Cattaro [1]. Inizialmente la linea politica nei confronti della Slovenia, per usare le parole di Galeazzo Ciano, avrebbe dovuto essere «ispirata a concetti molto liberali». Ma tale ispirazione durò pochissimo. Anzi, era già poco liberale fin dal principio. Visto che, mentre a Roma i ministri pensavano che l’annessione della provincia di Lubiana doveva prevedere una larga autonomia, ma non contemplavano la concessione della cittadinanza italiana ai 330.000 abitanti, bensì la qualifica di «cittadini per annessione», militari e funzionari civili in loco tentavano una fascistizzazione accelerata della Slovenia. In effetti, molti di questi militari e funzionari avevano già mostrato tutto il loro razzismo e la loro crudeltà in Libia e in Etiopia, oltre che nella guerra civile spagnola.

La bonifica etnica nella provincia di Lubiana

La dimostrazione del fatto che nella provincia di Lubiana gli italiani abbiano tentato più che una italianizzazione forzata, un’autentica opera di pulizia etnica, non risiede soltanto nel numero impressionante di uccisi e deportati, ma anche nella Circolare 3 C del 1° marzo del ’42, che fece fare un “salto di qualità” alle crudeltà in corso.

Non “dente per dente”, ma “testa per dente”

Nella Circolare 3 C il generale Roatta dettava le linee affinché fossero spietatamente soffocati quei tentativi di rivolta che iniziavano a palesarsi in Slovenia (come del resto si

Gen. Mario Roatta

manifestavano in Dalmazia, Montenegro e Croazia) contro l’occupazione nazifascista. Per essere certo che non vi fossero dubbi sulla ferocia con cui gli italiani dovevano agire in Slovenia, Roatta ordinò

«il ripudio delle qualità negative compendiate nella frase “bono italiano”». E specificò che ciò doveva attuarsi mediante la fucilazione degli ostaggi, la deportazione dei civili, l’incendio dei villaggi. Per essere ancora più chiaro, al punto IV della Circolare, scrisse: «il trattamento da fare ai ribelli non deve essere sintetizzato nella formula “dente per dente”, ma bensì in quella “testa per dente”.»

«Si ammazza troppo poco» (gen. Mario Robotti)

Sulla stessa linea di Roatta si collocavano altri ufficiali italiani, come il maggiore Agueci, secondo il quale «gli sloveni dovrebbero essere ammazzati tutti come cani e senza alcuna pietà».

Gen. Mario Robotti

Non più tenero era il gen. Mario Robotti, dispiaciuto perché, a parer suo, «si ammazza troppo poco». In effetti, entrambi avrebbero potuto dirsi sufficientemente appagati dalle brutalità dei loro uomini. Nella sola provincia di Lubiana furono assassinate durante l’offensiva Primavera 2.500 persone, vennero fucilati 1500 ostaggi, torturati a morte 84 civili, bruciati vivi o comunque massacrati altri 103 civili, giustiziati 900 partigiani, lasciate morire di fame e malattie nei campi di concentramento 7.000 persone. Il totale fu di 12.807 vite tolte in assoluto dispregio di ogni norma di diritto bellico. Inoltre il Tribunale Militare di Guerra condannò a morte 83 sloveni, inflisse ad altri 434 l’ergastolo e ne condannò 2.695 al carcere con pene dai 3 ai 30 anni.

Il razzismo di fondo

Se quegli alti ufficiali italiani rivelavano una ferocia rara nei confronti degli sloveni, la truppa, quindi, non era da meno. Fra i soldati, il martellamento propagandistico sulla superiorità italiana e il costante incitamento all’odio e al disprezzo avevano generato e diffuso una rappresentazione delle popolazioni slave come barbare e subumane. Eloquente in tal senso è quanto scritto, in via riservata, in due rapporti, il 30 luglio e il 31 agosto del 1942, all’Alto Commissario per la Provincia di Lubiana, Emilio Grazioli, dal Commissario civile Rosin del distretto di Longatico.

«Si procede ad arresti, ad incendi ed a fucilazioni senza un perché […] Nei paesi avvengono scene veramente orrende e pietose di donne e bambini che si trascinano in ginocchio davanti ai nostri soldati, implorando a mani giunte, seppure invano, di non incendiare le case, di lasciare vivi i loro cari. […]. Le fucilazioni in massa, fatte a casaccio, e gli incendi dei paesi, fatti per il solo gusto di distruggere (e i granatieri si sono conquistati un triste primato in questo campo), hanno incusso, sì, nella gente un sacro timore, ma ci hanno anche tolto molta simpatia e molta fiducia. Tanto più che ognuno si accorge, se non è cieco, che i soldati sfogano sugli inermi la rabbia che non hanno potuto sfogare sui ribelli […]».

«Gli italiani sono diventati peggiori dei tedeschi», scrisse il Commissario civile del distretto di Longatico

Emilio Grazioli

Scrivendo a Grazioli, che Mussolini aveva nominato a capo di questa Provincia come Alto Commissario per le questioni civili (mentre il generale Mario Robotti, comandante dell XI armata, lo era per le questioni  militari), Rosin aggiungeva:

«La frase “gli italiani sono diventati peggiori del tedeschi”, che si sente mormorare dappertutto, compendia i sentimenti degli sloveni verso di noi».

Il Commissario civile di Longatico accusava, inoltre, le autorità militari italiane in Slovenia di vedere «un nemico in ogni sloveno» e di predicare «ai soldati la strage e la distruzione dei beni, ottenendo effetti disastrosi, specialmente a fini politici: mancando i ribelli, i reparti si dedicarono alla epurazione senza badare troppo per il sottile. Poiché il motto insegnato alle truppe è: “Ammazza e porta via tutto, perché dove prendi è ben preso».

Le osservazioni di questo Commissario fascista ricordano da vicino quelle di altri osservatori di altrettanto raccapriccianti manifestazioni di ferocia. Ad esempio, quelle del giornalista Ciro Poggiali sul massacro compiuto dagli italiani ad Adis Abeba, a partire dal 19 febbraio del 1937 (lo abbiamo ricordato qui su questa rubrica). Quelle del tenente colonnello Gherardo Pànatano sulle atrocità commesse dalle truppe italiane in Libia (le abbiamo riportate in chiusura di questo post). Quelle di Otto Bräutigam, il funzionario nazista, vicecapo dell’ufficio politico di Alfred Rosenberg, riguardo alla politica del terrore e dello sterminio svolta dalle armate tedesche nell’invasione dell’U.R.S.S. (abbiamo citato le sue osservazioni qui).

 Alberto Quattrocolo

[1] Con le conquiste effettuate nel primo anno di guerra le dimensioni dell’impero italiano, in effetti, erano considerevoli. Vittorio Emanuele III regnava sull’intero Corno d’Africa, la Libia, l’Egeo, l’Albania, il Kosovo, lo Struga, la provincia slovena di Lubiana, la Dalmazia, parte della provincia di Fiume. Inoltre le truppe italiane presidiavano il Montenegro, parte della Bosnia e della Croazia, la Grecia, una parte del sud della Francia, la Corsica e alcune zone dell’URSS. Dei 1.200.000 soldati italiani, che, alla fine del ’42, quando ormai era andato perso il territorio dell’Africa Orientale Italiana, si trovavano all’estero, più della metà, cioè 650.000, erano nei Balcani. Dopo l’aggressione alla Slovenia (6 aprile 1941) le forze dell’Asse decisero di dividersi il territorio occupato: il Reich tedesco optò per le regioni del nord (lo Stayer e la Carniola superiore), l’Ungheria per le regioni a ridosso del fiume Mura e l’Italia per le regioni che dalla Sava scendevano verso sud, verso la provincia di Fiume e verso la Croazia.

Fonti

Angelo Del Boca, Italiani brava gente?, Neri Pozza Editore, Vicenza, 2005

http://www.circologiustiziaeliberta.it/blog-gl/49-il-giorno-del-ricordo.htm

http://www.kozina.com/premik/porita4.htm

http://www.percorsistorici.it/component/content/article/23-numeri-rivista/numero-3/136-karlo-ruzicic-kessler-il-fronte-interno-l-occupazione-italiana-della-slovenia-1941-1943.html?layout=edit

http://dprs.uniroma1.it/sites/default/files/436.html

http://www.criminidiguerra.it/generaliSloda.shtml

https://it.wikipedia.org

 

1986: omicidio del premier svedese Olof Palme

Venerdì 28 febbraio 1986, Stoccolma: Olof Palme e la moglie Lisbet sono usciti da alcuni minuti dal cinema Grand. Il primo ministro è senza scorta. Ha ripetuto in più occasioni di sentirsi tranquillo “in un paese tollerante e democratico come la Svezia”. Sono passate da poco le 23, è una notte fredda e buia. Un uomo si rivolge d’improvviso, imprecando, al primo ministro e spara alcuni colpi di pistola. Il premier muore poco dopo. Con lui muore la stagione più fertile della socialdemocrazia europea.

L’omicidio di Olof Palme è il più grave trauma collettivo vissuto della Svezia moderna. Un paese neutrale da due secoli, con uno scenario sociale decisamente meno conflittuale in confronto alla maggioranza degli stati europei del periodo, si trova a fare i conti con l’assassinio del proprio primo ministro e leader del partito di maggioranza. A tutto ciò si aggiunge la mancanza di un colpevole: l’assassino è difatti fuggito senza essere riconosciuto. Ai funerali del 15 marzo seguente partecipano i principali leader d’Europa e delegazioni da ogni parte del mondo.

Il primo sospettato, un criminale tossicodipendente di nome Christer Pettersson, viene assolto in secondo grado per mancanza di prove. Le voci riguardo una sua confessione, sia prima che dopo la morte dell’uomo nel 2004, non sono state considerate attendibili, così come i 134 mitomani che, nel corso delle indagini, si sono dichiarati colpevoli a sproposito. L’omicidio è rimasto avvolto da un alone di mistero, l’arma del delitto non è stata ritrovata e sono state avanzate le più diverse ipotesi riguardo alle responsabilità e al movente: dall’estremismo politico di stampo neofascista con coinvolgimento di strutture segrete “stay behind” svedesi o della CIA o della P2, all’omicidio su commissione del governo sudafricano per il supporto di Palme alla causa dell’African National Congress contro l’apartheid, fino al delitto voluto dagli Stati Uniti, al terrorismo, a motivi politici ed economici, e al suo ruolo mondiale come inviato di pace delle Nazioni Unite; sono anche stati ipotizzati possibili motivi personali, o il gesto di uno squilibrato solitario.

Il colpevole ancora oggi non si conosce, ma si possono identificare alcuni dei motivi che potrebbero aver indotto l’omicidio, tracciando un breve profilo di Palme. Nato nel 1927 da una ricca famiglia aristocratica, orfano di padre, già da bambino parla svedese, tedesco, francese e russo. Ottenuta la maturità in un rinomato istituto privato, presta servizio militare e inizia gli studi in legge all’Università di Stoccolma, dove comincia il suo attivismo politico. Una serie di viaggi negli Stati Uniti, in Messico e in Asia plasma ulteriormente il suo profilo umano e politico, portandolo a elaborare riflessioni e convinzioni sulla povertà e le disuguaglianze sociali che lo accompagneranno per tutto il suo percorso. I viaggi nell’Est Europa, in particolare, lo spingeranno ad allontanarsi sempre più dal comunismo sovietico, di cui contesterà in varie occasioni i metodi repressivi.

A poco più di vent’anni Palme ha già acquisito un’importante esperienza del mondo. Le sue doti di comunicatore e la sua conoscenza delle dinamiche socioeconomiche globali lo portano a essere notato da Tage Erlander, storico leader socialdemocratico, con cui si crea un rapporto di amicizia e una duratura sintonia politica.

In Svezia la tradizione socialdemocratica, ininterrottamente al governo per oltre sessant’anni, ha costruito dagli anni Trenta una forma avanzata di welfare che tutela i singoli e offre loro eguali opportunità. Piena occupazione, assistenza sanitaria, istruzione di massa, diffuso sistema pensionistico sono i cardini di un sistema sociale imperniato sulla centralità del Partito socialdemocratico e sul suo strettissimo rapporto con il movimento sindacale.

Il compromesso socialdemocratico è stato il frutto della necessità di uscire dalla profonda recessione degli anni Trenta. La crisi del ‘29 era una crisi del modello liberista, una crisi da disuguaglianze e da deregolamentazione dei movimenti finanziari. La risposta sono state le politiche keynesiane che hanno favorito la crescita e la tendenza a una maggiore equità distributiva: la spesa pubblica, la creazione di nuova occupazione, l’aumento del potere d’acquisto dei lavoratori sono il risultato di una politica in grado di coniugare sviluppo e integrazione sociale. Il sistema svedese è stato in grado di garantire un sistema di welfare universalistico, in cui vengono forniti servizi indiscriminatamente a tutti i cittadini, non solamente assistenza ai bisognosi o servizi selettivi. Il tema del welfare è inserito in una visione complessiva della politica, della società e dell’economia.

Quando Palme viene eletto presidente del Partito Socialdemocratico e Primo Ministro, nel ‘69, il sua primo governo si caratterizza per l’accentuazione del carattere egualitario della politica fiscale. La pressione fiscale complessiva già prima incideva fino al 64% del reddito; tuttavia i redditi più alti pagano una percentuale di imposte proporzionale rispetto ai redditi più bassi, anche a fini di ridistribuzione del reddito, i livelli di corruzione sono molto bassi e la rete di welfare risulta molto efficiente. Palme sostiene il “piano Meidner”, che prevede il graduale trasferimento a fondi gestiti dai sindacati di sempre maggiori quote del capitale azionario delle grosse imprese, con partecipazione agli utili e azionariato popolare tra dipendenti su spinta dello Stato. Tuttavia non riuscirà a essere messo completamente in pratica, né la Svezia adotterà una totale economia pianificata di tipo collettivista o mista.

Ben presto, Palme è bersaglio di aggressive polemiche e campagne d’opinione a causa del suo presunto estremismo da parte della destra e del suo moderatismo da parte della nuova sinistra. Intorno alla metà degli anni Settanta, s’inceppa il meccanismo virtuoso di crescita stabile e sostenuta: la spesa pubblica elevata e gli alti contributi dei datori di lavoro privati ai fondi pensione producono inflazione; alcuni settori tradizionalmente forti dell’economia sono colpiti dalle conseguenze della crisi del petrolio. Questo porta alla vittoria dei conservatori alle elezioni del ‘76, i quali tuttavia non mettono realmente in discussione i tratti generali del sistema; nell’82, dopo la nuova vittoria socialdemocratica, Palme torna premier.

Si rende conto dei cambiamenti in atto, coglie il pericolo di una crisi di lunga durata del capitalismo, di forti correnti reazionarie scatenate dalla recessione degli anni Settanta, di un’offensiva neoliberista sul piano ideologico e pratico. Infatti, dice profeticamente Palme nel 197:

Il rischio è che il capitalismo, trovandosi sulla difensiva, diventi duro, brutale e repressivo, finendo così per diventare pericoloso.

Di fronte alla crescente aggressività del capitalismo vede la necessità di una gestione programmata dell’economia, di un progresso verso uno stadio più avanzato della democrazia, la democrazia economica, che nella sua concezione rappresenta il seguito e il complemento della democrazia sociale, che costituisce a sua volta il prolungamento della democrazia politica:

Non esiste un ‘noi e loro’, solo ‘noi’. La solidarietà è e deve essere indivisibile.

Palme è cosciente di problemi che col tempo si riveleranno ben più pressanti e propone soluzioni adeguate ad affrontare le nuove sfide poste dalle tematiche ambientalistiche: la crescita si deve concentrare nel sociale, nell’ambiente, nella formazione, nella tecnologia.

L’aspetto innovatore della leadership politica di Palme è la grande attenzione alla politica estera, intesa non solo come difesa degli interessi svedesi ma anche come lotta per i diritti e l’uguaglianza a livello globale. Il “neutralismo attivo” della Svezia di Palme fonde elementi classici della politica estera svedese con l’idea di socialismo europeo e internazionale: pur cercando di rimanere al di fuori delle dinamiche della guerra fredda, evitando l’adesione sia alla NATO che al Patto di Varsavia, Palme non manca di far sentire la propria voce in ambito internazionale, specialmente riguardo ai paesi del cosiddetto Terzo Mondo e alla necessità di un disarmo nucleare concordato.

Critica le operazioni americane in Vietnam, paragonando i bombardamenti sul Vietnam del Nord ai massacri dei nazisti, una dichiarazione che porta alla crisi diplomatica e spinge il governo USA a ritirare il suo ambasciatore in Svezia. Non meno dura è la posizione nei confronti dell’Unione Sovietica: attacca la repressione della Primavera di Praga nel ‘68 e l’invasione dell’Afghanistan nel ‘79. Condanna il regime di Pinochet in Cile, l’apartheid in Sudafrica, la dittatura di Francisco Franco in Spagna, la corsa agli armamenti nucleari e le disuguaglianze globali. Difensore dell’anti-colonialismo, finanzia l’African National Congress di Nelson Mandela e l’OLP di Yasser Arafat. È il primo leader occidentale a visitare Cuba nel ‘75. I suoi rapporti divengono critici anche con Israele dopo i massacri di Sabra e Shatila dell’82.

Interagisce con le Nazioni Unite per il rispetto internazionale dei diritti umani, e non si sarebbe esclusa una sua candidatura come segretario. Ricopre il ruolo di mediatore internazionale nella guerra fra Iraq e Iran, nel 1980. La sua caratura politica gli garantisce inoltre un importante ruolo all’interno dell’Internazionale socialista, in anni in cui la socialdemocrazia europea viveva grandi sviluppi – erano infatti gli anni di Brandt, Kreisky e del rafforzamento dei socialisti nell’Europa meridionale.

Un leader di un Paese con poco più di 8 milioni di abitanti in grado di avere un’ampia veduta del mondo, forse un utopista con una buona dose di concretezza:

Io sono un socialdemocratico svedese, un socialista democratico europeo. Noi ci pensiamo come un movimento di liberazione. […] Come socialdemocratici non abbiamo la pretesa di disegnare la società perfetta del futuro. Forse perchè non abbiamo sufficiente immaginazione e profetico talento. Quello per cui lavorano i socialdemocratici è semplicemente una società che dia a ognuno l’opportunità di realizzare i propri progetti di vita.

 

Silvia Boverini

Fonti:
www.it.wikipedia.org; S. Morosi, P. Rastelli, “28 febbraio 1986, l’omicidio irrisolto del primo ministro svedese Olof Palme”, http://pochestorie.corriere.it; G. Clarizia, “32 anni fa cadde nel mistero Olof Palme, lo svedese che lottò per il mondo intero”, https://fondazionenenni.blog; L. Fubini, “L’esperienza socialdemocratica di Olof Palme”, www.socialismoitaliano1892.it; R. Ottaviani, “Olof Palme: vita e politica di un socialista”, www.pandorarivista.it; A. Garzia, “Chi era Olof Palme”, https://ilmanifesto.it

La democrazia in fumo

Il 27 febbraio del 1933 quel che restava della democrazia tedesca andò in fumo. Quella sera, infatti, le fiamme divamparono nel palazzo del Parlamento tedesco, il Reichstag, il simbolo della democrazia tedesca. Nel giro di pochi anni il potere distruttivo di quel fuoco, dalle rovine fumanti del parlamento tedesco, si propagò in tutta l’Europa. E spazzò via tutto, quel fuoco nazista, milioni di vite umane incluse.

Fino a quel 27 febbraio, formalmente, la Germania era ancora una democrazia

Il 30 gennaio del 1933, appena 28 giorni prima, Adolf Hitler era stato nominato cancelliere del Reich, cioè primo ministro, dal presidente della Repubblica tedesca, l’anziano Paul von Beneckendorf und von Hindenburg (lo abbiamo ricordato qui). Hindenburg si era risolto a questo passo, appoggiato dall’esercito e dai conservatori, anche se Hitler non poteva contare sull’appoggio della maggioranza degli eletti. Il Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori (National Sozialistische Deutsche Arbeiterpartei, NSDAP), alle ultime elezioni, quelle del 6 novembre del ’32, aveva ottenuto il 31,1%, corrispondenti a 196 seggi [1]. Una vasta maggioranza dei tedeschi, quindi, aveva votato contro Hitler, se non proprio in difesa della democrazia [2]. Le divisioni interne alle forze antinaziste, che non si erano compattate in un fronte unico contro il loro più mortale nemico, avevano portato, comunque, alla morte della democrazia e alla loro autodistruzione [3].

La doppia trappola di Hitler

Quello al cui vertice era stato posto Adolf Hitler, però, non doveva essere un governo presidenziale (come lo erano stati altri in precedenza, si veda ancora il post Hitler non fece né un colpo Stato, né una rivoluzione, pubblicato il 30 gennaio su questa rubrica, Corsi e ricorsi, dell’Associazione Me.Dia.Re.). Nel rispetto delle forme della democrazia rappresentativa,  il nuovo governo doveva poter contare sulla maggioranza del Reichstag. E ciò poneva qualche difficoltà al disegno hitleriano di una completa e capillare nazificazione della Germania (assai ispirato in ciò dal precedente esempio mussoliniano). Infatti, il Partito Nazionalsocialista di Hitler e quello nazionalista di Hugenberg, gli unici due rappresentati nel governo, avevano soltanto 247 dei 583 seggi del parlamento. Non disponevano, quindi, della maggioranza.

30 gennaio 1933: la prima riunione del governo di Hitler

Alle cinque del pomeriggio del 30 gennaio, appena cinque ore dopo aver giurato come cancelliere, Hitler riunì i suoi ministri per affrontare tale questione. Per ottenere l’appoggio della maggioranza del Reichstag, gli occorrevano i voti del partito di Centro, che disponeva di 70 deputati [4]. Oppure, si dovevano far fuori i 100 seggi dei comunisti, sopprimendo il loro partito [5]. Hitler decise di “lavorare” con metodo su entrambi i fronti, quello del Centro e quello del partito Comunista.

L’indizione di nuove elezioni

Sul primo fronte, la mossa di Hitler consistette in un semplicissimo imbroglio. Egli stesso si incaricò di far fallire i colloqui con il capo del partito di Centro, monsignor Kaas, chiedendogli a quali condizioni avrebbe accettato di sostenere il governo. La condizione posta da monsignor Kaas fu la promessa da parte di Hitler di governare rispettando la costituzione. Ma Hitler riferì agli altri membri del governo che Kaas aveva fatto delle richieste impossibili e che non vi erano margini per un accordo.  Propose, pertanto, che il presidente della Repubblica sciogliesse il Reichstag e indicesse nuove elezioni [6]. Hindenburg accolse la richiesta. Le nuove elezioni furono fissate per il 5 marzo di quell’anno. Joseph Goebbels esultò. Il 3 febbraio scrisse sul suo diario:

«Ora sarà facile condurre la nostra battaglia, perché possiamo aiutarci con tutte le forze dello Stato. La radio e la stampa sono a nostra disposizione. Insceneremo un capolavoro di propaganda. E naturalmente questa volta il denaro non mancherà».

La propaganda anticomunista e la politica nazista del terrore

Per quanto riguarda il secondo fronte, il 31 gennaio del ’33, cioè neanche 24 ore dopo che il suo capo era stato nominato cancelliere, Goebbels aveva scritto:

«In una conferenza con il Fuhrer abbiamo fissato le linee per la lotta contro “il terrore rosso”. Per il omento ci asterremo da immediate contromisure. Occorre prima che il tentativo rivoluzionario bolscevico divampi. Al momento giusto colpiremo».

Per perseguire il duplice obiettivo di impedire ai comunisti di essere democraticamente eletti e per spingere quel partito, o almeno i suoi militanti, a delle reazioni violente, il governo di Hitler vietò, infatti, all’inizio di febbraio, ogni comizio comunista e, soppressa tutta la stampa comunista, scatenò la violenza. Anzi scatenò la violenza anche contro i socialdemocratici, i liberali e i cattolici. Con ciò imitando la strategia seguita da Mussolini dieci anni prima (si veda la riguardo quanto ricordato quiqui e qui[7].

La persecuzione di tutte le forze democratiche

Infatti, non soltanto furono vietati o dispersi dalle camicie brune i raduni dei socialdemocratici, ma fu anche sospesa dal governo la pubblicazione dei principali giornali socialisti. D’altra parte, neppure il partito cattolico di Centro fu risparmiato dalla violenza nazista [8]. Complessivamente furono ammazzai nella campagna elettorale 51 antinazisti.

L’invenzione nazista della rivoluzione bolscevica

Nonostante l’opera capillare del terrore nazista, la «rivoluzione bolscevica» non divampava. Hitler, Goebbels e Göring, non riuscendo a provocarla, decisero di inventarla. Il loro primo passo consistette nell’ordinare l’irruzione della polizia di Göring nel Karl-Liebknecht-Haus, il quartier generale comunista a Berlino. Il centro era stato abbandonato dai dirigenti comunisti qualche settimana prima, in realtà [9]. Nello scantinato, però, erano stati lasciati mucchi di opuscoli di propaganda. Göring se ne servì per comunicare ufficialmente che erano stati rinvenuti documenti contenenti le prove di un’imminente tentativo rivoluzionario. La notizia, tuttavia, suscitò un diffuso scetticismo, perfino tra i conservatori e addirittura tra i nazionalisti del governo. Ai nazisti occorreva qualcosa di più sensazionale. Qualcosa di simile a ciò che avevano rappresentato gli attentati a Mussolini da parte di Tito Zaniboni, il 5 novembre del 1925 e, soprattutto, di Anteo Zamboni, il 31 ottobre del 1926, che fu decisivo per ottenere l’approvazione delle “leggi fascistissime”(le quali, tra le altre cose, stabilivano lo scioglimento di tutti i partiti e delle organizzazioni antifascisti, la soppressione dei giornali antifascisti, la pena di morte per i “traditori” e il carcere per chi ricostituiva o aderiva alle organizzazioni disciolte, l’istituzione del confino di polizia, dell’O.V.R.A. e del Tribunale Speciale per la difesa dello Stato e la retroattività delle norme penali).

27 febbraio 1933, l’incendio del Reichstag

William L. Shirer, all’epoca corrispondente di una grande agenzia di stampa statunitense in Germania, nel suo monumentale Storia del Terzo Reich, descrisse cosa accadde quella sera del 27 febbraio.

«Dal palazzo del Presidente del Reichstag, che allora era Göring, un passaggio sotterraneo, costruito per le condutture del riscaldamento centrale, portava all’edificio del Reichstag. Attraverso questa galleria, Karl Ernst, ex inserviente d’albergo divenuto capo delle SA di Berlino, la notte del 27 febbraio aveva guidato un piccolo reparto di uomini dei reparti d’assalto nel Reichstag, dove essi sparsero benzina e sostanze chimiche autocomburenti, tornando poi rapidamente nel palazzo da cui erano venuti. Nello stesso tempo, un comunista olandese semideficiente che aveva una mania per gli incendi, Marinus Van der Lubbe, era penetrato nel gigantesco edificio, da lui non conosciuto e immerso nell’oscurità; per conto suo aveva appiccato qua e là qualche fuoco. Per i nazisti, questo piromane semideficiente sembrò inviato dal cielo. Era stato fermato dalle SA un paio di giorni prima, essendo stato sorpreso mentre si vantava in un bar di aver tentato di dar fuoco a diversi edifici pubblici e diceva che prossimamente avrebbe tentato di incendiare il Reichstag» [W. L. Shirer, 1962, p. 212-213] [10].

28 febbraio 1933: il Decreto dell’incendio del Reichstag

L’incendio del Reichstag era stato proprio concepito come elemento di svolta di quella “strategia della tensione” su cui si erano specializzati i nazisti (e prima di loro i fascisti italiani): creare il massimo disordine, spaventando e disorientando l’opinione pubblica, in modo tale da potersi proporre come paladini dell’ordine e della sicurezza [11]. In primo luogo, Hitler riuscì in quest’operazione nei confronti del presidente Hindenburg, facendogli firmare a poche ore dall’incendio, già il 28 febbraio, un decreto «per la protezione del popolo e dello Stato». Con esso venivano soppressi i sette articoli della Costituzione che garantivano le libertà individuali e civili. Lo schema seguito da Mussolini alcuni prima per instaurare “legalmente” il regime fascista in Italia, trovava in Germania una nuova efficacissima applicazione.

La soppressione di ogni residuo di democrazia

Presentato come «una misura difensiva contro gli atti di violenza commessi dai comunisti a danno dello Stato», il decreto stabiliva:

«restrizioni della libertà personale, del diritto di libera espressione delle opinioni, compresa la libertà della stampa, del diritto di riunione e di associazione; violazioni del segreto nelle comunicazioni postali, telegrafiche e telefoniche private; perquisizioni, confische e restrizioni della proprietà anche al di là dei limiti legali vigenti». Inoltre, il decreto autorizzava il governo ad assumere i pieni poteri negli Stati federali, in caso di necessità, e ad imporre la pena di morte per un certo numero di crimini, tra cui il grave turbamento della pace.

Il terrore nazista legalizzato

Con l’incendio del Reichstag e con quel decreto, Hitler riuscì a far arrestare legalmente migliaia di suoi oppositori e a seminare il panico tra milioni di tedeschi delle classi medie e contadine, convincendoli che, se non avessero votato per lui alle elezioni di marzo, i comunisti avrebbero scatenato la sovversione.

Quattromila funzionari del partito Comunista e moltissimi dirigenti liberali e socialdemocratici furono arrestati. Inclusi i deputati del Reichstag, che avrebbero dovuto essere tutelati dall’immunità. Le truppe d’assalto irrompevano nelle case e portavano le persone nelle caserme delle SA dove venivano picchiate e torturate.

Una campagna elettorale del tutto al di fuori della democrazia

Non soltanto la stampa e i comizi dei comunisti furono proibiti, ma anche quelli dei socialdemocratici, dei democratici e dei liberali. Gli unici a poter svolgere la campagna elettorale furono i nazisti e i loro alleati nazionalisti. I quali del resto potevano contare sul controllo totale della radio di Stato, che trasmetteva i discorsi di Hitler, Goebbels e Göring. Inoltre, grazie ai finanziamenti dei magnati dell’industria, a partire da quelle delle armi e dell’acciaio, e della finanza, poterono contare su risorse illimitate per svolgere una propaganda spettacolare, quale non si era mai vista prima. Ma non ancora soddisfatti i vertici nazisti insistettero nella criminalizzazione mediatica dei loro avversari. Göring, infatti, il 28 febbraio, mentre la democrazia, rappresentata dal palazzo del Parlamento, si dissolveva in volute di fumo e cenere, pubblicò una lunga relazione in cui affermava che sarebbero stati presto pubblicati i documenti dei piani comunisti per la realizzazione di attentati tesi a dare il via ad una guerra civile. La promessa pubblicazione «dei documenti comprovanti la cospirazione comunista» non fu mai mantenuta.

Le ultime elezioni del 5 marzo 1933

Il 3 marzo a Francoforte Göring gridò:

«Certo, miei cari comunisti, sfrutterò al massimo i poteri dello Stato e della polizia; non fatevi illusioni. Però, la lotta a morte, in cui la mia mano vi afferrerà per il collo, la condurrò con questi uomini che vedete, le camicie brune» [12].

A dispetto dell’incendio del Reichstag e del successivo decreto, che sopprimeva diritti e libertà proprie di una democrazia, a dispetto del terrorismo, delle intimidazioni, degli assassinii, degli arresti e delle torture e a dispetto della gigantesca macchina propagandistica e dei brogli, i nazisti non trionfarono. Ottennero, infatti, il 44 % (17.277.180 voti), cioè 12 punti in più rispetto alle elezioni precedenti (quando avevano conseguito 5 milioni di voti in meno), ma non la maggioranza assoluta. Mentre il partito di Centro aumentò i suoi consensi di 200.000 voti (4.424.900 voti) e i socialdemocratici restarono stabili (7.181.629 elettori). Perfino i comunisti, pur perdendo 1 milione di voti, contavano ancora assai più di quanto avessero previsto Hitler (4.848.058 voti). I suoi alleati nazionalisti erano cresciuti di appena 200.000 voti, giungendo al’8% (3.136.760 voti). Però, con i loro 52 deputati portavano ai 288 eletti del partito nazista un numero di seggi sufficiente ad avere la maggioranza, con 16 seggi di scarto sull’opposizione. Il che bastava ad Hitler per governare con feroce brutalità, ma non era abbastanza per realizzare il suo obiettivo: istituire la dittatura con il consenso del parlamento.

Alberto Quattrocolo

[1] Perdendo un buon 6% rispetto a quelle del luglio ’32, allorché, con il 37% dei suffragi, aveva raggiunto il suo massimo successo elettorale.

[2] Non tutti coloro che a novembre del ’32 votarono partiti diversi da quello nazista si potevano definire convinti sostenitori della democrazia in Germania, considerando che l’8% aveva votato per il partito Nazionalista, il quale, sebbene più moderato di quello di Hitler, non era proprio un fervido credente nel sistema democratico. Come, del resto, non lo erano i comunisti, che erano passati da 90 a 100 seggi in parlamento.

[3] Cioè alla fatale decisione del presidente Hindenburg di incaricare Hitler di governare la Germania.

[4] Ciò ripugnava sia Hitler che Hugenberg, che proprio non sopportavano la mentalità democratica dei centristi.

[5] Questa seconda opzione, prospettata da Hugenberg, non convinse Hitler, che la ritenne prematura.

[6] Hugenberg e Papen, che tutto volevano tranne che andare a nuove elezioni, visto che il loro partito aveva il maggior numero dei ministeri, contro i soli tre in mano ai nazionalsocialisti, furono così presi in trappola. Acconsentirono alla proposta di richiedere al presidente della Repubblica di sciogliere il parlamento solo a condizioni che Hitler promettesse che, quale che fosse stato l’esito delle nuove elezioni, la composizione del governo sarebbe rimasta invariata. Hitler, mentendo, li rassicurò.

[7] Cioè anche contro le principali e tradizionali forze anticomuniste, le quali erano tali in quanto fedeli alla democrazia, e che pertanto non potevano che essere anche antinaziste.

[8] L’ex cancelliere Heinrich Brüning, durante un comizio, dopo che le SA avevano aggredito un certo numero di manifestanti cattolici, dovette chiedere la protezione della polizia, mentre Stegerwald, capo dei sindacati cattolici, fu pestato dalle camicie brune, mentre stava per fare un discorso durante un comizio. Inoltre il ministro degli Interni della Prussia (uno stato che controllava i due terzi della Germania), il nazista Herman Göring, ordinò alla polizia prussiana, da un lato, di evitare ogni attrito con le forze paramilitari naziste (le SA, le SS e lo Stahlhelm), dall’altro, di fare uso delle armi da fuoco, cioè di sparare, su tutti coloro che si opponevano al governo.

[9] Un buon numero di dirigenti del partito Comunista Tedesco si era già nascosto. E alcuni erano fuggiti in Unione Sovietica.

[10] Durante i processi che si tennero a Norimberga, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, la responsabilità dei nazisti nell’episodio dell’incendio del Reichstag venne definitivamente appurata. Hans Gisevius, funzionario del Ministero prussiano degli interni nel ’33, spiegò che l’ideazione dell’incendio era stata di Göring e di Goebbels. Rudolf Diels, ex capo della Gestapo, riferì in una dichiarazione giurata che lo stesso Göring aveva già qualche giorno prima dell’incendio approntato una lista di persone da arrestare subito dopo di esso. Il generale Franz Halder, infine, riferì che lo stesso Göring, durante un pranzo ufficiale, si era pubblicamente vantato di avere personalmente organizzato anche i particolari dell’incendio.

[11] Sotto tortura, il comunista olandese Marinus Van der Lubbe confessò ulteriori dettagli e fu portato in giudizio unitamente ai leader del Partito Comunista all’opposizione. Al processo che si tenne a Lipsia, otto mesi dopo, Van der Lubbe fu riconosciuto colpevole e condannato a morte. La pena capitale nell’ordimento giuridico tedesco fu introdotta, però, dopo l’incendio del Reichstag e dopo l’arresto del suo presunto autore. Cioè con il decreto «per la protezione del popolo e dello Stato» del 28 febbraio del ‘33. Marinus Van der Lubbe  fu decapitato il 10 gennaio 1934, tre giorni prima del suo venticinquesimo compleanno. È assai verosimile che Van der Lubbe, fosse in qualche modo coinvolto nell’incendio del Reichstag, ma è impossibile che abbia agito da solo. L’estensione del danno e la velocità con cui il fuoco invase l’edificio, unitamente ad altre prove, dimostrarono infatti che il fuoco, in quel luogo di democrazia era stato acceso in più punti e con sostanze infiammabili di cui Van der Lubbe non disponeva. Nel processo, però, fu assolta la dirigenza del partito comunista. Il principale imputato, l’agente del Comintern, Georgi Dimitrov, aveva sostenuto, nonostante le intimidazioni, che i comunisti erano estranei all’incendio e che i veri colpevoli erano Hitler, Goering e Goebbels. Hitler, infuriato, decretò che, da quel momento in poi, il tradimento, assieme ad altri reati, sarebbe stato giudicato solamente dal neocostituito Volksgerichtshof (la “Corte del popolo“), che emetterà un numero enorme di condanne a morte. L’autodifesa di Dimitrov fu tradotta e diffusa in tutto il mondo, mentre in vari paesi delle inchieste indipendenti dimostravano che l’incendio del Reichstag era stata una montatura dei nazisti, volta a mettere fuori legge il partito comunista e perseguitarne i militanti.

[12] Quello stesso giorno l’ex cancelliere del partito di Centro, Brüning, dichiarò che il suo partito si sarebbe opposto a ogni rovesciamento della costituzione e che avrebbe preteso un’inchiesta sull’incendio del Reichstag. E si appellò a Hindenburg «per la protezione degli oppressi dai loro oppressori». Il vecchio presidente non disse una parola.

Fonti

Georgij Dimitrov, Il processo di Lipsia, Editori Riuniti, Roma, 1972

Nico Jassies, Berlino brucia. Marinus Van der Lubbe e l’incendio del Reichstag, Zero in condotta, Milano, 2007.

W. L. Shirer, Storia del Terzo Reich, Giulio Einaudi Editore, Torino, 1962

Attacco al World Trade Center, una luce nel buio

12.20, 26 febbraio del 1993, Lower Manhattan, New York. L’ombelico del commercio mondiale viene scosso per la prima volta da un attentato terroristico. Un’autobomba esplode in uno dei parcheggi sotterranei, centinaia di metri più in basso di dove si schianteranno gli aerei otto anni dopo.

Sempre qualche centinaio di metri, questa volta in orizzontale, divide l’esplosione da una stazione della metropolitana: sei persone persero la vita in quel tragico evento, ma i feriti superarono il migliaio, soprattutto a causa dei fumi sprigionati dalla detonazione e dall’incendio conseguente. Furono evacuati anche i piani alti delle Torri, per cui si fece uso persino degli elicotteri. Molto più in basso, invece, le onde d’urto causarono il crollo di un muro e del soffitto di una stazione ferroviaria che sorgeva lì vicino.

In effetti, se fosse andato come pianificato, l’attentato avrebbe procurato un numero enormemente più elevato di vittime: l’idea iniziale era di provocare il crollo della Torre nord sulla Torre sud, causando un devastante effetto domino. A tale progetto parteciparono diversi fondamentalisti islamici, tra cui Omar Abdel Rahman. Lo sceicco cieco egiziano, considerato il leader spirituale della Jamaa Islamiya (Assemblea Islamica), è morto in carcere un paio d’anni fa mentre scontava l’ergastolo per questo e altri attentati.

Ramzi Yousef, pakistano nato in Kuwait, fu invece definito mastermind, vale a dire la mente dietro l’attacco, l’autore del piano. Sta attualmente scontando centinaia di anni di carcere nel penitenziario di Florence, Colorado, anche lui per diversi reati a sfondo terroristico. E’ degno di nota anche in quanto nipote di Khalid Sheikh Mohammed, accusato di aver ideato l’attentato dell’undici settembre.

Tra i vari attentatori ha guadagnato notorietà anche El-Sayyid Nosair, ma per motivi diversi dai precedenti. Uno dei suoi figli, infatti, cambiò nome in Zak Ebrahim, rifiutandosi categoricamente di seguire le orme paterne. Dopo aver passato anni a nascondere la propria identità, costui decise di usare la propria storia per contrastare il terrorismo e l’intolleranza in mezzo alle quali era cresciuto:

Zak Ebrahim non è il mio vero nome. L’ho cambiato quando la mia famiglia ha deciso di tagliare i ponti con mio padre e cominciare una nuova vita. Perché, allora, dovrei uscire allo scoperto e mettermi potenzialmente in pericolo? Be’, è semplice. Lo faccio nella speranza che forse qualcuno, un giorno, costretto a usare la violenza, possa sentire la mia storia e rendersi conto che c’è un modo migliore.

Lo faccio per le vittime del terrorismo e per i loro cari, per il terribile dolore e le perdite che il terrorismo ha imposto loro. Per le vittime del terrorismo, parlerò apertamente contro questi atti insensati e condannerò le azioni di mio padre. Con quel semplice fatto, sono qui a prova del fatto che la violenza non è intrinseca alla religione o alla razza, e il figlio non è tenuto a seguire le orme del padre. Io non sono mio padre.

Zak è diventato un attivista per la pace e uno scrittore. Il titolo del suo libro parla chiaro:

Il figlio del terrorista: storia di una scelta“.

Alessio Gaggero