Il Sudafrica decide di chiudere la pagina dell’apartheid

Siete a favore del prosieguo del processo di riforma avviato dal capo dello Stato il 2 febbraio 1990, finalizzato all’elaborazione, attraverso il dialogo, di una nuova Costituzione?

Questo è il testo che, il 17 marzo 1992, si trovarono di fronte i 3 milioni e 280 mila Sudafricani con diritto di voto. Il numero così esiguo fu dovuto alla limitazione all’accesso al voto: solo gli “appartenenti alla razza bianca” potevano recarsi alle urne per decidere il futuro del paese.

In effetti, bisognava capire se la minoranza bianca che governava il Paese fosse disposta a sostenere le trattative della Codesa (Convention for a Democratic South Africa) tra il governo bianco e l’Anc (African National Congress, il partito di Nelson Mandela). Nonostante l’evidente paradosso (far scegliere ai bianchi se mettere fuori legge il razzismo nei confronti dei neri), lo stesso Anc ne riconobbe l’importanza. Probabilmente, fu l’unica strada percorribile.

Così, due anni dopo la liberazione di Madiba, il paese era posto di fronte a un bivio di importanza basilare. La spaccatura ci fu, ma non a sufficienza da impedire quel movimento di riforma iniziato due anni prima: più di due terzi dei bianchi sudafricani tracciò un segno sul SI’, permettendo a De Klerk, l’allora presidente, di vincere la sua scommessa. E quella di milioni di altre persone, finalmente libere.

Oggi abbiamo scritto il punto di svolta fondamentale della nostra storia.  […] La chiusura della pagina dell’apartheid.
(De Klerk)

Alessio Gaggero

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Il referendum più importante nella storia d’Italia

Il 16 marzo del 1946 veniva indetto il referendum più importante nella storia dell’Italia. Il decreto legislativo luogotenenziale del 16 marzo del ’46, n. 98 stabiliva che gli elettori, mediante referendum, avrebbero scelto se la forma dello Stato sarebbe stata quella della repubblica o se sarebbe rimasta una monarchia. Ma quali elettori avrebbero avuto il diritto di votare? Per la prima volta in Italia avrebbero votato anche le donne in una consultazione nazionale. Come si arrivò a queste svolte decisive per il nostro Paese?

Il ritorno del sistema liberale dopo vent’anni di fascismo.

Dopo la sfiducia a Mussolini, votata dal Gran Consiglio del Fascismo, il 25 luglio 1943, il Regno d’Italia intraprese, in mezzo ai disastri della Seconda Guerra Mondiale, un tortuoso e tormentato percorsi di ripristino delle istituzioni liberali del periodo pre-fascista. Già nell’agosto del 1943 il Regio decreto-legge n. 705 sciolse la Camera dei Fasci e delle Corporazioni e stabilì che entro quattro mesi dalla fine del conflitto bellico si sarebbero svolte le elezioni per la nuova Camera dei Deputati. Gli eventi bellici e politici, però, ebbero sviluppi tali da non consentire la realizzazione di queste disposizioni e da rendere necessaria una revisione complessiva del sistema istituzionale.

Lo stallo politico successivo all’8 settembre

Dopo l’armistizio dell’8 settembre l’Italia era diventata un campo di battaglia. Mentre le truppe tedesche occupavano il centro-nord, il re e il governo lasciavano Roma per trasferirsi al sud, controllato dalle forze alleate, i partiti antifascisti, costituitisi in Comitato di Liberazione Nazionale e intenzionati ad essere la guida dell’Italia democratica, rifiutavano di collaborare con il maresciallo d’Italia Pietro Badoglio, capo del Governo, e con il sovrano, Vittorio Emanuele III, ritenendoli entrambi troppo compromessi col regime fascista. A sbloccare lo stallo, provvide il lavoro delle diplomazie e l’intervento di Palmiro Togliatti, segretario del PCI. L’iniziativa di Togliatti, su impulso dell’Unione Sovietica, mirava, attraverso un compromesso tra i partiti antifascisti, da una parte, e Vittorio Emanuele III e Badoglio, dall’altra, alla formazione di un governo di unità nazionale. Un governo, cioè, costituito da rappresentanti di tutte le forze politiche presenti nel Comitato di Liberazione Nazionale.

La svolta di Salerno

In base a tale compromesso, la soluzione della questione istituzionale venne posposta. Il liberale Enrico De Nicola, presidente della Camera dei Deputati dal 1920 al 1924, propose, infatti, non soltanto il trasferimento di tutte le funzioni di Capo dello Stato da Vittorio Emanuele III ad Umberto di Savoia, il principe ereditario, quale Luogotenente del Regno, ma anche l’indizione di una consultazione elettorale per la formazione di un’Assemblea Costituente e per la scelta della forma dello Stato. Consultazione da svolgersi solo al termine della guerra. Con il patto di Salerno sorgeva, quindi, il primo governo politico post-fascista (il governo Badoglio II). Tale governo, cui partecipavano i sei partiti del Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), PCI compreso, si formò a Salerno, il 22 aprile 1944 [1].

La “Costituzione provvisoria

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Il “patto di Salerno”, che segnò, dunque, un cambio di rotta decisivo rispetto sia alla liberazione dal nazifascismo sia alla nascita della democrazia dalle ceneri della dittatura, fu l’esito di una complessa trattativa. Se, da un lato, fu accettato che venisse eliminata dalla scena la scomoda e ormai disprezzata figura del re, Vittorio Emanuele III, dall’altra si accettò che venisse salvato momentaneamente l’istituto monarchico. In tal modo si ponevano le basi politiche di quella che fu definita la “Costituzione provvisoria“. Un periodo di passaggio verso la fase costituente vera e propria. Le basi giuridiche di tale ordinamento provvisorio furono introdotte con il decreto legislativo luogotenenziale 25 giugno 1944, n. 151. Questo documento fondamentale della “Costituzione provvisoria” stabiliva che, alla fine della guerra, mediante suffragio universale diretto e segreto, si sarebbe eletta un’Assemblea Costituente, per scegliere la nuova forma di Stato e per preparare la nuova Carta Costituzionale. Contestualmente il Presidente del Consiglio Ivanoe Bonomi nominò i Presidenti della Camera dei Deputati e del Senato nelle persone di Vittorio Emanuele Orlando e Pietro Tomasi della Torretta, per sottolineare una ideale continuità tra l’antica Camera dei Deputati e l’Assemblea che sarebbe stata liberamente eletta sulla base della nuova Carta Costituzionale.

La Consulta Nazionale

In assenza di un’assemblea elettiva, che rappresentasse la Nazione nei confronti del Governo e che assumesse il potere legislativo, che, in quel momento era ancora nelle mani dell’Esecutivo, man mano che si avvicinava la definitiva liberazione dalle truppe nazifasciste, si cercò di costituire un organismo con il compito di interloquire con il Governo. Anche se non elettivo, tale organo valeva a temperare, pur in tempo di guerra, la centralità del potere esecutivo. Il decreto legislativo luogotenenziale 5 aprile 1945, n. 146, istituì, quindi, la Consulta Nazionale, deputata ad affiancare il Governo con i propri pareri su questioni normative di particolare rilevanza. Si trattava di un apparato consultivo teso ad ovviare alla mancanza di quegli organi parlamentari, ai quali si intendeva dare vita alla fine della guerra, con la riorganizzazione complessiva dello Stato. La Consulta Nazionale, tra le altre cose, predispose il testo della legge elettorale per la nomina dei membri dell’Assemblea Costituente.

Il riconoscimento del diritto di voto e dell’eleggibilità delle donne e il referendum tra monarchia e repubblica

Prima di quel provvedimento, un altro atto legislativo aveva esteso il diritto di voto alle donne.

Il suffragio universale e l’eleggibilità delle donne

Il 31 gennaio del 1945, mentre il territorio italiano era ancora diviso tra un Nord sottoposto all’occupazione tedesca e un Centro-Sud ormai liberato dalle forze armate anglo-americane, il Consiglio dei ministri, presieduto da Ivanoe Bonomi, emanò un decreto che riconosceva il diritto di voto alle donne. Era il decreto legislativo luogotenenziale n. 23 del 2 febbraio 1945. Venne così riconosciuto il suffragio universale, dopo i tentativi falliti del 1881 e del 1907, compiuti dalle donne dei vari partiti. Grazie a quel decreto potevano votare le donne con più di 21 anni ad eccezione delle prostitute che esercitavano «il meretricio fuori dei locali autorizzati». Il decreto, però, aveva trascurato un piccolo particolare: l’eleggibilità delle donne. Questa venne stabilita con un decreto successivo, il numero 74 del 10 marzo del 1946. La prima occasione di voto per le donne furono le elezioni amministrative del 1946. Votò l’89 per cento delle aventi diritto e 2 mila candidate furono elette nei consigli comunali (la maggioranza nelle liste di sinistra).

Il decreto legislativo luogotenenziale 16 marzo 1946, n. 98

Il decreto legislativo luogotenenziale del 16 marzo 1946, n. 98, successivo di quasi un anno alla Liberazione del Paese (25 aprile del ’45), modificò ed integrò il decreto n. 151 del 25 giugno 1944. Fu il decreto del 16 marzo ‘46, infatti, ad affidare ad un referendum popolare la decisione sulla forma istituzionale dello Stato. Inoltre essa stabilì che, qualora la maggioranza degli elettori votanti si fosse pronunciata a favore della Repubblica, l’Assemblea Costituente, come primo atto, avrebbe eletto il Capo Provvisorio dello Stato. Il 16 marzo 1946 il principe Umberto, quindi, aveva firmato un decreto in virtù del quale, come previsto dall’accordo del 1944, la forma istituzionale dello Stato sarebbe stata decisa mediante referendum da indirsi contemporaneamente alle elezioni per l’Assemblea Costituente. Com’è noto i voti favorevoli alla repubblica saranno numericamente superiori alla somma complessiva non soltanto di quelle favorevoli alla monarchia, ma anche di quelle bianche e nulle [2].

Le posizioni dei partiti

Come i tradizionali partiti di orientamento repubblicano (PCI, PSIUP, PRI e Partito d’Azione), anche la Democrazia Cristiana, nel suo primo Congresso, decise di schierarsi a favore della Repubblica. Il solo partito del CLN favorevole alla monarchia fu il Partito Liberale, mentre il neocostituito Fronte dell’Uomo Qualunque prese una posizione agnostica.

L’ultima mossa della corona: l’abdicazione di Vittorio Emanuele III in favore del figlio Umberto

Un mese prima del referendum Vittorio Emanuele III abdicò in favore del luogotenente del Regno, suo figlio Umberto. La speranza era che la successione del principe ereditario, meno compromesso del padre con la sciagurata catastrofe del fascismo, potesse far pendere l’esito del referendum a favore della monarchia. I partiti favorevoli alla Repubblica, dal canto loro, protestarono, poiché l’assunzione dei poteri regali, da parte del luogotenente del Regno, contrastava con l’art. 2 del decreto legislativo luogotenenziale del 16 marzo ’46. Quell’articolo, infatti, prevedeva che: «Qualora la maggioranza degli elettori votanti si pronunci in favore della Monarchia, continuerà l’attuale regime luogotenenziale fino all’entrata in vigore delle deliberazioni dell’Assemblea sulla nuova Costituzione e sul Capo dello Stato». Partito subito l’ex re per l’esilio volontario ad Alessandria d’Egitto (vi morì due anni dopo), Umberto II confermò la promessa di rispettare il volere liberamente espresso nel referendum dai cittadini circa la scelta della forma istituzionale. Però, non lo accetterà mai.

 

Alberto Quattrocolo

[1] Salerno rimase la sede del governo fino al giorno della liberazione di Roma (il 4 giugno ’44).

[2] La partecipazione delle donne al Referendum e all’elezione dei componenti dell’Assemblea Costituente fu elevatissima. Per quanto riguarda le donne elette alla Costituente, esse furono 21 (su 226 candidate), pari al 3,7%: 9 della Democrazia cristiana, 9 del Partito comunista, 2 del Partito socialista e una dell’Uomo qualunque. Cinque deputate entrarono poi a far parte della “Commissione dei 75”. La commissione era incaricata dall’Assemblea di scrivere la nuova proposta di Costituzione. Fu la socialista Merlin a battersi perché venisse specificata la parità di genere nel testo dell’articolo 3 comma 1° della futura Costituzione: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.»

 

1939, invasione tedesca della Cecoslovacchia

La mattina del 15 marzo 1939, le truppe tedesche entrarono nei territori cecoslovacchi di Boemia e Moravia, senza incontrare resistenza; il giorno seguente, dal Castello di Praga Hitler proclamò l’istituzione di un protettorato tedesco sulle due regioni.

Così, tra tensioni interne, aggressioni straniere e disinteresse di comodo delle maggiori potenze europee, la Cecoslovacchia indipendente che era stata idealizzata dai suoi padri fondatori come unico baluardo della democrazia, circondata da regimi fascisti e autoritari, finì di essere annientata. Era stata condannata dai suoi detrattori come insostenibile creazione artificiale degli intellettuali: in effetti, la Cecoslovacchia interbellica comprendeva terre e popoli ben lontani dall’essere integrati in un moderno stato-nazione; inoltre, la componente dominante dei cechi, che avevano sofferto la discriminazione durante la dominazione asburgica, non fu in grado di relazionarsi con le istanze delle altre nazionalità, anche se è da riconoscere che alcune delle richieste delle minoranze servirono come mero pretesto per giustificare l’intervento della Germania nazista. Ciononostante, la Cecoslovacchia era stata in grado di mantenere un’economia fiorente, con un PIL superiore anche a quello italiano degli anni Trenta, e un sistema politico democratico.

Il pretesto per la spartizione del territorio cecoslovacco furono le supposte privazioni sofferte dalla popolazione tedesca residente nelle regioni di confine nel nord e nell’ovest, i cosiddetti “tedeschi dei Sudeti” (più di tre milioni di persone). La Cecoslovacchia, formatasi dopo la dissoluzione dell’Impero austro-ungarico con il Trattato di Saint-Germain-en-Laye (1919), era uno stato multietnico costruito intorno a una regione abitata prevalentemente da Cechi e da Slovacchi; altre minoranze di lingua ungherese, polacca, rutena e tedesca si trovavano sparse lungo i confini e nessuna di esse gradiva l’atteggiamento egemone dell’elemento ceco, nemmeno gli slovacchi, i più vicini ai cechi per lingua e cultura: questo rendeva fragile lo stato.

In particolare, i tedeschi dei Sudeti, che rappresentando il secondo gruppo etnico più popoloso ambivano allo status di nazione riconosciuta, diedero luogo a un crescente attrito con la maggioranza ceca. Nell’ottobre ‘33 a Konrad Henlein fu richiesto di dirigere un nuovo movimento che assorbisse gli altri partiti tedeschi, il Fronte Patriottico dei Sudeti, che si portò progressivamente su posizioni sempre più filo-hitleriane, fino a diventare uno strumento del Drang nach Osten, ovvero della politica nazionalsocialista di espansione verso est, ottenendo quasi subito un vasto consenso elettorale. Nel ‘38 Henlein fu incaricato da Hitler di avanzare pretese inaccettabili in nome dei tedeschi dei Sudeti, con lo scopo di aumentare la tensione interna e destabilizzare la fragile democrazia cecoslovacca, affinché i Sudeti potessero “ritornare nel Reich”.

Dopo l’ingrandimento del Terzo Reich con l’Anschluss,  l’annessione dell’Austria del marzo 1938, il territorio cecoslovacco era venuto a trovarsi in una nuova posizione strategica, come la punta di una freccia che penetrava fin quasi al centro della grande Germania, e, in un’ottica bellica, veniva considerato come una potenziale portaerei straniera al servizio degli stati nemici dei tedeschi, come Francia e Regno Unito, legati diplomaticamente e militarmente allo stato slavo: di qui l’urgenza, da parte di Hitler, di occupare questo stato prima di altri, nell’ambito della sua politica di espansione territoriale verso i territori slavi, condotta cercando di evitare il più a lungo possibile uno scontro armato con le potenze nemiche.

Di fatto, anche Francia e Regno Unito apparivano restie a confliggere apertamente, e lo stesso Anschluss non suscitò significative prese di posizione. Il governo inglese era disponibile ad accettare una revisione dei confini tedeschi fissati nel 1919, a patto che ciò non alterasse eccessivamente l’equilibrio politico europeo nel suo complesso: il primo ministro Neville Chamberlain sosteneva la politica dell’appeasement, disponibilità alla pace a qualunque costo. Essa nasceva dalla consapevolezza che, se fosse scoppiata una nuova guerra, l’Inghilterra ne sarebbe uscita stremata e, anche in caso di vittoria, con ogni probabilità avrebbe perso l’impero. Chamberlain credette che le richieste dei tedeschi dei Sudeti fossero giuste e che le intenzioni di Hitler fossero limitate, e il governo francese non volle affrontare la Germania da solo.

Sia Gran Bretagna che Francia consigliarono alla Cecoslovacchia di accondiscendere alle richieste dei sudeti, ma il presidente Beneš resistette. Dopo tentativi di mediazione falliti, mobilitazioni di truppe sul confine, ultimatum, capitolazioni e tumulti popolari, il 28 settembre Chamberlain chiese a Mussolini di intervenire presso Hitler per convincerlo a partecipare a una conferenza che avrebbe affrontato il problema. Si incontrarono il giorno successivo a Monaco di Baviera, con i capi di governo di Francia e Regno Unito; il governo cecoslovacco non fu invitato né consultato. Il 29 settembre fu siglato l’Accordo di Monaco da Germania, Italia, Francia e Regno Unito. Il governo cecoslovacco capitolò il 30 settembre, e acconsentì ad adeguarsi all’accordo, che prevedeva che la Cecoslovacchia dovesse cedere il territorio dei Sudeti alla Germania.

A Monaco si trattò di un incontro tra grandi potenze, ognuna delle quali seguiva un proprio programma consono ai propri obiettivi generali: l’interesse della Cecoslovacchia come stato non risultò mai in primo piano. I rappresentanti delle potenze occidentali si sforzarono di trovare un modus vivendi con la Germania, senza rendersi conto del fatto che dalla sicurezza della Cecoslovacchia dipendeva la loro stessa sicurezza. Il governo cecoslovacco fu così condannato ad  accettare il Diktat; l’opinione pubblica mondiale, in quel periodo, era lungi dal preoccuparsi per un piccolo paese dell’Europa centrale.

La politica delle grandi potenze occidentali non fu catastrofica soltanto per la Cecoslovacchia, ma spianò la strada all’espansionismo hitleriano su tutto il continente. Nel discorso pronunciato al suo ritorno da Monaco, Chamberlain proclamò:

Credo che sia la pace per il nostro tempo”.

Pessimisticamente lungimirante, Winston Churchill non fu dello stesso avviso:

Dovevate scegliere tra la guerra ed il disonore. Avete scelto il disonore e avrete la guerra.”.

 

Come stabilito, Hitler annesse i territori dei Sudeti nell’ottobre del 1938. Quasi in contemporanea la Polonia costrinse la Cecoslovacchia a cedere alcune aree mentre l’Ungheria occupò in novembre alcuni territori slovacchi e, nel marzo ‘39, la Rutenia subcarpatica. Nel novembre ‘38, Emil Hácha fu eletto Presidente della Seconda Repubblica, rinominata Ceco-Slovacchia e consistente di tre parti: Boemia e Moravia, Slovacchia e Ucraina carpatica. A causa della mancanza di frontiere naturali e avendo perso tutto il costoso sistema di fortificazioni di confine, il nuovo stato era militarmente indifendibile.

Hitler, che puntava alla guerra con la Polonia, necessitava di eliminare prima la Cecoslovacchia; pianificò l’invasione di Boemia e Moravia, negoziando con slovacchi e ungheresi per preparare lo smembramento della repubblica. In base a tali accordi, il 14 marzo ’39 la Slovacchia si dichiarò indipendente, con la protezione tedesca. L’Ucraina carpatica dichiarò anch’essa l’indipendenza, ma le truppe ungheresi la occuparono il 15 marzo; il 23 marzo occuparono invece la Slovacchia orientale. Hitler convocò il Presidente Hácha a Berlino e lo informò sull’imminente invasione tedesca; minacciando un attacco della Luftwaffe su Praga, lo persuase a ordinare la capitolazione dell’esercito cecoslovacco.

Le truppe tedesche entrarono a Praga, annettendo il resto della Boemia e della Moravia, trasformate in un protettorato tedesco; a est fu creato un regime-fantoccio in Slovacchia: quasi tutta la Cecoslovacchia si trovava sotto il controllo di Hitler. Anche se nessuna reazione immediata venne da Francia o Regno Unito, di lì a poco sarebbe scoppiata la seconda guerra mondiale. Chamberlain cambiò atteggiamento e condannò finalmente il “tradimento” di Hitler. Litvinov, ministro degli esteri sovietico, a nome del suo governo, propose a Gran Bretagna, Francia, Turchia, Polonia e Romania di costituire una coalizione per fermare altre aggressioni tedesche: erano evidenti le mire naziste, ma gli inglesi giudicarono prematura l’iniziativa e la Polonia non accettò di entrare in una coalizione alla quale partecipasse l’URSS.

Con la Cecoslovacchia veniva cancellato dalla carta geografica uno dei pochi stati democratici rimasti in Europa, nonché l’unico in Europa centro-orientale. La conferenza di Monaco aveva posto le basi per la fine di una millenaria convivenza, in Boemia e Moravia, tra popolazioni ceche e tedesche: dopo il secondo conflitto mondiale, queste ultime saranno espulse dal paese.

Silvia Boverini

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Fonti:
www.italia-resistenza.it; F. Vighi, “Quel maledetto 1939”, www.patriaindipendente.it; S. Romano, “Francia nel 1939 e Italia nel 1943: un confronto”, www.corriere.it; “L’occupazione dell’Austria e della Boemia”, www.assemblea.emr.it; www.it.wikipedia.org

I sei di Birmingham sono rilasciati dopo 16 anni di detenzione

Birmingham, Inghilterra, 21 novembre 1974, ore 20.25: una bomba esplode nel Mulberry Bush Pub. Passano due minuti e un’altra bomba esplode nel Tavern in the Town, un altro locale della città. Il terzo ordigno, posizionato fuori da una banca, non detonerà mai. Per fortuna, poiché i primi due furono sufficienti a segnare l’attacco terroristico più sanguinoso d’Inghilterra, almeno fino al 2005: Londra subì perdite molto più ingenti.

La città delle West Midlands, comunque, registrò 21 morti e 182 feriti. Nell’intero paese si scatenò un’ondata emotiva che non lasciò scampo a nessuno. Nemmeno alle forze dell’ordine. Il giugno dell’anno successivo, infatti, furono condannati quelli che passarono alla storia come i sei di Birmingham: sei persone innocenti.

Già a poche ore dall’attentato, quattro di questi avevano firmato le proprie confessioni, poco più tardi smentite da loro stessi, ma non solo: l’IRA (l’Esercito repubblicano irlandese, che si batte per la fine della presenza britannica in Irlanda del Nord e la riunificazione con la Repubblica d’Irlanda) non li ha mai riconosciuti come propri militanti. Proprio queste quattro confessioni saranno, anni dopo, utilizzate per corroborare la tesi della non colpevolezza dei sei uomini, in quanto, in esse, mancava ogni riferimento alla preparazione e all’attuazione degli attentati.

Intanto, però, nel giugno del 1975, furono scoccate sei condanne all’ergastolo: per sedici anni Patrick Hill, Gerard Hunter, Richard McIlkenny, William Power, John Walker e Hugh Callaghan si svegliarono in una cella che non avevano fatto nulla per meritarsi.

Solo nel 1990, infatti, il rinvio del caso in Corte d’Appello ebbe un seguito concreto. Una svolta decisiva alla vicenda venne dai risultati di un’inchiesta condotta dalla polizia di Cornovaglia e Devon sui verbali di un interrogatorio: quattro pagine dello stesso, stilato dal commissario George Reade, responsabile delle indagini sugli attentati, erano state aggiunte in seguito.

In sede dibattimentale cadde anche la prova decisiva: l’esame fatto per stabilire se gli imputati avessero maneggiato la nitroglicerina non risultò attendibile. Bastarono, dunque, appena dieci giorni di processo a revocare tutte le pene e condanne comminate: scarcerazione immediata ordinò il giudice. Era il 14 marzo 1991.

Quello di condannare un innocente è forse il rischio più grave che corrono i magistrati nello svolgere il proprio lavoro. Eppure, a volte si concretizza, come accadde anche nel caso, risolto un paio di anni prima, dei quattro di Guildford.

Alessio Gaggero

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Cracovia: il ghetto viene liquidato dalle SS nel 1943

L’occupazione nazista della città avvenne il sei settembre 1939. All’epoca, Cracovia aveva circa 250.000 abitanti, di cui 70.000 di origine ebraica. Nell’arco dei quattro anni successivi, la quasi totalità sarà uccisa o deportata.

Da secoli in Polonia lavoravano come commercianti e come artigiani: dopo il loro sterminio non si riusciva più a trovare chi sapesse tagliare un vestito, far un paio di scarpe, costruire uno strumento musicale o cucire una pelliccia. Gli ebrei di Cracovia stavano qualche gradino sopra, molti di loro erano avvocati o medici. Cracovia è sempre stata una città influenzata dalla cultura progressista, da un ceto intellettuale: qui si stampava il più importante quotidiano in lingua polacca del paese.
(Alberto Nirenstein)

Dunque, dopo l’arrivo dei nazisti più di 40.000 ebrei cercarono riparo nelle campagne e nei paesi limitrofi: nonostante il passaggio dall’amministrazione militare a quella civile, il pericolo era ancora incombente. Il neo governatore, Hans Frank, aveva infatti il preciso scopo di ripulire il paese da quella che riteneva essere un’infezione.

Il ghetto fu approntato il 3 marzo 1941 nel quartiere di Podgorze, a sud della città, dove, entro la fine dell’anno, furono rinchiuse 18.000 persone. Una peculiarità macabra riguarda proprio i muri del ghetto: venne loro data una forma che ricordasse le lapidi dei cimiteri ebraici.

Dopo pochi mesi di relativa tranquillità, iniziarono le attività di sterminio. Il 19 marzo 1942 i tedeschi iniziarono la Intelligenz Aktion, cioè l’arresto e l’assassinio di tutte le persone considerate come punti di riferimento per la comunità: circa 50 persone furono deportate ad Auschwitz.

Eliminati i leader, il 5 maggio successivo iniziarono le azioni di epurazione vere e proprie. Circa 6000 furono spediti a Belzec, campo di sterminio nel sud della Polonia. Durante le operazioni, guidate dalle SS e coadiuvate da poliziotti ebrei, furono commessi i peggiori massacri, per semplice brutalità: persero la vita più di 300 persone.

Seguirono lunghi mesi di attesa, che si conclusero il 27 ottobre 1942 con la seconda aktion. 7000 deportati tra Auschwitz e Belzec, a fronte di 600 morti durante il rastrellamento. La bestialità sanguinaria non era più contenibile: vennero uccisi i malati dell’ospedale, gli anziani della casa di riposo e i bambini dell’orfanotrofio.

I rimanenti furono divisi in due gruppi: abili e inabili al lavoro. I primi vennero internati nel tremendo campo di lavoro di Plaszow, che fece da sfondo alla celebre vicenda di Oskar Schindler, raccontata dal film di Steven Spielberg. L’industriale tedesco riuscì, utilizzando una sua fabbrica come copertura, a salvare migliaia di vite. Purtroppo, molte di più furono spezzate dalle deportazioni alla volta di Auschwitz-Birkenau e dalle violenze della “liquidazione”, che ne lasciò sul posto alcune migliaia, considerati lavorativamente inutili. Era il 13 marzo 1943.

Alessio Gaggero

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1977, irruzione della polizia nella sede di Radio Alice

Ancora un appello di radio Alice, radio Alice ha la polizia alle porte e tutti i compagni del Collettivo giuridico di difesa, per favore, si precipitino qui in via Pratello.

……

Mauro: Risponde nessuno ?

Valerio: Non risponde nessuno.

Mauro: Attenzione, tutti i compagni del Collettivo Giuridico di difesa telefonino alla radio e si precipitino immediatamente qui.

(squilla il telefono)

Mauro al telefono: Pronto sì.

Polizia: Aprite! (rumore di colpi).

Mauro al telefono: ascolta (ancora rumori di colpi più forti) c’è la polizia qui, stiamo aspettando gli avvocati…

Attenzione, qui ancora Radio Alice, stiamo aspettando che arrivino gli avvocati per poter fare entrare la polizia. C’è la polizia che sta tentando di sfondare la porta in questo momento (rumore di colpi)… Non so se sentite i colpi per radio (rumori di fondo confusi)… abbassa il coso…

Valerio al telefono: Sì, c’è la polizia alla porta che tenta di sfondare, hanno le pistole puntate e io mi rifiuto di aprire, gli ho detto finché non calano le pistole e non mi fanno vedere il mandato. E poi siccome non calano le pistole gli ho detto che non apriamo finché non arriva il nostro avvocato. Puoi venire d’urgenza, per favore, ti prego d’urgenza, ti prego… c’hanno le pistole e i corpetti antiproiettile e tutte ‘ste palle qua… via del Pratello 41.. ok! ti aspettiamo… ciao.

Sono circa le 23 del 12 marzo 1977 a Bologna; dal giorno prima, il centro cittadino è sconvolto da pesantissimi scontri di piazza tra studenti della sinistra extraparlamentare e le forze dell’ordine, seguiti alla contestazione di un’assemblea di Comunione e Liberazione, durante i quali Francesco Lorusso, studente e militante di Lotta continua, rimane ucciso da un colpo d’arma da fuoco (probabilmente sparato da un carabiniere, ma l’inchiesta sarà archiviata). L’allora ministro dell’Interno, Francesco Cossiga, dispone l’invio di mezzi blindati nelle strade del centro, suscitando una profonda impressione nell’opinione pubblica, che percepisce e descrive i cingolati come “carri armati nel cuore della capitale dell’Emilia rossa”.

Al momento la città è calma, le forze dell’ordine si sono ritirate dalla zona universitaria e sembra che si stia andando verso una riduzione del livello dello scontro. Radio Alice, espressione del movimento studentesco cittadino, ha seguito per intero i due giorni di guerriglia urbana; in sede ci sono una ventina di persone, si discute degli scontri e della situazione di piazza, sia in onda, sia fra i presenti. Violenti colpi alla porta segnalano l’arrivo della polizia (preannunciato telefonicamente mezz’ora prima, secondo il responsabile dell’operazione Ciro Lomastro): qualcuno fugge dai tetti, cinque persone vengono arrestate, malmenate e incarcerate con l’accusa di aver guidato gli scontri attraverso i microfoni dell’emittente; dopo mesi di custodia cautelare e sette anni di attesa, il processo si concluderà con l’assoluzione.

Radio Alice invece muore quella sera, sulla battuta surreale e dadaista che, alla fine della drammatica diretta dell’irruzione, con la polizia che stava sfondando la porta in assetto da guerra, esce di bocca all’umore nero di Valerio, che stava al piatto del giradischi:

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Ecco qui Beethoven, se va bene bene, sennò, seghe.

Umberto Eco ci farà una lezione alla Sorbona.

Radio Alice era nata nel febbraio del ‘76, al suono di “White Rabbit” dei Jefferson Airplane, dopo molti mesi di fantasiosa gestazione. C’erano almeno due anime all’origine di quella radio, una eticamente intransigente e controinformativa e un’altra poetico-libertaria. I protagonisti raccontano che si tenevano conciliaboli e la notte si facevano prove di trasmissione; poi si salì sui tetti e nelle mansarde e si lanciarono i primi segnali verso il mondo in ascolto.

Di mattina si udivano mantra e lezioni di yoga e la voce di un cantautore pugliese che suggeriva: “Lavorare con lentezza / senza fare alcuno sforzo / ritmo pausa pausa ritmo / pausa pausa pausa pausa pausa pausa…”. All’ora di pranzo si leggevano racconti di Ambrose Bierce, terrificanti e orridi. La sera si riuniva negli studi celesti della radio una piccola folla di suonatori, qualcuno leggeva Majakovski. E squillava il telefono, e le voci seguivano alle voci. Nacque l’idea di rilanciare il grido “abbasso l’arte abbasso la vita quotidiana abbasso la separazione fra l’arte e la vita quotidiana”, che Tristan Tzara aveva lanciato sessant’anni prima. Si faceva tanta controinformazione, con l’idea che

quando il potere dice la verità e pretende che sia naturale, noi dobbiamo denunciare quel che vi è di disumano e di assurdo in questo ordine della realtà che l’ordine del discorso riproduce e riflette, e consolida. Svelare il carattere delirante del potere.

Radio Alice nasce dal collettivo “Cooperativa di Studi e Ricerche sul Linguaggio Radiofonico”: conduttori improvvisati, ma non impreparati. L’attrezzatura radiofonica messa a disposizione da un negozio amico, un trasmettitore recuperato da un vecchio deposito di materiali militari, una soffitta di due locali in via del Pratello, due sentenze della Corte Costituzionale che avevano da poco reso l’etere libero. Ma, soprattutto, un’intuizione, semplice e geniale: collegare il filo del telefono all’antenna della radio. “In termini mediologici: connettere un medium individuale a un medium broadcast, esattamente quello che ora facciamo ogni minuto con i cellulari connessi a Internet”. In Italia solo una trasmissione Rai usava il telefono allora, “Chiamate Roma 3131”, ma era tutto registrato e filtrato.

Le telefonate in diretta cambiano tutto: “Quindici giorni dopo non eravamo più padroni della radio. Nessuno lo era”. Si iniziava al mattino senza sapere cosa sarebbe andato in onda entro sera. Unico appuntamento fisso, le favole per mandare a letto i bambini. Per il resto, microfono a disposizione di chi aveva qualcosa da dire, le due stanzette invase, ci incontravi gli Skiantos, Pazienza, Bifo, Scozzari, Claudio Lolli, Bonvi, i “frocialisti”, le femministe, il collettivo “Rasente i muri” dei compagni mollati dalle compagne diventate femministe, Stockhausen e i Gaznevada, Majakowski e il Dams, quello che chiamava per commentare la politica internazionale e quello che voleva sapere “dov’è Giovanna”; e ancora, la radiocronaca “in diretta” del ritorno di Lenin a Mosca e della presa del Palazzo d’Inverno, la telefonata che, invece della voce di un ascoltatore, trasmette uno struggente assolo di sax, le trasmissioni sulle proprietà dell’acqua o sulla musica modale, le incomprensibili storie raccontate da un gruppo di studenti della Val Camonica, in strettissimo dialetto Camuno, in cui la sola frase intelligibile in italiano era il tormentone “… perché noi camunisti…”. Nei giorni degli scontri del marzo ’77 le cabine telefoniche erano i terminali di una diretta sugli scontri, che la radio ritrasmetteva.

La gente girava per la città con la radiolina accesa, “ascoltando anche momenti di trasmissione orrendi, pur di non rischiare di perdersi quelli meravigliosi ed imprevedibili, che ogni tanto premiavano la costanza”.

In oltre quarant’anni, i tredici mesi di Radio Alice hanno prodotto articoli, saggi, film e documentari, tesi di laurea; la registrazione audio della chiusura della radio manu militari è la trasmissione radiofonica più replicata in Italia. Il carattere di quell’esperienza non è stato frutto del caso, ma di un importante lavoro di analisi e progettazione, all’epoca forse non del tutto consapevole. La letteratura, la musica, il cinema, l’esperienza del viaggio e della poesia, l’ironia, il “dare voce a chi non l’ha avuta mai” ne sono stati gli strumenti, mettendo in scena sensibilità, opinioni, punti di vista. Al produrre teoria politica si è preferito il produrre comportamenti e linguaggi nuovi: alla classe operaia non si parlava di salario o capitale, ma di tempo sottratto alla vita, di un’idea del vivere non più come fatica, sacrificio, lavoro ma come esperienza di piacere e leggerezza, di scoperte che non regala la politica ma la vita. Nelle parole di uno dei fondatori, Radio Alice è stata “un’esperienza avviata senza alcuna organizzazione né specificità, ma che nel farsi sviluppò delle pratiche comunicative così interessanti da diventare patrimonio comune”.

Silvia Boverini

 

Fonti:
G. Vitali (“Ambrogio”), “Radio Alice: le vere armi sono la parola, la musica e la poesia”, http://domani.arcoiris.tv; M. Smargiassi, “Il social network prima dei social network. I quarant’anni di Radio Alice”, https://bologna.repubblica.it; www.radioalice.org; A. Rossi, “Radio Alice. Quando i new media correvano nell’etere”, www.artribune.com; V. Minnella, “Un mito di stamattina. A 40 anni dalla prima trasmissione, perché vi interessa ancora #RadioAlice?”, www.wumingfoundation.com; www.it.wikipedia.org

Madrid: le bombe prima delle elezioni

11-M. Questa è la sigla usata per riferirsi a quella mattina di diciassette anni fa, quando, a Madrid, dieci esplosioni scossero la città, la Spagna, l’Europa e il mondo intero. 191 morti, quasi duemila feriti, per uno degli attentati terroristici più sanguinosi della storia recente del nostro continente.

Tredici zaini, di cui tre inesplosi, contenevano gli ordigni letali che furono posizionati sui treni ad alta affluenza di pendolari. Come in un qualsiasi giovedì mattina, alle 7.30 le ferrovie erano piene di persone dirette al lavoro, che a tutto pensavano tranne che a quegli zaini abbandonati sui mezzi.

I soccorsi e la polizia cominciarono ad arrivare intorno alle 8 e riferirono subito di molti morti e di un numero tale di feriti da rendere necessario allestire un ospedale da campo nel vicino centro sportivo municipale di Daoiz y Velarde.

In effetti, per la Spagna quello non era proprio un giovedì qualunque: mancavano appena tre giorni alle elezioni politiche. Inoltre, proprio rispetto al terrorismo era un momento particolare: i due principali partiti, il partito popolare che allora governava con José María Aznar, e il partito socialista con a capo José Luis Zapatero, avevano stipulato un patto contro il terrorismo. Quell’accordo, voluto da Zapatero, aveva permesso un’apertura importante nella lotta contro l’Eta, l’organizzazione terroristica dei Paesi Baschi.

La pressione politica era forte: mentre Aznar puntava il dito contro i Baschi, cercando di affossare il consenso dell’avversario, Zapatero tentò di far leva sulla pista del fondamentalismo islamico, che si sarebbe ribellato alla presenza spagnola in Iraq, al fianco degli Americani. Ebbe ragione il secondo, sia alle urne che in tribunale.

Il partito socialista vinse le elezioni, ribaltando i sondaggi di pochi giorni prima. E’ opinione diffusa che fu proprio l’attentato a condizionarne l’esito, anche a causa della cattiva gestione della crisi nelle ore successive alle esplosioni. Il nuovo governo istituì una specifica commissione d’inchiesta, che condannò 21 persone al termine di un lungo processo finito a ottobre del 2007: gli attentati furono opera di un gruppo di estremisti di ispirazione jihadista non direttamente collegati ad al Qaida. Nel luglio 2008, tuttavia, il Tribunal Supremo modificò la sentenza: assolti quattro condannati, ridimensionate cinque pene e condannato un assolto.

Alessio Gaggero

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Placido Rizzotto: «I nostri nemici non sono i padroni, ma noi stessi»

Il 10 marzo del 1948 finì la vita del trentaquattrenne Placido Rizzotto. Era stato uno dei tanti sindacalisti e dei tanti militanti e politici di sinistra uccisi dalla mafia. E come gli altri, anch’egli, interpretando l’attività politica e sindacale come un servizio alla comunità, e in particolare per l’attuazione dei principi della Costituzione appena entrata in vigore, non poteva che opporsi ad una società divisa fra padroni e schiavi. Quindi, per Rizzotto l’impegno politico e sindacale era una lotta contro ogni forma di autoritarismo. Contro il fascismo – e lo combatté come partigiano nella brigata Garibaldi. E contro la mafia, che, a differenza dei repubblichini e dei nazisti, riuscì a ad ucciderlo.

Una vita difficile

Aveva 34 anni, Placido Rizzotto. E ne aveva già vissute tante di esperienze da bastare a riempire di significati e ricordi un paio di esistenze apprezzabilmente longeve. Aveva sei fratelli più giovani ed aveva perso la madre quando era ancora bambino. Il padre poi era stato arrestato con l’accusa di essere un mafioso. Così aveva dovuto abbandonare la strada per provvedere ai fratellini. Quando Mussolini scaraventò l’Italia nel macello della Seconda Guerra Mondiale al fianco della Germania hitleriana, Placido Rizzotto venne arruolato nell’esercito. Fu sbattuto in Friuli Venezia Giulia, nella Carnia. Divenuto sergente, quando, l’8 settembre del ’43, quarantaquattro giorni dopo la caduta di Mussolini, fu annunciato l’armistizio tra l’Italia e le forze angloamericane, si unì ai partigiani della brigata Garibaldi, contro la neonata Repubblica di Salò. Finita la guerra, non si congedò dalla lotta. Tornato in Sicilia, trasformò la sua battaglia in impegno culturale, sociale e politico. Tenendo sempre integrate queste tre dimensioni, divenne, infatti, dapprima Presidente dei reduci e combattenti dell’ANPI (Associazione Nazionale dei Partigiani d’Italia) di Palermo, poi si iscrisse al Partito Socialista Italiano e, infine, divenne sindacalista della CGIL (Confederazione Generale Italiana del Lavoro).

La lotta per le terre ai contadini e contro il padrone che è dentro di noi

All’epoca, il capo della cosca corleonese di Cosa nostra era Michele Navarra. Un medico, ma non un medico qualsiasi. Era il direttore dell’ospedale di Corleone. E non poteva tollerare che quel sindacalista socialista corleonese aprisse gli occhi ai contadini, sfruttati ed emarginati. Ancora meno la mafia poteva sopportare che Placido Rizzotto li aiutasse a trovare le terre incolte da occupare, in conformità al decreto Gullo, in virtù del quale era stabilito l’obbligo per i proprietari terrieri di cedere alle cooperative dei contadini le terre abbandonate o mal coltivate.

Contro Cosa Nostra e «contro il nemico che è in no

 Michele Navarra, più volte, tramite i suoi affiliati minacciò Placido Rizzotto, senza, però, riuscire a farlo desistere. Ad aumentare l’ostilità verso il segretario della CGIL di Corleone concorse, poi, il fatto che, in applicazione della suddetta normativa, vennero tolte delle proprietà a Luciano Liggio, affiliato di Navarra e già conosciuto per la sua natura efferata. Inoltre, un giorno scoppiò una rissa avvenuta fra ex partigiani e affiliati del boss corleonese. In tale scontro Liggio fu pubblicamente umiliato da Placido Rizzotto. Tuttavia non si svolgeva soltanto sul piano dello scontro aperto contro il nemico, la battaglia di Placido Rizzotto contro la criminalità mafiosa e contro il latifondo. Come altri Rizzotto sapeva che il popolo avrebbe potuto essere libero, che la vera democrazia, il progresso e la giustizia avrebbero trovato compimento, soltanto se tutti avessero riconosciuto le catene da cui erano avviluppati. Più di ogni altra cosa, forse, Placido Rizzotto e con lui tanti altri (sindacalisti, giornalisti, politici, magistrati, poliziotti, imprenditori, ecc.), ci hanno testimoniato una salutare quanto scomoda verità, cioè che, come egli sostenne:

«I nostri nemici non sono i padroni, ma noi stessi. Non si nasce schiavi o padroni, lo si diventa».

Un lungo elenco di sindacalisti ammazzati

Placido Rizzotto era ben conscio dei rischi che correva, visto che neanche un anno prima, il 1° maggio del 1947, c’era stata la strage di Portella delle Ginestre. Il due marzo del 1948 (appena 8 giorni prima che Rizzotto venisse ammazzato), in contrada «Raffo» (Petralia Soprana), sulle Madonie, il capolega della Federterra, Epifanio Li Puma, mezzadro e socialista, era stato assassinato. Placido Rizzotto, come chiunque altro in Sicilia sapeva che mettersi contro la mafia, voleva dire giocarsi la pelle. Come lo sapeva del resto Calogero Cangelosi, anch’egli socialista, segretario della Camera del lavoro, ucciso alcune settimane dopo Rizzotto, il 15 aprile. Cioè tre giorni prima delle elezioni politiche per il rinnovo dei due rami del Parlamento. Ma, se ci si limita a calcolare il numero di coloro che nel movimento contadino e operaio, dal 1911 al 1948, furono uccisi da Cosa Nostra prima di Rizzotto, si arriva a più di trenta (e non sono incluse le vittime di Portella delle Ginestre). E, di questi trenta, più di venti, tra sindacalisti, militanti e politici di sinistra (socialisti e comunisti), furono trucidati dopo la liberazione della Sicilia dalle truppe nazifasciste (in nota se ne riporta l’elenco [1]).

Placido Rizzotto e gli altri in guerra contro la schiavitù

Placido Rizzotto, reduce e partigiano, quindi era più che consapevole del fatto che quella che andava ad intraprendere era una vera e propria guerra, con tanti caduti e tantissime forme di violenza a cui fare fronte. Minacce velate, pressioni su famigliari e amici, ricatti nascosti sotto la forma di suggerimenti, lusinghe e tentativi vari di corruzione morale, delegittimazioni sul piano politico e morale… E poi la violenza esplicita, che serviva, e serve ancora, a rendere pesanti e potenzialmente efficaci le altre, subdole, forme di violenza. Così, Placido Rizzotto, che, come partigiano, nel settentrione d’Italia, in nome della vita, della libertà, della democrazia e della giustizia, aveva lottato contro chi aveva calpestato ogni senso di umanità e ogni diritto, a Corleone, combatteva un nemico non tanto dissimile. Un nemico, appoggiato da alleati potentissimi. Un nemico che non credeva nell’umanità, ma nella sua negazione, e che usava la violenza per esercitare il suo dominio più totale sulla società e sulla psiche delle persone. Un nemico la cui violenza, agiva sotterranea  nel quotidiano e che si palesava con frequenti sprazzi efferati, anche attraverso gli assalti alle Camere del lavoro, le intimidazioni e i pestaggi dei suoi dirigenti. E gli omicidi [2].

La sera del 10 marzo 1948 a Corleone

La sera del 10 marzo 1948 toccò a Placido Rizzotto. Un gruppo di persone, lo circondò in strada a Corleone, caricandolo a forza sulla 1100 di Luciano Liggio, che guidava la spedizione omicida.  Dopo averlo fatto scendere in una fattoria di Contrada Malvello, lo picchiarono a sangue e gli fracassarono il cranio. Poi buttarono il corpo all’interno di una buca in contrada Rocca Busambra nei pressi di Corleone. Nel 2005 un testimone, all’epoca ventenne, raccontò a Dino Paternostro de “La Sicilia” di aver visto il sequestro di Placido Rizzotto.

«Sì, ho visto con i miei occhi il sequestro di Placido Rizzotto, la sera di quel 10 marzo 1948, ero un ragazzo di appena vent’anni. Stavo percorrendo via Bentivegna per tornare a casa, ero arrivato all’altezza di via San Leonardo, proprio davanti alla chiesa, quando vidi alcune persone che discutevano animatamente, quasi litigando. Tra queste, riconobbi Rizzotto, lo sentii urlare “Adesso basta, lasciatemi andare!”. Ma quelli non lo lasciarono andare. Anzi, l’afferrarono a forza e lo trascinarono dentro una macchina scura col motore già acceso. Allungai il passo, spaventato, rientrai a casa e non dissi niente a nessuno, nemmeno a mio padre. Questa è la prima volta che parlo di quella sera, di quella terribile sera di marzo, in cui sparì il segretario della Camera del lavoro […] La gente penserà che sono stato un vigliacco, e forse lo sono stato davvero. Allora, però, personaggi come Luciano Liggio e i suoi “compari” tenevano nel terrore tutti i corleonesi. Ed io avevo solo vent’anni…»

Le indagini sulla scomparsa di Placido Rizzotto

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Sarà il capitano dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa ad indagare sul delitto. La sua indagine porterà all’incriminazione di Luciano Liggio, Pasquale Criscione e Vincenzo Collura. Costoro, però, alla fine del 1952, verranno assolti per insufficienza di prove.

L’iniezione letale che azzittì per sempre il giovanissimo Giuseppe Letizia

Un altro testimone oculare – oltre al ventenne che si fece avanti, poi, solo nel 2005 -, aveva assistito a quanto accaduto quel 10 marzo del ’48. E aveva visto in faccia gli assassini. Il pastorello Giuseppe Letizia badava al gregge quella sera vicino al cascinale in cui era stato portato Placido Rizzotto. Il giorno dopo, il ragazzo era talmente sconvolto, da essere in preda al delirio. Il padre decise di portarlo all’ospedale di Corleone. Sì, proprio quello in cui prestava servizio e che dirigeva il mafioso Navarra. Qui, due giorni dopo, Giuseppe Letizia morì per tossicosi. Gli era stata somministrata una dose di veleno.

Le ritrattazioni dei rei confessi

Le indagini, comunque, avevano condotto all’arresto dei due esecutori dell’omicidio, Pasquale Criscione e Vincenzo Collura. Costoro ammisero di aver rapito Placido Rizzotto insieme a Liggio, il quale aveva fatto sparire il corpo di Placido Rizzotto nella foiba. In seguito, però, Criscione e Collura ritrattarono la confessione e in sede processuale furono assolti per insufficienza di prove.

Il ritrovamento e l’identificazione dei resti di Placido Rizzotto

Il 7 settembre 2009, i resti del cadavere di Placido Rizzotto furono recuperati. Il 9 marzo del 2012, grazie alla comparazione con il campione di DNA del padre (preso dalla riesumazione del corpo per l’occasione), furono riconosciuti scientificamente come appartenenti a lui. Il 16 marzo 2012, il Consiglio dei ministri, presieduto da Mario Monti, su sua proposta decise che per Placido Rizzotto andavano celebrati i Funerali di Stato. Nella nota di Palazzo Chigi fu comunicata «l’assunzione a carico dello Stato delle spese per i funerali del sindacalista Placido Rizzotto, figura emblematica della lotta contro la mafia». La cerimonia si svolse, a Corleone, il 24 maggio 2012, alla presenza del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.

Alberto Quattrocolo

[1] Andrea Raia (05/08/1944), che a Casteldaccia (Pa) si ribellava alla mafia in nome dei diritti dei contadini. Nunzio Passafiume (07/06/1945), sindacalista che lottava per l’occupazione delle terre in mano alla mafia. Agostino D’Alessandro (11/09/1945), segretario della Camera del lavoro di Ficarazzi (Pa). Giuseppe Scalia (25/11/1945), segretario della Camera del lavoro di Cattolica Eraclea (Ag). Giuseppe Puntarello (04/12/1945), dirigente della Camera del lavoro di Ventimiglia di Sicilia (Pa). Gaetano Guarino (16/05/1946), sindaco socialista di Favara e fondatore di una cooperativa agricola. Pino Camilleri (28/06/1946), sindaco socialista di Naro e organizzatore delle lotte contadine. Girolamo Scaccia e Giovanni Castiglione (22/09/1946), entrambi contadini ad Alia, in provincia di Palermo, uccisi nel corso di un attentato alla Camera del lavoro. Giovanni Severino (25/11/1946), segretario della Camera del lavoro di Jappolo Giancaxio (Ag). Filippo Forno (29/11/1946), contadino e sindacalista di Comitini (Ag). Nicolò Azoti (23/12/1946), segretario della Camera del lavoro di Baucina (Pa). Accursio Miraglia (04/01/1947), segretario della Camera del lavoro di Sciacca (Ag). Pietro Macchiarella (17/01/1947), militante del Partito comunista, impegnato nelle lotte contadine. Nunzio Sansone (13/02/1947), militante comunista, impegnato nella lotta per la riforma agraria, a Villabate, in provincia di Palermo. Leonardo Salvia (13/02/1947), impegnato nelle lotte contadine a Partinico (Pa). Michelangelo Salvia (09/05/1947), dirigente della Camera del lavoro di Partinico (Pa). Giuseppe Casarrubea e Vincenzo Lojacono (22/06/1947) militante sindacale, uccisi nell’attacco alla sede della Camera del lavoro di Partinico, sede anche del Partito comunista italiano, sezione “Antonio Gramsci”. Giuseppe Maniaci (25/10/1947), segretario della Confederterra di Terrasini (Pa). Vito Pipitone (08/11/1947), dirigente delle cooperative dei contadini riunite nella Confederterra di Marsala (Tp). Epifanio Li Puma (02/03/1948), dirigente del movimento contadino per l’occupazione delle terre incolte. L’elenco completo è rinvenibile su https://www.rassegna.it/articoli/1911-1982-la-spoon-river-dei-dirigenti-sindacali-uccisi

[2] Ricorda Emanuele Macaluso che «le intimidazioni, quando non addirittura gli atti terroristici contro il movimento sindacale e i suoi leader erano cominciati con l’attentato del 16 settembre ’44 a Girolamo Li Causi, all’epoca segretario del Pci siciliano, avvenuto durante un comizio a Villalba. Quel giorno io mi salvai per miracolo: ero al suo fianco e ricordo per filo e per segno gli attimi che fecero seguito alla sparatoria scatenata dagli uomini di don Calogero Vizzini, dove risultarono ferite 14 persone e in occasione della quale lo stesso Li Causi fu colpito a una gamba, un fatto che lo renderà claudicante per il resto della sua vita».

Fonti

Marta Bigolin, Placido Rizzotto. L’omicidio del sindacalista di Corleone, 10 marzo 2018, su www.cosavostra.it

Ilaria Romeo, Corleone, 70 anni fa. L’uccisione di Placido Rizzotto è una ferita ancora aperta, 8 marzo 2018, su www.strisciarossa.it

Dino Paternostro, Quella sera vidi gli assassini di Rizzotto, in «La Sicilia», 6 marzo 2005

www.cosavostra.i

www.placidorizzotto.it

www.rassegna.it

Michele Reina, il primo politico ucciso dalla mafia

A Palermo sono da poco passate le 22.30 del 9 marzo 1979 quando Michele Reina, che ha appena lasciato la casa di un amico dove ha trascorso la serata, viene avvicinato da due sicari. Sta salendo in macchina, dove lo aspettano la moglie Marina e una coppia di amici. L’attesa è destinata a durare in eterno.

I due uomini si avvicinano e gli sparano tre colpi secchi da distanza ravvicinata, dandosi subito dopo alla fuga a bordo di una Fiat Ritmo rubata poche ore prima; la targa applicata sull’auto risulterà più tardi appartenere ad una Fiat 128, anch’essa rubata intorno alle 19 dello stesso giorno.

Michele Reina ha 47 anni. Da tre è segretario provinciale della Democrazia Cristiana. Dopo la sua elezione, aveva contribuito ad attuare una politica di apertura alle sinistre, tentando un accordo tra lo Scudocrociato e il Pci, suscitando, tuttavia, netta contrarietà nella maggioranza del suo partito.

Tornando a quel 9 marzo, un’ora dopo il delitto, il Giornale di Sicilia riceve una telefonata di rivendicazione a nome di Prima linea, organizzazione molto in vista durante quegli anni scanditi dal terrorismo rosso. Il giorno successivo è il quotidiano palermitano L’Ora a ricevere una chiamata dello stesso tenore, che però si “firma” Brigate rosse, chiedendo la scarcerazione di Renato Curcio. Passano altri due giorni, e il medesimo giornale viene contattato nuovamente: Prima Linea ora dichiara di non avere niente a che fare con l’omicidio, e di avere le prove del depistaggio di Cosa Nostra.

Al tempo, Boris Giuliano (di cui abbiamo ricordato l’assassinio) è a capo della squadra mobile del capoluogo e commenta così le indagini:

Noi stiamo esaminando il delitto Reina come un fatto di sangue, senza privilegiare alcuna matrice. Certo, alla luce delle telefonate arrivate al centralino di un giornale palermitano le cose si incominciano a complicare.

Gli inquirenti proseguono il loro lavoro a lungo, ma la svolta arriva solo dopo cinque anni: Tommaso Buscetta, celebre collaboratore di giustizia, si siede di fronte a Giovanni Falcone e al dirigente della Criminalpol Giovanni De Gennaro, rivelando un fiume di notizie determinanti.

Anche l’onorevole Reina è stato ucciso su mandato di Salvatore Riina.

Per Cosa Nostra, un avvicinamento della Dc ai comunisti rappresentava un pericolo enorme e fu sicuramente questo uno dei motivi che spinse il capo dei capi dare il via agli omicidi politici. Per questi, il processo si aprirà solo otto anni più tardi, per poi chiudersi, nel caso di Reina, con una lunga serie di ergastoli: Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Pippo Calò, Michele Greco, Bernardo Brusca, Francesco Madonia e Antonino Geraci.

Alessio Gaggero

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Giornata internazionale della donna

In occasione dell’8 marzo 2017, l’ONU ha espresso l’auspicio – ed esortato i suoi membri a realizzarlo – che entro il 2030 possa essere raggiunta un’effettiva parità tra i generi nel mondo intero; nel 2018, la UN-Women ha affermato che “non ci può essere uno sviluppo sostenibile senza parità di genere”. Nell’attesa, la Giornata internazionale della donna ogni anno ricorda sia le conquiste sociali, economiche e politiche, sia le discriminazioni e le violenze di cui le donne sono state e sono ancora oggetto.

La ricorrenza ha una storia lunga oltre un secolo, carica di un potente significato sociale e politico di opposizione al potere che, negli ultimi decenni, ha rischiato di disperdersi nelle forme di “una stucchevole liturgia a cadenza annuale in cui le donne vengono omaggiate con fiori e cioccolatini. O in cui si concedono serate di libera uscita.”. Si fanno gli auguri alle donne e si comprano regali, aziende e locali si mobilitano, vengono organizzate serate a tema, si entra gratis nei musei, compaiono menù speciali al ristorante, nei negozi ci sono sconti, omaggi e promozioni dedicate, online si imbastiscono gallery di donne famose, a mo’ di santini. Per molte donne è un giorno diverso dagli altri, possono fare cose che normalmente non fanno: una specie di inversione carnevalesca, in cui quello che succede può succedere solo perché è carnevale e, proprio in quanto eccezione, conferma la regola della narrazione tradizionale che sistematicamente cerca di ridurre le donne a bambole, ancelle, angeli del focolare.

Di “Giornata internazionale della donna” si iniziò a parlare al VII Congresso della II Internazionale Socialista del 1907, a cui partecipavano i più importanti marxisti dell’epoca, tra cui Lenin e Rosa Luxemburg; il Congresso votò una risoluzione nella quale si impegnavano i partiti socialisti a “lottare energicamente per l’introduzione del suffragio universale delle donne, senza allearsi con le femministe borghesi”. In risposta, la socialista americana Corinne Brown scrisse che il Congresso non avrebbe avuto “alcun diritto di dettare alle donne socialiste come e con chi lavorare per la propria liberazione”, e fu proprio negli Stati Uniti che, nel 1909, nacque il Woman’s Day, celebrato l’ultima domenica di febbraio, sull’onda di una mobilitazione collettiva che condusse, qualche mese dopo, al celebre sciopero di ventimila camiciaie a New York.

Fu però poi la Russia a fare da propulsore alla celebrazione: l’8 marzo 1917 le donne di San Pietroburgo dichiararono sciopero e organizzarono una grande manifestazione per chiedere la fine della guerra e ottenere il ritorno dei loro uomini in patria. Quella giornata ebbe un effetto esplosivo, dando vita a una serie di ulteriori manifestazioni: viene infatti considerata l’inizio della Rivoluzione russa di febbraio che portò alla caduta dello zar. Per questo motivo, e in modo da fissare un giorno comune a tutti i Paesi, nel 1921 la Seconda conferenza internazionale delle donne comuniste, tenuta a Mosca una settimana prima dell’apertura del III congresso dell’Internazionale comunista, fissò all’8 marzo la Giornata internazionale dell’operaia.

Nel corso del “Decennio delle Nazioni Unite per le donne” (1976-‘85), con la risoluzione 32/142 del 1977 l’Assemblea generale dell’ONU propose a ogni paese, nel rispetto delle tradizioni storiche e dei costumi locali, di dichiarare un giorno all’anno “Giornata delle Nazioni Unite per i diritti delle Donne e per la pace internazionale”, riconoscendo il ruolo della donna negli sforzi di pace e l’urgenza di porre fine a ogni discriminazione e aumentare gli appoggi a una piena e paritaria partecipazione delle donne alla vita civile e sociale. L’8 marzo, che già veniva festeggiato in diversi paesi, fu scelto come data ufficiale da molte nazioni, occasione per ricordare tutti quei momenti in cui le donne avevano capito come organizzarsi per inserirsi nelle dinamiche politiche, modificandole.

Se queste furono le origini della ricorrenza odierna, la connotazione fortemente politica della Giornata della donna nelle sue prime manifestazioni, le vicende della seconda guerra mondiale e infine il successivo isolamento politico della Russia e del movimento comunista nel mondo occidentale contribuirono alla perdita della memoria storica delle radici della manifestazione.

Così, nel secondo dopoguerra, cominciarono a circolare versioni alternative, citando la violenta repressione poliziesca di una manifestazione sindacale di operaie tessili a New York nel 1857, oppure scioperi e incidenti avvenuti a Chicago, a Boston o a New York. La narrazione più nota è quella secondo cui l’8 marzo avrebbe ricordato la morte di centinaia di operaie nel rogo di una inesistente fabbrica di camicie Cotton o Cottons avvenuto nel 1908 a New York, facendo probabilmente confusione con una tragedia realmente verificatasi in quella città il 25 marzo 1911, l’incendio della fabbrica Triangle, nella quale morirono 146 lavoratori (123 donne e 23 uomini).

Questa ricostruzione ha avuto molta fortuna ed è tuttora spesso riportata dai mass media, nonostante le ricerche effettuate da diverse femministe tra la fine degli anni Settanta e gli Ottanta ne abbiano dimostrato l’erroneità. Secondo alcuni, la persistenza di questa versione è dovuta al fatto che, negli anni della Guerra Fredda, avrebbe permesso all’Occidente di scollegare l’8 marzo dalle sue origini russe e comuniste; inoltre, il carattere tragico della vicenda meglio si accorderebbe con la tendenza diffusa a vedere le donne più come vittime che come protagoniste:

Quella giornata è nata per celebrare il potere e l’iniziativa femminile, non per commemorare delle morti. Eppure la narrazione delle vittime sacrificali nell’immaginario collettivo ha prevalso.

In Italia i primi tentativi di introdurre un giorno dedicato alla donna risalgono al 1922, ma è solo dal ‘46 che effettivamente si celebra regolarmente la ricorrenza. A chiederne l’introduzione fu l’UDI (Unione Donne in Italia), formata da militanti del PCI, del PSI, del Partito d’Azione e della Sinistra Cristiana. Tutta italiana è la tradizione che lega la “festa della donna” (come inizialmente fu battezzata) alla mimosa, un fiore economico, che fiorisce alla fine dell’inverno, facile da trovare nei campi; Teresa Mattei, un’ex partigiana che nell’Italia repubblicana continuò a lottare per i diritti di tutte le donne, rammentò in un’intervista che

La mimosa era il fiore che i partigiani regalavano alle staffette. Mi ricordava la lotta sulle montagne e poteva essere raccolto a mazzi e gratuitamente. […] Quando nel giorno della festa della donna vedo le ragazze con un mazzolino di mimosa penso che tutto il nostro impegno non è stato vano.

Anche in Italia quella data ha rappresentato un giorno di lotte e rivendicazioni. Lo fu negli anni ’50 della Guerra Fredda e del ministro Scelba, quando distribuire la mimosa era ritenuto un gesto che “turbava l’ordine pubblico” e i banchetti delle militanti venivano denunciati per “occupazione del suolo pubblico”. Fu così almeno fino agli anni ’70 dell’esplosione del movimento femminista: l’8 marzo ‘72 a Roma, in piazza Campo de’ Fiori, si tenne una manifestazione in cui Jane Fonda espresse il suo sostegno alle militanti che chiedevano la legalizzazione dell’aborto e la liberazione omosessuale; le forze dell’ordine caricarono e presero a manganellate le femministe, disperdendole e ferendone diverse. Quella giornata era ancora un evento dirompente, qualcosa che si metteva di traverso rispetto allo status quo.

A livello internazionale l’8 marzo sta recuperando l’originaria valenza sociale e politica, dal 19 ottobre 2006, giorno in cui partecipanti del movimento Ni Una Menos e di altre organizzazioni argentine hanno convocato lo sciopero di un’ora, in risposta all’ennesimo efferato femminicidio; l’iniziativa ha colpito l’immaginario pubblico, diffondendosi progressivamente, e l’8 marzo 2017, faceva la sua comparsa in più di cinquanta Paesi del mondo il Primo Sciopero Internazionale delle donne. La rete Non Una Di Meno ha rilanciato anche in Italia per quella data lo “sciopero globale femminista” come risposta a tutte le forme di violenza che colpiscono sistematicamente le vite delle donne in famiglia, nei posti di lavoro, per strada, negli ospedali, nelle scuole, dentro e fuori i confini.

Scriveva un secolo fa Virginia Woolf:

Se le donne smettessero di occuparsi di famiglia, lavoro domestico, cura di bambini, anziani, malati e uomini in perfetta salute, se non volessero più essere un corpo a disposizione di altri, il mondo sarebbe ancora palude e giungla.

Nel 2018 lo sciopero ha coinvolto circa settanta città italiane e più di settanta paesi nel mondo, in risposta a una violenza strutturale che nega libertà alle donne, denunciando le diverse forme di oppressione e i loro intrecci, le discriminazioni e la violenza di genere, omofobica e transfobica, lo sfruttamento del lavoro, il razzismo, la violenza del capitalismo, insostenibile per l’ecosistema:

Se le nostre vite non valgono, noi scioperiamo”.

Silvia Boverini

Locandina Master Mediatori familiari
Locandina Master Mediazione penale
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Fonti:
www.it.wikipedia.org; “Che storia ha la Giornata internazionale della donna”, www.ilpost.it; J. Bazzi, “Perché l’8 marzo non è la festa della donna”, www.thevision.com; L. Melandri, “Un insolito 8 marzo globale e femminista”, www.ilmanifesto.it; www.noidonne.org; https://nonunadimeno.wordpress.com; https://abbattoimuri.wordpress.com/