Franco conquista Madrid e tutta la Spagna

Esattamente ottantadue anni fa, la coalizione nazionalista riuscì nell’impresa che a lungo le era sfuggita: prendere la capitale della penisola iberica e assoggettare l’intero paese al proprio potere. Il percorso che portò a questo risultato ebbe inizio almeno otto anni prima.

Nel 1931, il re Alfonso XIII abbandonò la Spagna alla volta di Roma, dove visse in esilio. Nel contempo, nasceva la Seconda Repubblica Spagnola, guidata da repubblicani e socialisti. La tensione era altissima, tanto che, già a metà dell’anno successivo, ci fu un tentativo, fallito, di golpe militare.

Nei cinque anni seguenti, gli avvicendamenti al governo lasciarono la popolazione sempre più insoddisfatta, tanto che le violenze in varie parti del paese necessitarono l’intervento dell’esercito per essere placate. Le ostilità tra nazionalisti e repubblicani si acuirono, al punto da permettere ai due schieramenti di compattarsi, quando invece, al loro interno, si trovavano distinte correnti di pensiero.

El director, così era chiamato il generale Mola, la mente dietro l’Alzamiento nacional, fece partire la rivolta nell’estremo nord, nella Navarra, e nell’estremo sud, nel Marocco spagnolo: tenne per sé il comando delle prime truppe, mentre lasciò a Francisco Franco le seconde. Gli insorti riuscirono, in poco tempo, a conquistare numerose grandi città, ma Barcellona e Madrid resistettero, anche grazie alla mobilitazione della popolazione civile.

Alcune potenze straniere diedero il proprio sostegno ai contendenti: se l’URSS e il Messico si schierarono dalla parte dei repubblicani, Germania, Italia e Portogallo entrarono al fianco dei nazionalisti. Proprio grazie a questi interventi, i rivoltosi riuscirono a spaccare in due il paese: le truppe partite da nord erano finalmente giunte al Mediterraneo.

Fu dunque il 1939 a sancire la fine delle ostilità. Con la caduta di Barcellona, prima, e Madrid, poi, la guerra civile poteva dirsi conclusa dopo tre anni di violenze. Iniziava il regime Franco, che avrebbe governato fino al 1975.

Alessio Gaggero

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Quando Marlon Brando rifiutò l’Oscar perché «non siamo umani»

Il 27 marzo del 1973, Marlon Brando non partecipò alla cerimonia di consegna dei premi Oscar. E fu proprio la sua assenza a rendere memorabile quella serata. Lo scopo di Marlon Brando era quello di sensibilizzare l’opinione pubblica americana sulle ingiustizie disumane da sempre sofferte dai nativi-americani e, in tal modo, un po’ più implicitamente, denunciare la natura razzista e violenta di tanta parte della politica interna ed estera degli Stati Uniti. Non presentandosi al Dorothy Chandler Pavillon, quella sera di fine marzo, di quarantasei anni fa, questo selvaggio attore di 49 anni riuscì nel suo intento.

L’impegno di Marlon Brando sul fronte dei diritti civili e contro il razzismo

Era noto a molti fan di Marlon Brando che l’attore si era avvicinato da alcuni anni alla causa degli amerindi. Ma ciò non faceva notizia. Brando era stato sempre molto attivo sul piano politico: aveva dato contributi economici alla campagna per la candidatura alla presidenza degli Stati Uniti d’America di John Fitzgerald Kennedy (cui abbiamo dedicato due post: uno in occasione dell’anniversario della sua elezione e uno in quello del suo assassinio). Nell’agosto 1963 aveva partecipato alla Marcia su Washington insieme con altre star hollywoodiane democratiche e liberal quali, Burt Lancaster, Sidney Poitier, James Garner, Charlton Heston, Paul Newman, Harry Belafonte… (ne abbiamo parlato nel post dedicato a Paul Newman e in quello dedicato a Sidney Poitier, nonché su quello più recente su Richard Widmark, su questa rubrica). Negli anni sessanta aveva donato inoltre migliaia di dollari al movimento guidato da Martin Luther King e donò fondi per i bambini malati del Mississippi. Assieme a Paul Newman era stato attivista del movimento Freedom Riders [1].

Marlon Brando era sicuro che sarebbe stato premiato

Nonostante questi precedenti, la decisione di Marlon Brando di non partecipare alla cerimonia, però, poteva non essere di per sé oggetto di una corposa attenzione mediatica. Per ottenere un adeguato riscontro, non era sufficiente essere candidati e ignorare la cerimonia di premiazione, occorreva essere proclamati vincitori. Ma Marlon Brando su questo punto aveva ridotto al minimo i suoi dubbi. Il padrino (1972), di Francis Ford Coppola, stava raccogliendo un successo commerciale planetario ed  era candidato a ben dieci premi Oscar [2]. Inoltre, Marlon Brando era arrivato alla sua ottava candidatura. L’altro Oscar, il primo ricevuto, lo aveva ottenuto quasi vent’anni prima per la parte di Terry Malloy, il protagonista di Fronte del porto (1954, di Elia Kazan). Inoltre era più che rassicurato dalla validità della sua performance nei panni di Vito Corleone.

Marlon Brando e l’attivista Sacheen Littlefeather

Marlon Brando, però, una volta presa la decisione di approfittare della 45esima cerimonia degli Oscar, quella appunto del 27 marzo 1973, ritenne che non sarebbe stato sufficiente comunicare all’Academy Awards e alla stampa la sua indisponibilità a ritirare il premio. Occorreva un gesto più incisivo per suscitare una rilevante attenzione sulla sua protesta circa il trattamento inflitto ai nativi americani e alle minoranze in generale, dall’industria cinematografica hollywoodiana, nonché dalla politica e dalla cultura dominanti negli Stati Uniti. Occorreva un gesto politico. Perché la politica è anche comunicazione. Per riuscire nel suo intento, Marlon Brando chiese ad una donna di aiutarlo. Si trattava di Sacheen Littlefeather, al secolo Marie Louise Cruz, attrice, attivista per i diritti civili e presidente del National Native American Affirmative Image Committee.

Sacheen Littlefeather: «Questa sera rappresento Marlon Brando»

L’annuncio della vittoria di Marlon Brando, quel 27 marzo al Dorothy Chandler Pavillon, fu dato da Liv Ullmann e Roger Moore, mentre in sottofondo riecheggiavano le note della colonna sonora del film firmata da Nino Rota. Però, ai due attori non si aggiunse Marlon Brando, bensì Sacheen Littlefeather, che rifiutò con un gesto delicatissimo la statuetta. In mano aveva le pagine scritte da Marlon Brando per spiegare le ragioni del suo rifiuto. Non le fu, però, permesso di leggerleUno dei vertici dell’organizzazione aveva minacciato di farla arrestare, se il discorso fosse durato più di sessanta secondi [3]. Così la donna improvvisò il discorso davanti alla platea del Dorothy Chandler Pavillon – mentre tra i presenti si levavano commenti di disapprovazione e applausi – e a quasi novanta milioni di telespettatori in diretta.

«Questa sera rappresento Marlon Brando. Mi ha chiesto di dirvi […] che è davvero dispiaciuto di non poter accettare questo premio. La ragione è dovuta al trattamento degli indiani d’America nell’odierna industria cinematografica […] e televisiva, anche rispetto ai recenti avvenimenti di Wounded Knee».

Il discorso integrale di Marlon Brando

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Sacheen Littlefeather poté leggere l’intero testo scritto da Marlon Brando, quindi, solo nel backstage. Il New York Times lo pubblicò interamente il giorno seguente.

«Facciamo delle loro virtù un crimine e dei nostri misfatti una virtù»

«Per 200 anni al popolo indiano, che lottava per la propria terra, la propria vita, le proprie famiglie e il proprio diritto di essere libero, noi abbiamo detto: “Deponete le vostre armi, amici, e noi vivremo insieme. Solo se deporrete le armi, amici, si potrà parlare di pace e arrivare ad un accordo che vi porterà la felicità”. Quando deposero le armi, noi li assassinammo. Noi mentimmo loro. Noi li defraudammo delle loro terre. Noi li facemmo morire di fame per mezzo di accordi fraudolenti, da noi definiti “trattati” e da noi mai rispettati. Noi li riducemmo ad essere accattoni in un continente che aveva dato loro da vivere a memoria d’uomo. Né rendemmo poi loro giustizia, interpretando sempre in maniera distorta la Storia. Non fummo né leali né giusti. Non ci siamo sentiti tenuti a rendere giustizia a questo popolo, né a lasciarlo vivere secondo quei trattati. E ciò in virtù di un potere che ci arroghiamo e con il quale violiamo i diritti altrui, ne prendiamo le proprietà, gli distruggiamo la vita se cercano difendere la loro terra e la loro libertà. Facciamo delle loro virtù un crimine e dei nostri misfatti una virtù»

«Il tremendo verdetto della Storia»

Il discorso di Marlon Brando proseguiva così:

«Ma una cosa brucia i poteri di questa perversione, ed è il tremendo verdetto della Storia. E la Storia sicuramente ci giudicherà. Ma quale importanza ha questo per noi? Quale sorta di schizofrenia morale ci permette di strepitare per tutto il mondo che noi viviamo nella libertà, quando tutti gli assetati, affamati, umiliati giorni e notti degli ultimi anni di vita dell’Americano Indiano smentiscono questa voce?»

La frecciata di Marlon Brando alla politica estera americana: «Non siamo umani e non rispettiamo le nostre stesse leggi»

A questo punto del suo discorso, Marlon Brando inserì un cenno polemico alla politica estera statunitense [4].

«Sembra quasi che in questa nazione il rispetto e l’amore reciproci, come principi base dei rapporti con le genti vicine, non siano funzionali ai nostri principi, e che tutto quanto si è compiuto per opera nostra sia stato solo per annichilire le speranze di altri Paesi, quelli amici e quelli nemici. Cioè, non siamo umani e non rispettiamo le nostre stesse leggi».

L’offesa alle menti dei nativi-americani bambini di cui non ci si rende conto

Marlon Brando spostò il riflettore sui film di Hollywood e sulla rappresentazione disumanizzante dei nativi americani da parte dei bianchi.

«Forse in questo momento vi chiederete che diavolo tutto questo c’entri con gli Academy Awards. Perché questa donna stia lì sopra a rovinare la nostra serata, ad invadere la nostra vita con cose che non ci riguardano, e di cui non ci importa nulla. A farci sprecare il nostro tempo e il nostro denaro, intrufolandosi nelle nostre case. Penso che la risposta a queste domande sia che la comunità del cinema, al pari di tutte le altre, ha avuto una pesante responsabilità nel degradare l’indiano, nel fare della sua personalità una caricatura, nel descriverlo come un selvaggio, ostile e demoniaco. È davvero duro per i bambini crescere in questo mondo. Quando i bambini indiani guardano i film alla televisione, e vedono il loro popolo ritratto come lo è nei film, le loro mente sono offese in modi ci cui non riusciamo a renderci conto».

«Se non siamo i tutori di nostro fratello, facciamo almeno in modo di non esserne i boia»

«Di recente sono stati fatti pochi, incerti, passi per modificare questa situazione. Ma troppo incerti e troppo pochi. Pertanto io in quanto membro di questa comunità professionale, in quanto cittadino degli Stati Uniti, non mi sento di accettare un Oscar questa sera. Penso che i premi in questo Paese, in questo momento, non possono essere dati né ricevuti finché la condizione dell’americano indiano non sarà radicalmente mutata. Se non siamo i tutori  di nostro fratello, almeno facciano in modo di non esserne i boia».

«Avrei voluto essere qui stasera per parlarvi direttamente, ma…»

«Avrei voluto essere qui stasera per parlarvi direttamente, ma ho ritenuto di essere forse più utile a Wounded Knee, a prevenire una pace disonorevole “finché i fiumi scorreranno e l’erba crescerà”. Spero che non riterrete questa una brutale interruzione, bensì un serio sforzo di attirare l’attenzione su un popolo, in rapporto al quale si determinerà se questo Paese ha il diritto o no di affermare di vivere negli inalienabili diritti di tutto il popolo a rimanere libero e indipendente nelle terre che hanno nutrito la sua vita a memoria d’uomo. Grazie della vostra benevolenza e della vostra cortesia verso Miss Piccola Piuma. Grazie, e buona notte».

Il risultato ottenuto da Marlon Brando e Sacheen Littlefeather

Marlon Brando e Sacheen Littlefeather ottennero così che la stampa si recasse in South Dakota dove l’American Indian Movement aveva occupato la riserva di Wounded Knee (che era già stata scenario del massacro di un intero villaggio Sioux nel 1890), come atto di protesta contro le politiche del Governo. Quest’attenzione mediatica non piacque all’FBI, la quale iniziò a diffondere falsità sull’attivista indiana, rovinandole la carriera. Sacheen Littlefeather, però, non ha mai smesso di lottare a favore dei diritti civili e non si è mai pentita di essere salita su quel palco, al posto di Marlon Brando. Recentemente ha dichiarato:

«Rosa Parks fu la prima a sedersi su quell’autobus. Qualcuno doveva essere il primo a pagare il prezzo del biglietto. E quel qualcuno sono stata io…» [5].

Alberto Quattrocolo

[1] Fin dal giorno immediatamente successivo all’assassinio di Martin Luther King, nel 1968, Marlon Brando aveva dichiarato che avrebbe aumentato il proprio impegno attivo nel movimento. Anche molte delle sue scelte professionali erano in linea con il suo impegno politico. Anzi, spesso ne erano fortemente condizionate. Oltre al caso del film La Caccia, 1966, di Arther Penn (ne abbiamo parlato nel post La caccia ai capri espiatori), si pensi ad opere antirazziste come Sayonara (1957, di Joshua Logan), di denuncia della mentalità violentemente reazionaria e bigotta del Sud degli Stati Uniti, come Pelle di serpente (1960, di Sindey Lumet), o ad un film, da lui anche prodotto, di esplicita condanna della ingerenza statunitense nelle vicende vietnamite come Missione in Oriente (1964, di George Englund).

[2]  Il Padrino aveva incassato 135 milioni di dollari nei soli Stati Uniti, battendo il record del kolossal più acclamato di sempre, il leggendario Via col vento. Le candidature proposte per Il padrino erano le seguenti: miglior film per il produttore Albert S. Ruddy; miglior attore protagonista per Marlon Brando e migliore sceneggiatura non originale per Francis Ford Coppola e Mario Puzo; migliore regia per Francis Ford Coppola; 3 migliori attori non protagonisti per James Caan, Robert Duvall, Al Pacino; migliori costumi per Anna Hill Johnstone; miglior montaggio per William Reynolds e Peter Zinner; migliore sonoro per Charles Grenzbach, Richard Portman e Christopher Newman. I premi assegnati furono quelli per le prime tre candidature sopra elencate (miglior film, miglior sceneggiatura originale, miglior attore protagonista)

[3] Inoltre pare che John Wayne si fosse detto pronto a trascinarla giù dal palco di forza.

[4] Si ricordi che quelli non erano soltanto gli anni della guerra in Vietnam (cui abbiamo dedicato i seguenti post:“I had a brother at Khe Sanh, Fighting off the Viet Cong”Il 4 agosto del 1964 il cosiddetto incidente del Tonchino ‘legittima’ l’escalation dell’intervento militare degli Stati Uniti in VietnamRolling Thunder si scatena sul Vietnam12 novembre 1969: il giornalista freelance Seymour Hersh scopre l’eccidio di My Lai), ma anche quelli del colpo di Stato in Cile (si veda questo post) e che cominciavano ad essere apertamente denunciate le tantissime altre ingerenze, tutt’altro che democratiche e legali, nelle vicende interne di diversi Paesi, non ultimo il nostro.

[5] Il 1º dicembre 1955, a Montgomery (Alabama), Rosa Parks, tornando a casa in autobus dal suo lavoro di sarta, poiché non aveva trovato altri posti liberi, sedette in un sedile tra quelli dietro a quelli riservati ai soli bianchi, nel settore dei posti comuni. In quello Stato come in altri del Sud degli Stati Uniti, però, vigeva la segregazione razziale. Dopo tre fermate, quindi, l’autista le chiese di alzarsi e spostarsi in fondo all’automezzo per cedere il posto ad un passeggero bianco salito dopo di lei. Rosa, in modo sommesso e dignitoso, rifiutò di alzarsi. Il conducente fermò il mezzo e chiamò la polizia. Rosa fu arrestata e condannata per condotta impropria e per aver violato le norme cittadine che obbligavano le persone di colore a cedere il proprio posto ai bianchi nel settore comune, quando in quello a loro riservato a questi ultimi non ve n’erano più di disponibili. Da allora Rosa Parks divenne nota come The Mother of the Civil Rights Movement.

1942, apre la sezione femminile nel lager di Auschwitz

Che cosa prendereste voi dalle vostre case se vi dicessero che avete 10 minuti e poi la vostra casa non la rivedrete più?

Il 26 marzo 1942, presso il campo di concentramento di Auschwitz, fu aperta anche una sezione femminile, in seguito collocata in un settore di Auschwitz-Birkenau denominato BI. Nel  complesso di Auschwitz, dal quale dipendevano circa 50 campi, furono immatricolate ufficialmente circa  405.000 persone, di cui 32.000 donne, ma è noto che molte migliaia di deportati non furono registrati, quindi è molto difficile stabilirne il numero complessivo reale; si stima che il solo campo di Birkenau abbia internato circa sessantamila donne. Le prime detenute furono trasferite dal campo femminile di Ravensbrück: si trattava di un migliaio di criminali comuni e asociali tedesche, che avrebbero assunto e ricoperto incarichi di responsabilità (Kapos).

Con l’inizio della deportazione in massa degli ebrei, crebbe anche il numero delle donne internate, in genere obbligate a lavorare nelle industrie che, in quantità crescente, vennero aperte nei pressi del campo; ma, indipendentemente dall’appartenenza al popolo ebraico, furono recluse anche donne Rom, donne di nazionalità polacca o slave, donne attive nella Resistenza al nazifascismo in ogni paese e donne con disagi fisici o psichici prelevate dagli istituti in cui erano ricoverate.

Arrivavano da tutta l’Europa occupata, ammassate oltre i limiti della sopravvivenza per giorni sui treni speciali, come quelli che partivano dal binario 21 della Stazione Centrale di Milano: le sopravvissute italiane raccontarono che il tragitto verso la stazione avveniva su camion coperti, di mattina presto, al freddo e al buio, quando

non c’era in giro nessuno, ma anche se fosse stato giorno nessuno ci avrebbe guardato e magari compatito: un gruppo di ebrei trasferito da un posto all’altro non interessava nessuno. C’era la guerra, i bombardamenti su Milano, la fame, il carovita… e poi… eravamo ebrei.

Il treno aspettava nei sotterranei, i nazisti non volevano che i milanesi vedessero il carico di uomini, donne e bambini su vagoni-bestiame, vagoni utilizzati per trasportare merci, cose, animali. Infine l’arrivo a Birkenau, direttamente:

Lì ci hanno sbarcato, eravamo in un altro mondo. Che noi non sapevamo niente, siamo caduti dal cielo. Abbiamo visto gente, questi prigionieri, ma non sapevamo niente.

Primo Levi riconobbe come la condizione delle prigioniere potesse essere peggiore di quella degli uomini, per vari motivi:

Considerate se questa è una donna / senza capelli e senza nome / Senza più forza di ricordare / Vuoti gli occhi e freddo il grembo / Come una rana d’inverno”.

Per quanto non sia possibile stilare una classifica dell’orrore, esiste uno specifico femminile nella sofferenza delle deportate, relativo alle offese subite proprio in quanto donne.

Trattando i dati sulla Shoah, emergono molteplici informazioni sul destino degli uomini nei campi; per quanto riguarda le donne le testimonianze sono minori, ma racchiudono percorsi diversi e sfaccettati: le madri separate dai figli; le figlie deportate insieme alle madri con cui condividevano le sofferenze e l’impossibilità di aiutarsi; le articolazioni della solidarietà e la durezza dei rapporti anche fra prigioniere; le donne che divennero madri in lager e videro assassinare o morire di stenti i figli; le vittime degli esperimenti chirurgici; i mille modi per sopravvivere e resistere affermando con ogni strumento culturale la propria dignità di esseri umani, anche in forme apparentemente minime. Essere prigioniere significava dover esporre in pubblico corpi abituati dal costume dell’epoca a un pudore rigoroso e vedere quelli di altre, magari anziane, e restarne turbate, subire la violenza per poter sopravvivere, non potersi più riconoscere nella propria immagine fisica. Significava vivere con bambini destinati a sparire, con compagne che arrivavano incinte e si affannavano per nutrire un figlio che sarebbe stato ucciso poco dopo; scoprire nelle donne e anche in se stesse una distruttività che non si sarebbe mai immaginata.

Riflettere sulla peculiarità delle sofferenze e delle sopraffazioni patite da uomini e donne può aiutare a superare il neutro della testimonianza e comprendere le differenti traiettorie esistenziali di individui segnati da una diversa educazione, da diversi ruoli sociali, da diversi modi di percepire e affrontare la separazione, l’umiliazione, la perdita. “Nel lager ho sentito con molta forza il pudore violato, il disprezzo dei nazisti maschi verso donne umiliate. Non credo assolutamente che gli uomini provassero la stessa cosa“, dice Liliana Segre, deportata nel lager femminile di Auschwitz-Birkenau all’età di tredici anni. E spiega:

Mettere nudo un uomo davanti a un altro uomo è senz’altro una cosa umiliante e terribile. L’uno è vestito, magari in divisa, con le armi; l’altro è nudo, inerme, in stato di completa debolezza. Eppure mi pare che la donna nuda davanti all’uomo armato sia sottoposta a un oltraggio ancora maggiore. Ti insegnano a stare sempre composta, a vestire accollata, a provare pudore del corpo. Poi, di colpo, nello stesso giorno in cui ti strappano ai tuoi familiari, nello stesso giorno in cui scendi da un treno della deportazione e arrivi in un posto che non conosci, che non sai nemmeno collocare geograficamente su una cartina, ti ritrovi nuda insieme ad altre disgraziate che, come te, non capiscono niente di quello che sta succedendo. Non c’è nulla, lì attorno, che non faccia paura. Sei terrorizzata, e intanto i soldati passano sghignazzando, oppure si mettono in un angolo discosto a osservare la scena di queste donne che vengono rasate, tatuate, già umiliate, torturate per il solo fatto di essere lì, nude. Non mi guardavano come una donna, ma come un capo di bestiame di cui andassero esaminati i quarti.

Essere donne in un campo di concentramento era molto più che umiliante: venivano consegnati vestiti maschili, mutande senza elastici, calze che si ripiegavano sulle gambe. Nei primi mesi il ciclo mestruale si riproponeva e non esisteva materiale per tutelare l’igiene; successivamente, a causa della scarsa alimentazione, della qualità del cibo e dell’estenuante lavoro, il flusso si bloccava per la maggior parte delle prigioniere, evento accolto come il minore dei mali ma ulteriore prova di come la femminilità scomparisse. Il corpo perdeva le sue forme originali e si trasformava in uno scheletro di vecchia.

D’un tratto, là dove c’era il seno non c’è più niente o, in certe donne, solo un po’ di pelle cascante. Le ossa delle anche ti bucano la pelle, premendo come spunzoni sul tavolaccio dove sei costretta a dormire senza poterti voltare, incuneata nei corpi delle altre. Ti guardi le gambe e ti sembra impossibile che ti possano sorreggere. Hai la testa rasata, non hai uno specchio, non hai nulla. Sei una persona che non ha più nulla. Non possiedi altro che quei pochi stracci che ti metti addosso. Ricordo che avevo una giacca con la fodera mezzo strappata, e quella fodera l’ho usata tutta per andare in gabinetto. Anche queste cose, giorno dopo giorno, vanno tutte a scapito della tua femminilità, del tuo essere una donna che lotta per non abbrutirsi completamente. Quando non hai un fazzoletto, come fai a soffiarti il naso? Erano tutti passaggi che portavano via un pezzo di te.

Alcune centinaia, forse più di mille internate furono sottoposte agli esperimenti “scientifici” di Clauberg e Schumann: senza anestesia si prelevavano campioni di tessuto dell’utero, si irradiavano le ovaie con raggi X, si asportava l’utero o vi si iniettava un liquido irritante, per sviluppare pratiche da impiegare nel progetto di sterilizzazione delle razze inferiori.

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Dai reparti femminili erano inoltre selezionate le donne destinate ai postriboli dei lager per allietare il personale di guardia, gli internati criminali comuni e in generale gli uomini di razza “ariana”; erano donne tedesche, ucraine, polacche o bielorusse (escluse le italiane e le ebree ritenute contaminanti per il loro sangue non ariano), tutte sotto i 25 anni di età, indotte a prostituirsi dopo un periodo di violenze e stupri, con la promessa, mai mantenuta, della concessione della libertà dopo sei mesi di “lavoro”. Dopo la fine della guerra anche questo aspetto del regime nazista venne tenuto nascosto: le stesse vittime si ritenevano in certo modo colpevoli e i due stati tedeschi si trovarono concordi nel negare alle donne dei bordelli la loro condizione di vittime e il diritto a qualsiasi risarcimento ipotizzando il loro, sia pur giustificato, consenso.

Nonostante la prigionia, i maltrattamenti, la separazione dai propri cari, la fatica, il degrado, il processo di de-umanizzazione, si continuò a tentare di preservare almeno la dignità di persone: molte internate crearono gruppi di mutua assistenza che permisero loro di sopravvivere grazie allo scambio di informazioni, cibo e vestiario; alcune donne furono leader o membri di organizzazioni della Resistenza all’interno dei campi di concentramento; si faceva anche musica, caratterizzata, rispetto all’esperienza analoga nei campi maschili, da forte natura collettiva e comunitaria, dalla composizione all’esecuzione: nella musica delle donne internate “il dolore si fa colore”.

Ma quella del lager rimase un’esperienza indicibile per tutte, incomunicabile, non condivisibile con chi non l’avesse vissuta, il Perturbante freudiano o il Reale lacaniano materializzato sulla terra che lascia smarriti nell’impossibilità di trovarne il senso. È ancora Liliana Segre a testimoniare che

In quello che avveniva non c’era assolutamente mai una logica, anche se all’apparenza tutto era preordinato. Nei giacigli dove dormivamo in cinque o sei, si agitavano gli insetti più schifosi. Erano sui nostri corpi, nelle cuciture dei vestiti. E nel campo passavano dei topi spaventosi, enormi, che si nutrivano di rifiuti, di morti, di tutto. C’era una sporcizia profonda, incredibile, ma noi dovevamo ricoprire questi giacigli a suon di bastonate, con un’unica coperta in ottimo stato, che doveva avere la piega fatta in un certo modo, perfettamente geometrico. Quando ho capito tutto questo, e cioè che sotto la coperta ci poteva essere qualunque schifezza, ma che sopra tutto doveva avere un aspetto perfetto, ho trovato la risposta a un sacco di cose.

Silvia Boverini

Fonti:
www.assemblea.emr.it; https://encyclopedia.ushmm.org; “Le donne deportate raccontano i lager nazisti”, http://www.deportati.it; A. Lotto, “Memorie e ricordi di donne e bambini deportati nei lager nazisti”, www.unive.it; “Considerate se questa è una donna”, www.pinchetti.net; A. Beltrami, “Musica nei lager: quando il canto delle donne era più alto del filo spinato”, www.avvenire.it; www.lageredeportazione.org; http://restellistoria.altervista.org; D. Padoan, “Liliana Segre: noi donne nei lager come rane d’inverno”, www.globalist.it

John Lennon e Yoko Ono protestano… a letto

Nel 1969 la Guerra in Vietnam si avviava a grandi falcate verso il suo quindicesimo anno, mentre i Beatles di lì a poco si sarebbero, purtroppo, sciolti. Di contro (o, forse, questa fu una delle cause più rilevanti della fine del gruppo), John Lennon e Yoko Ono si sposarono il 20 marzo di quell’anno. Anche privi di social media, era ben consapevoli della portata mediatica dell’evento.

Decisero, così, di sfruttare l’occasione per spostare lo sguardo del mondo verso la penisola indocinese, adottando, però, la loro prospettiva: quella pacifista. Per far ciò, inventarono una forma di protesta che sarebbe poi stata ripresa in altri tempi e luoghi: il bed-in. Palese deformazione del sit-in, consisteva nel trascorrere le giornate a letto, lasciando la porta aperta alla stampa mondiale. Per dodici ore al giorno, i giornalisti, oltre agli ospiti della coppia, potevano passare la giornata nella camera da letto delle due star.

Dunque, dopo il matrimonio a Gibilterra, si stabilirono nella suite presidenziale dell’Hilton Hotel di Amsterdam a partire dal 25 marzo. Lì, “come due angeli”, suonarono e tennero discorsi sulla pace e sull’amore universali per una settimana, fino alla fine del mese, con le telecamere accese dalle 9 di mattina alle 9 di sera.

Dopo un breve tentativo di una notte alle Bahamas, si trasferirono, il 25 maggio, presso il Queen Elizabeth Hotel di Montreal, in Canada, dove li raggiunse anche la figlia della cantante. Il primo giugno, al termine dell’iniziativa, registrarono, insieme a tutti i presenti, il brano Give Peace a Chance, adottato poi come inno dei movimenti pacifisti.

Alessio Gaggero

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Richard Widmark, il cattivo “buonista” di Hollywood

Richard Widmark, morto il 24 marzo del 2008, a 94 anni d’età, fece parte della folta schiera di quegli splendidi attori cinematografici americani che si imposero dopo la Seconda Guerra Mondiale. Nella scheda dedicata ad un film, Stato d’allarme (1965, di James B. Harris), interpretato da Widmark, a 17 anni dalla sua prima apparizione sugli schermi cinematografici, Claudio G. Fava scrisse:

«uno straordinario Richard Widmark […] rispetto al suo talento e alla sua presenza sullo schermo, in fondo non è mai stato abbastanza considerato ed è divertente vedere che a lui, nella vita di ogni giorno liberal dichiarato, toccavano poi spesso parti di accanito conservatore» [1].

Richard Widmark e gli altri “duri” emersi negli anni Quaranta

All’interno della variegata compagnia degli interpreti affermatisi nella seconda metà degli anni Quaranta, Richard Widmark, si inserì in una sottocategoria, quella dei “duri”. In particolare, fu tra coloro che nel secondo dopoguerra emersero in parti di cattivo tout-court o di personaggi moralmente ambigui, quali Burt Lancaster, Kirk Douglas e Robert Mitchum. Anti-eroi, spesso destinati a finire male o, almeno, a patire le pene dell’inferno prima del finale dolceamaro, coinvolti in conflitti fortemente drammatici, spesso condizionati da una tormentata instabilità interiore, da impulsi violenti e autodistruttivi. A differenza delle tre star sopra citate, Richard Widmark non divenne una superstar ma non restò nemmeno un caratterista [2].

«Sono stato una cimice del cinema da quando avevo 4 anni».

Richard Weedt Widmark nacque a Sunrise Township, nel Minnesota, da Ethel Mae (Barr) e Carl Henry Widmark. Suo padre era di origine svedese e sua madre di origini inglesi e scozzesi. Confessò di essere stato un appassionato di cinema fin dalla fanciullezza: «Sono stato una cimice del cinema da quando avevo 4 anni» [3]. Il suo attore preferito era Spencer Tracy, e quando ebbe il privilegio di recitare con lui ne apprezzò ancor di più l’arte (accadde due volte) [4]. Una volta laureato, nel 1936, decise di trasferirsi a New York a fare l’attore [5]. Dopo aver sposato la compagna di studi Jean Hazlewood (ebbero una figlia Anne, nel ’45, e restarono sempre insieme finché lei, malato di Alzheimer, non morì nel 1997) ed essere stato scartato alla visita di leva per via di un timpano perforato, debuttò a Broadway nel 1943 nello spettacolo “Kiss and Tell[6].

«Suppongo di essermi dato daffare per avere un posto al sole. Ho sempre vissuto in piccole città e recitare significava avere una sorta di identità». Quell’identità che i copioni cinematografici tante volte gli offrirono, però, erano quanto mai distanti dal suo carattere e dai suoi valori.

Un esordio sconvolgente

Richard Widmark non cercava una via facile per suscitare la simpatia del pubblico e non aveva paura di interpretare personaggi profondamente turbati, intimamente conflittuali o corrotti. La prova più lampante di questa temeraria sfida alla sensibilità del pubblico dell’epoca è costituita dal suo primo ruolo cinematografico. Dopo aver visto il suo provino per il ruolo di Tommy Udo del dramma criminale in produzione Il bacio della morte (1947, di Henry Hathaway), il boss della 20th Century Fox, Darryl F. Zanuck, insistette che ad interpretare quella parte fosse proprio il biondo e smilzo Richard Widmark. Il regista, invece, era stato inizialmente scettico, poiché, a parer suo, la fronte alta di Widmark lo rendeva credibile come intellettuale, ma non come gangster (Hathaway e Widmark, su quel set, in breve divennero amici e lo restarono per sempre). L’attore sconvolse le platee con la sua interpretazione del sicario psicopatico, che ridacchia anche mentre in un accesso di sadismo spinge giù dalle scale una donna anziana, paralizzata su una sedia a rotelle [7]. Ma la sua prestazione in un personaggio così eccessivo fu talmente calibrata da fargli ottenne un Golden Globe e una candidatura all’Oscar. E gli assicurò la profonda stima del regista, che altre volte lo volle poi nel cast delle proprie produzioni. In seguito, a proposito della sua prestazione come Tommy Udo, Widmark raccontò:

«non mi ero mai visto sullo schermo, e quando lo feci volevo spararmi».

Cattivo nel noir e dintorni

Nelle opere successive Widmark restò saldamente piantato nel genere criminale in cui aveva esordito, quello che sarebbe stato poi definito il genere noir, interpretando alcune pietre miliari e diverse produzioni minori (per budget, ma non per qualità estetiche) [8]. Quello stesso anno impersonò per la quarta volta il cattivo, ma lo fece in un western. Una pellicola, in verità, che per stile e temi aveva molti punti di contatto con il noir: Cielo giallo (1948), uno dei capolavori della ricca carriera del regista William A. Wellman. Anche in tal caso Richard Widmark riuscì a non sfigurare accanto al protagonista, un assai efficace Gregory Peck, rivelandosi adattissimo per la parte tutta sotto le righe del tubercolotico, freddo calcolatore antagonista. A quel punto Richard Widmark fece pressione sullo studio per ottenere parti diverse da quelle di “villain” e nel 1949 vi riuscì [9].

L’incubo della caccia alle streghe

L’anno dopo dominò interamente, come protagonista, un altro noir, un cult movie esemplare, I trafficanti della notte (1950, di Jules Dassin) [10]. Quelli erano gli anni in cui l’America era attraversata da un’ondata di paranoia anticomunista (ne abbiamo parlato qui e qui). Bastava avere vaghe simpatie progressiste per finire sotto indagine da parte della Commissione d’inchiesta per le attività anti-americane (HUAC) o nelle cosiddette liste nere (abbiamo dedicato diversi post alla “caccia alle streghe su questa rubrica, Corsi e Ricorsi, dell’Associazione Me.Dia.Re.: tra questi quello sulla condanna a morte dei coniugi Rosenberg). Liste informali in cui venivano inseriti i nomi di coloro che erano sospettati o sospettabili di filocomunismo. Chi finiva in uno di quegli elenchi come minimo poteva dire addio al lavoro e alla carriera.

«L’America dovrebbe vergognarsi per sempre» (Richard Widmark)

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Richard Widmark, però, infischiandosene del fatto che il regista Jules Dassin fosse stato costretto a lasciare gli USA per sottrarsi alla persecuzione dell’HUAC, in quanto ex iscritto al Partito Comunista Americano, lo raggiunse a Londra e, sviluppando una sorta di “anti-metodo”, basato sulla freddezza anziché sull’immedesimazione, rese alla perfezione la nervosa malinconia del protagonista. Questa decisione, come previsto, lo espose alla paranoica curiosità dei cacciatori di streghe, ma Widmark, pur essendo un liberal dichiarato, non si era mai iscritto ad alcuna associazione che potesse far sorgere sospetti di simpatie comuniste, sicché, per quanto più volte “attenzionato”, non finì mai incastrato.

«Sono stato un democratico liberal per tutta la vita»

Nel 1950, tornato negli USA, andò a New Orleans, per interpretare la parte dell’esausto medico della Marina, intento a prevenire un’epidemia di peste, in un noir mozzafiato, Bandiera gialla, di Elia Kazan, anch’egli da tempo nel mirino dei reazionari e prossimo a finire tra le grinfie della caccia alle streghe. Immediatamente dopo, Richard Widmark accettò l’offerta di un altro grande regista, Joseph Lee Mankiewiczpure lui alle prese con l’isteria anticomunista montante, intento com’era a fronteggiare gli assalti degli anticomunisti più sfegatati nel sindacato degli sceneggiatori – , di interpretare il razzista e bigotto delinquente di Uomo bianco tu vivrai (1950, di J. L. Makiewicz), che perseguita il medico afro-americano interpretato da Sidney Poitier (gli abbiamo dedicato un post su questa rubrica[11].

In seguito commentò:

«Molti dei miei amici erano nella lista nera. L’America dovrebbe vergognarsi per sempre».

Quindi, sotto la direzione di Lewis Milestone, celebre autore di opere di grande successo ma sospettato, anch’egli, di anti-americanismo, Richard Widmark interpretò Okinawa (1951). Anche questa volta il suo personaggio era tutt’altro che eroico, trattandosi di un ufficiale talmente consumato dal senso di colpa e dall’esaurimento da ricorrere alla droga.

Una varietà di ruoli all’insegna della complessità

Sempre in ambito noir l’altra gemma di quei primi anni Cinquanta fu Mano pericolosa (1953, di Samuel Fuller) [12]. Seguirono moltissime altre pellicole, che lo portarono a recitare nei più diversi generi, sotto la direzione di giganti dell’arte cinematografica o di abilissimi professionisti [13]. E lavorò intensamente per tutti gli anni Cinquanta e Sessanta, durante i quali interpretò numerose opere di forte riscontro commerciale e apprezzate dalla critica internazionale. Vi fu un lieve calo negli anni Settanta [14]. Ma anche in quel decennio prese parte ad alcuni film memorabili, così come continuò a lavorare anche in seguito, ma con ritmi meno intensi, alternando film televisivi ad opere cinematografiche, nell’ambito delle quali, per lo più forniva partecipazioni straordinarie, sia pur corpose.

«Penso che un artista dovrebbe fare il suo lavoro e poi stare zitto» (Richard Widmark)

Nonostante avesse interpretato una gran quantità di assassini e di bigotti senza cuore, le poche volte in cui approfittò della propria celebrità per sostenere una causa lo fece in nome della non violenza. Denunciò, infatti, ripetutamente ogni tipo di violenza e nel 1976 affermò:

«So di aver fatto una specie di mezza carriera con la violenza, ma detesto la violenza. Sono un fervente sostenitore del controllo delle armi. Mi sembra incredibile che siamo l’unica nazione civilizzata a non esercitare un controllo efficace sulle armi».

In generale, Richard Widmark si tenne lontano dai microfoni e dai flash dei fotografi. Sulla sua vita non si fissò mai l’attenzione del gossip. Seppe considerare il lavoro di attore niente più che un lavoro. Perciò, fu alquanto sorpreso quando gli venne assegnato un premio ad Hollywood per il suo impegno umanitario, pacifista e ambientale, sempre svolto in sordina.

Ed espresse il suo commosso stupore per il fatto che il suo carissimo amico Sidney Poitier aveva percorso migliaia di chilometri in treno per consegnarglielo.

Il suo vecchio amico, non meno sorpreso da quelle parole toccanti, affettuosamente gli rispose:

«Per te sarei venuto anche a piedi».

Alberto Quattrocolo

[1] Sulle qualità di attore di Richard Widmark, Jean Wagner ha scritto:

«Egli incarna sempre un personaggio dai risvolti complessi. Di fatto, Widmark è sempre la cattiva coscienza di qualcuno. Eroe o vittima, ha l’arte di essere sempre in posa falsa. Così i suoi personaggi sono normalmente ambigui o posti in situazioni ambigue […]. Il suo passo felino, la sua capigliatura bionda, i suoi occhi assai chiari, gli permisero di arricchire di sfumature ambigue, torbide, personaggi classici, di rendere sensibili le loro esitazioni, i loro bruschi cambiamenti, la loro instabilità, dissimulata sotto un humour beffardo, sprezzante o timoroso, sempre sviante. Attore shakespeariano a sua insaputa, Widmark trova sempre il modo di sorprenderci, poiché nulla con lui appare definitivo. Sa rinnovare archetipi in genere ben determinati».

Tra i film maggiormente penetrati nella memoria del grande pubblico, oltre a quello di esordio – Il bacio della morte (1947, di Henry Hathaway) -, possono annoverarsi diversi noir tra la fine degli anni Quaranta e i primi anni Cinquanta, nei quali arricchì di complesse sfumature i suoi personaggi, fossero essi protagonisti o meno. Tra questi, La strada senza nome (1948, di William Keighley), Trafficanti della notte (1950, di Jules Dassin), Uomo bianco tu vivrai (1950, di Joseph Lee Manikiewicz), Bandiera gialla (1950, Elia Kazan) Mano pericolosa (1953, di Samuel Fuller). Un altro genere che  contribuì ad arricchire di preziosissime perle interpretative fu il western. Da Cielo giallo (1948, di William A. Wellman), al fianco di Gregory Peck e Anne Baxter, a Prigioniero della miniera (1954, di Henry Hathaway), accanto a Gary Cooper e Susan Hayward; da La lancia che uccide (1954), insieme a Spencer Tracy e Robert Wagner, a L’ultima notte Warlock (1956), in un cast che capeggiava insieme ad Henry Fonda, Anthony Quinn e Dorothy Malone (entrambe le opere furono dirette da Edward Dmytrik); da La frustata (1955) a Sfida nella città morta (1958), entrambi di John Sturges, che avrebbe voluto dirigerlo anche ne La grande fuga (1963), nel ruolo di Hilts, parte che venne invece assegnata a Steve McQueen, facendone una superstar mondiale; da L’ultima carovana (1956, di Delmer Daves) a La battaglia di Alamo (1960, di e con John Wayne); da Cavalcarono insieme (1962) a Il grande sentiero (1964), entrambi del “Maestro tra i maestri” della regia, John Ford; da Alvarez Kelly (1966, di Edward Dmytryk), accanto a William Holden a Quando le leggende muoiono (1972, di Stuart Millar), con Frederic Forrest. Ma numerose e pregevolissime furono anche le sue interpretazioni al di fuori del cinema d’azione. Si pensi alla sua performance nei panni dello psichiatra in crisi in La tela del ragno (1954, di Vincente Minnelli) o in quelli dell’avvocato militare che difende un ufficiale accusato di aver collaborato con il nemico durante la guerra di Corea, in Il fronte del silenzio (1957, di Karl Malden). Non meno memorabile fu la figura del pubblico ministero del processo di Norimberga, intento a dimostrare la colpevolezza dei vertici del sistema giudiziario tedesco durante il Terzo Reich: seppe dosare indignazione e disperazione in un uomo che non si può rassegnare alle ragioni dell’opportunismo politico. In tale film, Vincitori e vinti (1961), mirabilmente diretto da Stanley Kramer, Richard Widmark si misurò con sottile abilità con attori del calibro di Burt Lancaster, Spencer Tracy, Montgomery Clift, Judy Garland e Marlene Dietrich. Molti altri film ancora colpirono le emozioni degli spettatori e lo portarono a collaborare con altri registi di indiscutibile successo e talento (come, per citarne solo un paio, Sidney Lumet e Robert Aldrich), così come con autori meno prolifici o meno noti al grosso pubblico, quali il regista di Stato d’allarme (1965), James B Harris. Più noto come produttore e come montatore, questo regista rivelò un mano fermissima in quella e in altre occasioni (in Stato d’allarme aveva tra le mani un cast in cui primeggiavano, accanto a Richard Widmark, Sidney Poitier e Martin Balsam).

[2] Come accadde ad altri magnifici attori apparsi durante o subito dopo la Seconda Guerra Mondiale: Lee J. CobbRichard Conte, Dan Duryea, Charles McGraw, Robert Ryan, ecc., Richard Widmark fu certamente, in molte opere, dall’inizio alla fine della carriera, un cattivo inquietante, ma quasi da subito interpretò anche personaggi positivi (talora come partner dell’attore principale, più spesso come protagonista), fornendoli, però, di sfaccettature contrastanti e di uno spirito sovversivo, che ne facevano emergere la profondità e l’umanità.

[3] Anche da adolescente Richard Widmark continuò ad andare al cinema, passato nel frattempo dal muto al sonoro. Era entusiasta dei primi capolavori sonori dell’horror, come Dracula (1931, di Todd Browning) e Frankenstein (1931, di James Whale). Rispetto a quest’ultimo era impressionato dalla performance di Boris Karloff.

[4] Lavorò con Spencer Tracy nel 1954 in La lancia che uccide (di Edward Dmytryk) e in Vincitori e vinti (1961, di Stanley Kramer). Di Spencer Tracy, disse:

«Ciò che un attore dovrebbe essere è esemplificato, per me, da lui. Mi piace la realtà della sua recitazione. È così onesto e sembra così semplice, anche se ciò che fa Tracy è il risultato di un duro lavoro e di un’estrema concentrazione. In realtà, il massimo in qualsiasi arte non è mai mostrare le ruote che macinano. L’essenza della cattiva recitazione, per esempio, sta nell’ urlare. Tracy non urla mai. È il più grande attore cinematografico che sia mai esistito».

[5] Nel 1938 ebbe la possibilità di lavorare alla radio in “Real Life of Aunt Jenny“e in diverse altre trasmissioni della compagnia di Orson Welles.

[6] Durante la guerra Richard Widmark e i suoi genitori trascorsero tre anni angosciosi temendo per la vita del fratello di Richard, Donald, un pilota di bombardieri ferito e catturato dai nazisti. Sebbene Donald Widmark fosse stato liberato alla fine della guerra, la sua salute compromessa costituì una fonte di ansia e dolorose anche per Richard.

[7] Anche se il ruolo era piccolo, la performance potente di Richard Widmark mise in ombra quella pur ottima degli altri interpreti, inclusa quella del protagonista, Victor Mature. Il dipartimento di pubblicità della 20th Century Fox, quindi, decise di promuovere contemporaneamente il film e l’attore facendo stampare dei manifesti con la scritta «Wanted» sopra la faccia di Richard Widmark.

[8] Tornò, infatti, a vestire immediatamente i panni di un malvivente psicotico in La strada senza nome (1948, di William Keighley), arricchendolo di esplicite ambiguità sessuali, e rese con impressionante verosimiglianza un marito maltrattante, violento, geloso e persecutorio, ne I quattro rivali (1948, di Jean Negulesco).

[9] Grazie all’appoggio di Henry Hathaway ebbe la parte del paterno marinaio, che sa mettersi in discussione, in Naviganti coraggiosi (1949, di H. Hathaway) e se la cavò splendidamente. Aveva raggiunto la notorietà presso il pubblico e la critica andando controcorrente, prima con la violenza scioccante di Tommy Udo, poi tradendo le aspettative del pubblico che si aspettava di vederlo sempre nei panni del cattivo. Il numero del 28 marzo 1949 della rivista “Life” dedicò tre pagine al film di Hathaway e a Widmark.

[10] Dopo aver impersonato il protagonista cinico di Furia dei tropici (1949, di André De Toth), un altro noir melodrammatico.

[11] Di Sidney Poitier divenne subito amico lo restò per tutta la vita. Durante la lavorazione del film, Richard Widmark, preoccupato per la violenza verbale e psicologica che il suo personaggio infliggeva a quello di Sidney Poitier, si scusava di continuo con lui prima dell’inizio e al termine di ogni ripresa.

[12] Dove seppe dosare il cinismo irrimediabile del protagonista, un borseggiatore newyorchese, alle prese con spietate spie comuniste, con una sorta di anarchico sentimentalismo.

[13] Gli uni e gli altri lo scelsero per il suo talento e la sua scrupolosa serietà professionale (da John Ford a Otto Preminger, da John Sturges a Vincent Minnelli, da Richard Brooks a Delmer Daves, da Stanley Kramer ad Edward Dmytryk, da Don Siegel a Robert Aldrich, da Sidney Lumet a Micheal Crichton), spesso affiancandolo a divi già affermati e ad altre star in ascesa (da Marilyn Monroe a Laureen Bacall, da Susan Hayward a Jean Seberg, da Donna Reed a Felicia Farr, da Linda Darnell a Jean Peters, da Ingrid Stevens a Genevieve Bujold, da Gary Cooper a John Wayne, da Robert Taylor a James Stewart, da Burt Lancaster a Spencer Tracy, da Montgomery Clift a George Peppard, da Sidney Poitier a Laurence Harvey, da Maximilian Shell a George Segal, da Henry Fonda ad Anthony Quinn, da William Holden a Gene Hackman).

[14] All’inizio degli anni Settanta, la sua minore presenza sugli schermi cinematografici fu compensata dall’impegno televisivo nella serie poliziesca Madigan (1972-’73), ispirata da un film di particolare successo girato nel ’68 e diretto da Don Siegel, Squadra omicidi, sparate a vista.

Fonti

Raymond Bellour (a cura di), Il Western, Giangiacomo Feltrinelli Editori, Milano 1973

Claudio G. Fava, Guerra in cento film, Le Mani, Genova, 2010

Josè Maria Latorre, Avventura in cento film, Le Mani, Genova, 1999

Renato Venturelli, Poliziesco americano in cento film, Le Mani, Genova, 1995

Renato Venturelli, Gangster in cento film, Le Mani, Genova, 2000

Aldo Viganò, Western in cento film, Le Mani, Genova, 1994

www.imdb.com

Da via Rasella a via Ardeatina: occhio per occhio…

Roma, 23 marzo 1944. Diciotto chili di esplosivo e spezzoni di ferro esplodono in via Rasella, proprio mentre l’11ª compagnia del III battaglione del Polizeiregiment “Bozen” la sta percorrendo a piedi. Muoiono sul posto ventisei uomini della polizia nazista e due civili Italiani, a cui si aggiungeranno altri sette militari tedeschi nei giorni successivi.

L’attacco fu progettato e realizzato da 17 dei cosiddetti gappisti, i membri dei Gruppi d’azione patriottica (GAP), le unità partigiane del Partito Comunista Italiano. Legittimo o meno, fu uno dei più tremendi attentati urbani anti-tedeschi. Va da sé, non poteva rimanere impunito, soprattutto considerato che, in quel periodo, la capitale era occupata dai nazisti. Questi, già in precedenza, non avevano risparmiato atti di crudeltà, come il rastrellamento del ghetto di qualche mese prima.

La rappresaglia fu pressoché istantanea, se si considera che la decisione coinvolse anche l’alto comando in Germania: dieci uomini per ogni tedesco ucciso. 330 vittime sacrificali non erano facili da trovare in meno di ventiquattrore, ma, alla fine, ne moriranno cinque in più.

Le modalità con cui le Fosse Ardeatine si riempirono di morte sono sconcertanti: possibili solo se quel meccanismo umano chiamato empatia viene messo a tacere completamente. La deumanizzazione dell’altro, della vittima in questo caso, può spalancare le porte sugli abissi della moralità.

Così, più di tre centinaia di persone furono assassinate, una alla volta, con un colpo di pistola al collo dall’alto verso il basso, e accatastate in uno sterminato cumulo di cadaveri. Difficile immaginare di poter compiere un’atrocità del genere. Difficile cercare di immedesimarsi in chi premette il grilletto per così tante volte. Proprio questo comporta la deumanizzazione: non sei più umano, dunque non posso sentirti soffrire. Quel giorno, un pezzetto di umanità si sgretolò per sempre.

Alessio Gaggero

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Il 21 marzo 1960 si consuma il massacro di Sharpeville

A partire dal 2005, le Nazioni Unite hanno dichiarato il 21 marzo “Giornata internazionale per l’eliminazione della discriminazione razziale”. La decisione fu presa in occasione del 45° anniversario degli eventi di Sharpeville, Sudafrica, in cui persero la vita 70 persone, tra cui 8 donne e 10 bambini.

Quella mattina, verso le dieci, diverse migliaia di dimostranti si radunarono intorno alla stazione di polizia della città, provocatoriamente senza documenti. La protesta era indirizzata nei confronti dello Urban Areas Act, anche chiamato Pass law, vale a dire quel decreto governativo che imponeva ai cittadini sudafricani neri di girare sempre con un lasciapassare: se ne fossero stati trovati sprovvisti, mentre si trovavano in un’area riservata ai bianchi, sarebbero stati arrestati.

Il raduno pacifico fu organizzato dal Pan Africanist Congress (PAN), partito alternativo all’African National Congress (ANC), di cui faceva parte Nelson Mandela. Il PAN, fondato da Robert Mangaliso Sobukwe neanche un anno prima, decise di prendere il tempo al gruppo di Madiba: fu progettata una campagna, contro il suddetto decreto, in partenza dieci giorni prima della rivale. Sharpeville avrebbe dovuto dare il via all’evento.

I maschi africani di ogni città e villaggio […] lascino a casa i propri lasciapassare, si uniscano alla dimostrazione e, se arrestati, non accettino alcuna cauzione, difesa né multa.
(T.d.a.)

La tensione era alta, tanto da costringere le forze dell’ordine a diversi tentativi di disperdere la folla, compresa l’aviazione e i veicoli blindati. Dopo diverse ore, la polizia aprì il fuoco sulla folla, compiendo una strage. Alcune fonti sostengono che i manifestanti avevano iniziato a lanciare sassi, mentre altre parlano di una decisione deliberata.

L’escalation del conflitto si era ormai innescata, con la popolazione nera sempre più in rotta col governo. Due giorni dopo a Città del Capo scesero in strada 50 mila persone, per cui l’amministrazione proclamò la legge marziale: seguirono oltre 18.000 arresti. È allora che l’Anc decise di abbandonare la non violenza e passare alla lotta armata. Dei successivi morti si perderà il numero.

Alessio Gaggero

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1994, omicidio Ilaria Alpi e Miran Hrovatin

Mogadiscio, 20 marzo 1994. È domenica, sono passate da poco le 14.30. Una Toyota attraversa la capitale somala, diretta verso l’Hotel Amana. A bordo la giornalista del Tg3 Ilaria Alpi e il cineoperatore Miran Hrovatin, in Somalia per seguire la missione Restore Hope, dove sono impegnati militari italiani. Sono appena tornati dal nord del Paese, dove hanno incontrato il sultano del Bosaso. A poca distanza dall’albergo, da una Land Rover scendono diverse persone armate, almeno sette, e fanno fuoco, uccidendo i due italiani; indenni l’autista (che non è quello che solitamente li accompagna) e l’uomo armato che li scorta. Gli aggressori scappano subito. Cominciano venticinque anni di inchieste e duri scontri, nella procura romana e non solo.

Sulla scena del crimine arrivano immediatamente gli unici altri due giornalisti italiani presenti a Mogadiscio, Giovanni Porzio e Gabriella Simoni. Un freelance che lavora per il network americano ABC riprende l’imprenditore italiano Giancarlo Marocchino, che a caldo dichiara:

“Non è stata una rapina. Si vede che sono andati in certi posti che non dovevano andare”.

Una troupe della Svizzera italiana filma le stanze di Miran e Ilaria, dando adito ai primi dubbi circa una precedente manomissione degli effetti personali dei due.

Tre giorni dopo, in Italia, al momento della sepoltura l’autorità giudiziaria non si è ancora attivata. Sul corpo di Ilaria Alpi non viene disposta autopsia ma solo un esame medico esterno. Spariscono alcune delle cassette girate da Miran Hrovatin e i taccuini con gli appunti della giornalista, l’intervista con il sultano del Bosaso è monca, i bagagli giungono con i sigilli violati. Emerge che i due erano stati richiamati fuori dall’hotel in fretta e furia da una misteriosa telefonata e sono stati uccisi facendovi ritorno.

Nei due anni successivi, dopo colpevoli ritardi nell’acquisizione di documenti e referti, si susseguono perizie balistiche contraddittorie, che avvalorano ora la tesi dell’esecuzione, ora quella del colpo sparato da lontano. Le indagini finiscono poi per incentrarsi su Hashi Omar Hassan, arrivato a Roma nel ’98 per testimoniare sulle presunte violenze di militari italiani ai danni della popolazione somala. Identificato dall’autista di Ilaria Alpi e da un ambiguo personaggio detto “Gelle”, arrestato e rinviato a giudizio per concorso nel duplice omicidio, Hassan viene assolto in primo grado, condannato all’ergastolo in appello e quindi a 26 anni definitivamente in Cassazione. Nel 2010, “Gelle” viene indagato per calunnia. Nel 2016, a seguito della revisione del processo, la Corte di Appello di Perugia assolve Hassan per non avere commesso il fatto, corroborando la tesi da più parti sostenuta che il somalo non fosse che un capro espiatorio; la madre di Ilaria, che fino alla morte si è battuta per ottenere verità e giustizia sostenendo l’innocenza di Hassan, non trattiene l’amarezza:

è come se mia figlia l’avesse uccisa il caldo di Mogadiscio”.

Nelle more del processo Hassan, scatta l’inchiesta bis per identificare gli altri componenti del commando e chiarire i motivi dell’omicidio, senza risultati. Il gip Emanuele Cersosimo respinge la richiesta di archiviazione del pm Franco Ionta e sostiene la tesi dell’omicidio su commissione con l’intento di far tacere i due reporter.

Accanto alla vicenda giudiziaria, quella della Commissione parlamentare d’inchiesta, avviata nel 2003 e chiusa nel 2006 con tre relazioni divergenti. Il presidente Carlo Taormina si fa portavoce della tesi del rapimento fallito:

“Ilaria Alpi era lì in vacanza” e le voci di un’esecuzione sono state messe in giro ad arte, sostiene, affermando di essere in possesso di documenti segreti che lo proverebbero.

Nel 2013, la Presidenza della Camera avvia la procedura di desecretazione degli atti acquisiti dalle Commissioni parlamentari d’inchiesta sul caso: sono più di 600 dossier, alcuni dei quali prodotti dalle agenzie dei servizi segreti Aise e Aisi (ex Sismi e Sisde).

Nonostante il muro di omertà, false testimonianze, indagini arenate o chiuse senza plausibili motivi, destituzioni improvvise di magistrati particolarmente attivi, nel corso degli anni si dipana faticosamente una trama complessa, che a tutt’oggi attende un avallo ufficiale dalla magistratura, e che Luciana Ricciardi Alpi, madre di Ilaria, ha riassunto così:

Ilaria aveva toccato il segreto più gelosamente custodito in Somalia: lo scarico di rifiuti tossici pagato con soldi e armi. La verità è che c’è un filo invisibile che lega la morte di mia figlia alle navi dei veleni, ai rifiuti tossici partiti dall’Italia e arrivati in Somalia. Ci sono documenti che lo provano. Ci sono le testimonianze dei pentiti. Eppure nessuno ha avuto il coraggio di processare i colpevoli. In carcere è finito un miliziano somalo che sta scontando 26 anni, ed è innocente.

Dal novembre 1996, il pm Luciano Tarditi della Procura di Asti, assistito da un pool di investigatori specializzati nelle indagini sul traffico internazionale di rifiuti tossici e radioattivi, indaga sui traffici e sul contesto degli interessi italiani in Somalia. Ha a disposizione una copiosa documentazione che contiene nomi e fatti, comprese le generalità dei faccendieri che dirigono i traffici nell’ombra, gli intrecci con i mercanti d’armi e la mappatura completa che dimostra come ai tempi dell’omicidio tutti gli interessi convergessero sulla Somalia e su altri Paesi dell’Africa costiera. Questa documentazione non verrà utilizzata nelle indagini.

Vengono invece trasmessi alla Procura di Roma, nel ’99, gli atti dell’inchiesta condotta dalla Procura di Torre Annunziata, in cui diversi testimoni raccontano un articolato sistema di traffici di armi, rifiuti pericolosi e scorie radioattive, i cui proventi alimentavano conti neri o tangenti. Un sistema gestito da faccendieri italiani e stranieri, che chiamano in causa complicità politiche legate in special modo all’area socialista craxiana, nonché uomini dell’intelligence italiana e di altri Paesi. In particolare, gli investigatori di Torre Annunziata, sulla base del materiale raccolto, ritengono che Ilaria Alpi possa essere stata uccisa non tanto per aver raccolto informazioni e prove su presunti trasporti di armi fatti con i pescherecci della società italo-somala Shifco, quanto per aver scoperto a Bosaso depositi di armi trasportate da Hercules C-130 italiani e ancora recanti l’indicazione della loro provenienza dai Paesi dell’Europa orientale.

A indicare questa pista è soprattutto l’imprenditore Francesco Corneli, ritenuto vicino ai servizi segreti siriani, nonché ex collaboratore esterno del Sisde, che parla di “armi provenienti dall’Europa dell’Est veicolate attraverso l’Italia con voli militari” tra il ’90 e il ’91, per sostenere il dittatore somalo Siad Barre nella guerra civile che lo vedeva perdente; altri testimoni menzionano aerei militari non identificati del tipo Hercules che scaricavano armi in Somalia con cadenza settimanale. Il collaboratore di giustizia Francesco Elmo, che ha lavorato nello studio di un avvocato svizzero, dai cui uffici transitavano documenti relativi a questi traffici, precisa che le armi non finivano soltanto alle fazioni somale in lotta tra loro, ma pure ad altri paesi (Eritrea, Yemen del Sud, Sudan) o ai guerriglieri palestinesi, irlandesi (Ira) e baschi (Eta).

Un traffico d’armi dall’Italia alla Somalia, via mare e via cielo, sotto gli occhi della missione Onu. Lo ammette perfino il generale Carmine Fiore, ultimo alto ufficiale a guidare l’operazione Ibis in Somalia, in un interrogatorio a Torre Annunziata nel ’97. Ma c’è anche lo smaltimento illegale di rifiuti pericolosi, probabile contropartita somala per le forniture di armamenti e denaro. Secondo le informazioni rese agli investigatori da Marco Zaganelli:

Tra il 1987 e il 1989 mi chiamò una persona che conoscevo, prospettandomi un grosso affare, perché era stato contattato da alcuni italiani, i quali dovevano sbarazzarsi di un carico di container fermi al porto di Castellammare di Stabia o a quello di Gioia Tauro, contenenti rifiuti tossici o radioattivi, e volevano un referente capace di riceverli e sotterrarli in un’area desertica della Somalia. Successivamente seppi che un carico di materiale radioattivo era stato portato in Somalia e i contenitori sotterrati in un’area desertica nel Nord del Paese.

Guido Garelli, disinvolto ex collaboratore per intelligence italiane e straniere, nonché fonte in una corposa inchiesta di Famiglia Cristiana, annota:

La regìa di tutto questo è appannaggio dei servizi d’informazione coinvolti in quello che è sicuramente il business più redditizio del momento. Non mi riferisco solo al Sismi e al Sisde; vi sono anche gli organismi omologhi dei Paesi che hanno “usato” vari stati dell’Africa per smaltire porcherie.

Lo stesso Garelli, citando un rapporto da lui stilato poco dopo il duplice omicidio, rammenta di aver messo in evidenza il nesso esistente fra il traffico di rifiuti e la fornitura d’armi, ipotizzando da subito l’intervento delle intelligence italiana e somala nella vicenda, perché “era chiaro che Ilaria era capitata su uno dei punti sensibili che la Somalia cercava affannosamente di proteggere e che l’Italia aveva la necessità di coprire.”.

Nel 2012 un’inchiesta per il Fatto Quotidiano mostra documenti inediti inviati dal Sios di La Spezia (il comando del servizio segreto della Marina Militare) a Balad in Somalia, il 14 marzo del ’94, il giorno in cui Ilaria e Miran erano appena arrivati a Bosaso: “Causa presenze anomale in zona Bos/Lasko (Bosaso Las Korey, nda) ordinasi Jupiter rientro immediato base I Mog. Ordinasi spostamento tattico Condor zona operativa Bravo possibile intervento”. I giornalisti riconoscono in Jupiter Giuseppe Cammisa, braccio destro di Francesco Cardella, a sua volta collaboratore del giornalista Mauro Rostagno, ucciso mentre seguiva la pista di un traffico d’armi illecito. Al termine di una complessa ricostruzione concludono:

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L’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin potrebbe dunque nascondere qualcosa che va al di là di ogni ipotesi immaginata fino ad oggi, traffici che hanno visto il coinvolgimento di apparati dello Stato, coperti per diciotto anni, grazie a silenzi e depistaggi.

Il generale Carmine Fiore commenta: “Se questo documento è vero vuol dire che esisteva una struttura occulta, non nota al comando del contingente”. Militari e agenti del Sismi interpellati dai giornalisti non hanno contestato l’autenticità. Qualcuno si è chiuso dietro l’obbligo del segreto al solo sentir parlare di Somalia. Per tutti appariva chiaro che quel linguaggio, quel tipo di comunicazione e le strutture coinvolte hanno un marchio di fabbrica ben noto, Gladio, o meglio Stay Behind.

Nel 2017, la procura di Roma chiede nuovamente di archiviare l’inchiesta, in quanto risulta impossibile accertare l’identità dei killer e il movente del duplice omicidio; la richiesta è respinta dal gip. È notizia della settimana scorsa che l’Agenzia di informazione e sicurezza interna (ex-Sisde) ha riferito in Procura a Roma con nota riservata della irreperibilità della fonte confidenziale che nel 1997 aveva riferito dei collegamenti tra l’omicidio Alpi-Hrovatin e i traffici di armi e rifiuti in Somalia, “con la conseguente impossibilità di interpellarla sull’autorizzazione a rivelarne l’identità”. Se questo nodo non sarà sciolto, sulla vicenda giudiziaria rischia di arrivare la parola fine.

Nel 2018 muore la madre di Ilaria, Luciana; in una recente intervista aveva detto:

Questa vicenda non riguarda solo la nostra famiglia. Riguarda chiunque, nel nostro Paese, creda nella verità e nella giustizia. Sono anni che aspetto e spero che sentenze e giudici facciano emergere la verità, ma è tutto inutile perché dietro le quinte ci sono persone che cercano di occultare e nascondere. Non ricordo neppure le numerosi solenni promesse che ho ricevuto.

 

Silvia Boverini

Fonti:
www.it.wikipedia.org; “Ilaria Alpi, 20 anni fa l’omicidio della giornalista e di Miran Hrovatin in Somalia” e A. Palladino, L. Scalettari, “L’ultimo viaggio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin in Somalia e quell’ombra di Gladio”, www.ilfattoquotidiano.it; R. Morrione, “In ricordo di Giorgio Alpi”, www.liberainformazione.org; www.ilariaalpi.it; B. Carazzolo, A. Chiara, L. Scalettari, “Ilaria Alpi: ecco perchè è morta”, Famiglia Cristiana del 28/5/2000, in http://ospiti.peacelink.it; M. Cinquepalmi, www.enciclopediadelledonne.it; https://archivioalpihrovatin.camera.it; www.articolo21.org; G. Sartori, “La morte scomoda di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin: un delitto di stato?”, https://riforma.it

Il massacro, tutto italiano, dei cantastorie etiopi

Tra le tante vergognose crudeltà commesse dagli italiani in Etiopia, nel corso della sua occupazione, ce n’è una in cui ferocia gratuita, ottusità oscurantista e razzismo fascista si diedero la mano e produssero un formidabile esempio di bizzarra disumanità. Si tratta del massacro dei cantastorie in Etiopia, perpetrato nel 1937, a partire dal 19 marzo.

Quel «radicale repulisti» degli etiopi, ordinato da Mussolini, e così entusiasticamente realizzato

Su questa rubrica, abbiamo ricordato come Benito Mussolini, il 3 ottobre del 1935, senza prima emettere una dichiarazione di guerra, avesse invaso l’Etiopia [1]. Intenzionato a ripristinare i fasti dell’impero romano, Mussolini, pur di sottomettere gli etiopi, aveva allestito una macchina da guerra imponente, facendo ricorso anche all’uso dei gas, già a partire dal 27 ottobre di quell’anno, per soffocare la resistenza militare e civile etiope all’occupazione italiana. Ma questa non si era piegata [2].

La politica del terrore e dello sterminio contro i ribelli e le popolazioni complici» (Benito Mussolini)

Amareggiato per gli insuccessi delle truppe italiane di occupazione, già nel 1936, il duce aveva ordinato al governatore generale e comandante delle truppe d’Etiopia, Rodolfo Graziani, di uccidere tutti i ribelli già catturati, di ammazzare i resistenti, facendo ricorso anche ai gas, sollecitandolo a

«condurre sistematicamente la politica del terrore e dello sterminio contro i ribelli e le popolazioni complici. Senza la legge del taglione al decuplo non si sana la piaga in tempo utile. Attendo conferma».

L’attentato a Graziani e la strage di Adis Abeba

Come abbiamo ricordato su Corsi e Ricorsi, il 19 febbraio del 1937, due giovani studenti di origine eritrea avevano realizzato un attentato ai danni del viceré Graziani. Immediatamente era scattata la reazione contro la popolazione etiope, sollecitata da Mussolini. Questi con un telegramma ordinava, infatti, di realizzare un «un radicale ripulisti». Quel che seguiva era di un orrore inconcepibile. E ad esso fornivano un selvaggiamente entusiastico contributo i civili italiani [3].

Un massacro senza fine

«Per tre giorni durò il caos. Per ogni abissino in vista non ci fu scampo in quei terribili tre giorni in Adis Abeba, città di africani dove per un pezzo non si vide più un africano», scrisse un testimone italiano, Dante Galeazzi. Poi, forse impensierito dal fatto che gli stranieri presenti nella capitale etiope documentavano con le loro macchine fotografiche la strage in corso, irritato perché di quel bagno di sangue si stava intestando il merito il federale Cortese e intenzionato a dimostrare a Roma di avere in mano la situazione, Graziani, dal suo letto di ospedale, ordinò di far cessare le rappresaglie dispiegate dai civili e dalle camicie nere. Mussolini, però, scriveva a Graziani che nessuno dei fermati attuali o venturi andava rilasciato senza suo ordine e precisava che «tutti i civili e i religiosi etiopi sospetti devono essere passati per le armi e senza indugi». Così, toccò ai militari portare avanti l’escalation parossistica di violenze scatenatesi fin dal 19 febbraio.

Con la scusa del complotto…. Il via libera a fucilazioni e deportazioni della classe dirigente etiope

L’avvocato militare Bernardo Olivieri aveva proposto un rapporto in cui affermava che l’attentato a Graziani era stato ordito da un vasto complotto (mentre, in realtà, era stato compiuto da due studenti eritrei, con l’aiuto di un tassista). E Graziani ne approfittò per cercare di liquidare una buona parte dell’intellighenzia etiope, mediante fucilazioni. Alti funzionari governativi, giovani ufficiali, giovanissimi neolaureati in America, Francia e Gran Bretagna venivano semplicemente trucidati. Inoltre, non potendo mitragliare tutti quanti, come ebbe a lamentarsi Graziani in un telegramma spedito a Mussolini, il viceré, con l’approvazione scritta del duce, faceva deportare in Italia i notabili etiopi, mentre faceva rinchiudere «gli elementi di scarsa importanza ma comunque nocivi» nei campi di concentramento presenti nelle due colonie italiane del Corno d’Africa, Somalia ed Eritrea.

Nessuna eccezione

Non venivano risparmiati neanche quei funzionari e notabili che, per risparmiare al popolo ulteriori abusi, violenza e linciaggi, avevano deciso di collaborare con l’invasore italiano. Infatti, diversi esponenti abissini di provata fedeltà, dopo essersi congratulati con Graziani per lo scampato pericolo, gli consigliarono moderazione nelle rappresaglie per non alienare al dominio italiano le simpatie della popolazione. Però, Graziani interpretò il loro atteggiamento come una prova della loro collusione con gli attentatori e ne ricambiò i cortesi consigli facendoli deportare in Italia. Del resto, si sentì opporre un netto rifiutò anche chi tra gli italiani, tentò di moderare minimamente la repressione in atto. Così, accadde al tenente colonnello Princivalle, che era anche il capo del suo Ufficio politico, quando invitò Graziani a riflettere sulla possibilità di palesare una minima clemenza verso i notabili che avevano collaborato con il governo italiano, per «non ingenerare la convinzione che noi trattiamo allo stesso modo coloro che ci servono e coloro che ci tradiscono». Graziani gli replicò per iscritto: «fatti del genere si reprimono non solo colpendo gli esecutori, ma colpendo la collettività nella quale è sorta l’idea e nella quale vivevano i colpevoli».

Il massacro dei cantastorie

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Il 19 marzo del ’37, un mese dopo l’attentato, Rodolfo Graziani poteva dirsi soddisfatto di aver “risolto il problema” dei notabili, ma, riteneva ancora lontana dall’essere raggiunta la meta della soppressione totale di ogni oppositore, reale o presunto, alla dominazione italiana sull’Etiopia. Tuttavia, per rassicurare Mussolini sulle denunce proposte dalla stampa internazionale, gli scriveva: «Non posso escludere che alcuni abissini giustiziati abbiano prima di morire gridato “viva Etiopia indipendente”. Faccio però presente che esecuzioni ordinate in conseguenza noto attentato vengono fatte in località appartate e che nessuno, dico nessuno, può assistervi». In questa ipocrita e sanguinaria prospettiva si collocò anche l’incredibile sorte che egli riservò ai cantastorie e agli indovini.

Chi sono «i più pericolosi perturbatori dell’ordine pubblico»? I cantastorie, gli indovini e gli eremiti

Quello stesso 19 marzo Graziani scriveva al ministro Lessona:

«tra i più pericolosi perturbatori dell’ ordine pubblico erano da annoverarsi i cantastorie, gli indovini e gli stregoni, giacché essi andavano perfidamente diffondendo tra queste popolazioni primitive ignoranti e superstiziose le più inverosimili notizie circa futuri catastrofici avvenimenti (distruzione completa di tutte le popolazioni da parte degli italiani; prossimi attacchi condotti da imponenti formazioni ribelli con aiuti stranieri; prossimo ritorno del Negus alla testa di imponente esercito eccetera eccetera)».

L’ordine di arrestare e fucilare cantastorie e indovini

Il messaggio a Lessona proseguiva in questi termini:

«Convinto della necessità di stroncare radicalmente questa mala pianta, ho ordinato che tutti cantastorie, indovini e stregoni della città e dintorni fossero arrestati e passati per le armi. A tutt’oggi ne sono stati rastrellati e eliminati settanta».

Mussolini scrisse:

«approvo quanto è stato fatto circa stregoni e ribelli. Occorre insistere sino a che la situazione non sia radicalmente e definitivamente tranquilla».

1877 (come minimo) eremiti, cantastorie e indovini ammazzati

Come ha spiegato Giorgio Rochat, «lo sviluppo della caccia a cantastorie e indovini e più in genere del “repulisti”, cioè delle esecuzioni sommarie paralegali per motivi di ordine pubblico, è parzialmente documentato da una quarantina di telegrammi che vanno dal 27 marzo al 25 luglio 1937, con i quali Graziani tenne regolarmente informati Lessona e Mussolini, certamente in seguito ad una richiesta specifica. […] L’ultimo di questi telegrammi fa salire la macabra contabilità a 1877 morti al 25 luglio 1937. […] Si noti comunque che queste cifre non tengono conto dei massacri effettuati nel corso delle operazioni antiguerriglia, né delle eliminazioni eseguite alla spicciolata dai responsabili dei presidi minori […]. Le indicazioni di Graziani si riferiscono inoltre quasi soltanto alla città di Addis Abeba ed ai territori dello Scioa da lui direttamente dipendenti, il che non significa che nelle altre regioni dell’impero fossero più rare le esecuzioni sommarie» [4].

Il massacro dei cantastorie etiopi, quindi, non solo seguiva e accompagnava le rappresaglie sulla popolazione civile e i massacri dei ribelli, ma si collegava all’eliminazione radicale della classe dirigente etiope. Lo scopo era impedire per sempre a quel popolo di parlare, di pensare e di credere. E i cantastorie parlavano, facevano pensare e aiutavano a credere. Dopo di loro, non a caso, saranno preti e monaci ad essere massacrati.

Alberto Quattrocolo

 

[1] Ricordiamo che Mussolini era ormai da 12 annipadrone assoluto” dell’Italia ed era giunto ad un livello assai avanzato il suo progetto di fascistizzarla, per trasformarla in uno Stato etico, religioso e morale, cioè in una dittatura, in cui non vi fosse spazio alcuno per chi non fosse fascista.

[2] Occorre anche rammentare che l’Etiopia non soltanto era l’unico lembo d’Africa, insieme alla Liberia, che non era sottoposta alla dominazione di qualche potenza europea, ma era anche uno Stato membro della Società delle Nazioni.

[3] Come scrisse il giornalista Ciro Poggiali nel suo diario segreto: «Tutti i civili (italiani) che si trovano in Adis Abeba hanno assunto il compito della vendetta, condotta fulmineamente coi sistemi del più autentico “squadrismo fascista”. Girano armati di manganelli e di sbarre di ferro, accoppando quanti indigeni si trovano ancora in strada […]. Inutile dire che la rappresaglia si compie su gente ignara e innocente».

[4] Rochat sostiene che «i macabri elenchi di Graziani hanno un valore soprattutto politico, perché non permettono di quantificare la repressione, ma documentano che fu condotta apertamente e dichiaratamente, con il controllo continuo delle autorità romane e l’incitamento del viceré».

Fonti

Angelo Del Boca, L’attentato a Graziani, in Gli italiani in Africa Orientale – 3. La caduta dell’Impero, Mondadori, Milano, 1996, in www.italia-resistenza.it/wp-content/uploads/ic/RAV0053532_1998_211-213_12.pdf

Angelo Del Boca, Italiani, brava gente?, Neri Pozza, Vicenza, 2014

Angelo Del Boca, Il colonialismo italiano tra miti, rimozioni, negazioni e inadempienze, in “Italia contemporanea”, settembre 1998, n. 212

Matteo Dominioni, Lo sfascio dell’impero. Gli italiani in Etiopia 1936-1941, Editori Laterza, Roma-Bari, 2008

Giorgio Rochat, Le guerre italiane in Libia e in Etiopia dal 1896 al 1939, Gaspari Editore, Udine, 2009

Giorgio Rochat, L’attentato a Graziani e la repressione italiana in Etiopia nel 1936-1937, in “Italia contemporanea”, 1975, n 118, pp. 3-38. in www.italia-resistenza.it/wp-content/uploads/ic/RAV0053532_1975_118-121_01.pdf

 

Il giudice Minervini, un uomo abbastanza serio da non prendersi troppo sul serio

Tutte le mattine il giudice Girolamo Minervini saliva sull’autobus 991 per andare dalla Balduina alla Cassazione. In quel marzo del 1980 stava per essere nominato direttore generale degli Istituti di prevenzione e pena. Una nomina che era anche l’equivalente di una potenziale condanna a morte. Le Brigate Rosse avevano già ucciso due direttori delle carceri –  Riccardo Palma e Girolamo Tartaglione. Il 18 marzo del 1980, proprio a bordo dell’autobus 991, Girolamo Minervini fu assassinato. Aveva quasi sessantuno anni (era nato a Teramo, il 4 maggio del 1919), una moglie (Orietta), una figlia (Ambra) e un figlio (Mauro), un mutuo da pagare e una vecchia Volkswagen.

Il rifiuto della scorta e la certezza di essere nel mirino

Era preoccupato Minervini? Forse più che preoccupato, era consapevole. Già l’anno prima, nel covo BR di via Giulio Cesare, che aveva dato asilo ai capi brigatisti Adriana Faranda e Valerio Morucci, era stato trovato un foglio con su scritto il suo nome. Il questore di Roma Augusto Isgrò, pertanto, gli aveva offerto la scorta. Minervini, però, aveva ben presente che appena due anni prima, in via Fani (16 marzo 1978) le Br per sequestrare Aldo Moro avevano fatto strage degli uomini di scorta. Quindi rifiutò

«Non voglio avere sulla coscienza tre o quattro poveri ragazzi».

Il 16 marzo aveva cenato a casa del figlio venticinquenne, Mauro, così da poter stare anche un po’ con la nipotina Sara. Aveva detto a Mauro che la sua nomina sarebbe stata ratificata dal Consiglio dei Ministri entro pochi giorni.

Il figlio gli disse: «Ti ammazzeranno». La risposta di Girolamo Minervini fu: «Quando accade stai vicino alla mamma».

Nell’accomiatarsi aggiunse: «In guerra un generale non può rifiutare di andare in un posto dove si muore».

Il magistrato

Girolamo Minervini era entrato in magistratura nel 1943. Già nel ‘47 era stato assegnato al Ministero di Grazia e Giustizia, cioè alla Direzione Generale degli Istituti di Prevenzione e Pena, quando Palmiro Togliatti, segretario del PCI, era ministro della Giustizia. Di Togliatti, quindi, Minervini fu un collaboratore. Dal 1956, questo magistrato riformista, aveva trascorso molti anni presso la Procura generale della Cassazione in qualità di applicato prima di tribunale e poi di appello. Nel 1968 era stato nominato segretario presso il Consiglio Superiore della Magistratura. Nel 1973 aveva prestato servizio presso la Corte di Appello di Roma, in qualità di consigliere, per poi tornare al Ministero di Grazia e Giustizia con funzioni di capo della segreteria della Direzione Generale degli Istituti di Prevenzione e Pena. Nel novembre del ‘79 era stato ricollocato in ruolo e destinato alla Procura Generale della Cassazione con funzioni di sostituto.

 18 marzo 1980

Il 18 marzo 1980 alle 8,15, Girolamo Minervini lasciò il suo appartamento in via della Balduina 135 e salì sul 991. Alla fermata di via Ruggero di Lauria si sentì uno sparo. Minervini, restò un attimo in piedi, lì, in fondo all’autobus, appoggiato alla macchinetta obliteratrice. Quindi cadde, mentre l’impermeabile si macchiava di rosso. A quel punto un killer gli sparò ancora. Poi, tutto precipitò: tre brigatisti saltarono giù dall’autobus, avendo lasciato dietro di sé tre feriti, tra cui un sedicenne.

Gli assassini

Le Brigate Rosse comunicarono all’Ansa e a Repubblica la loro rivendicazione dell’omicidio di Minervini. Anni dopo, grazie al pentito Antonio Savasta, si seppe che era stata la colonna romana a uccidere il giudice Minervini, nell’ambito della campagna contro le carceri dure. Il sicario di Minervini era stato Franco Piccioni, detto Francone. Un insegnante precario, di 29 anni, già noto tra gli autonomi dei Volsci, durante il ’77 romano. Gli altri due erano Sandro Padula e Odorisio Perrotta.

Giovanni Senzani, il cervello

Nel 1978 Girolamo Minervini aveva partecipato a un congresso di criminologia a Lisbona, cui avevano preso parte anche Tartaglione e il collega Alfredo Paolella: tutti e tre furono ammazzati. Vi era tra i partecipanti al convegno anche il professore Giovanni Senzani. Ventidue anni dopo, Giovanni Pellegrinopresidente della Commissione parlamentare di inchiesta sulle stragi e il terrorismo, lo definì «il leader dell’ala più sanguinaria delle Br». Il professor Senzani, che era stato anche l’autore del volantino di rivendicazione dell’omicidio Minervini, ebbe pure non poche responsabilità negli omicidi del professore Vittorio Bachelet (ucciso il 12 febbraio del 1980) e del generale dei Carabinieri Enrico Riziero Galvaligi (31 dicembre del 1980). E verosimilmente anche in quello di Aldo Moro. Come spiegò Pellegrino, il prof. Senzani era una figura atipica del terrorismo di sinistra, «sia per l’alto livello culturale sia per la rete di amicizie intessute negli ambienti criminologici e universitari italiani e stranieri». Ma soprattutto, «era il cervello politico delle BR e aveva rapporti forti anche con apparati».

Senzani e i servizi segreti deviati

Aggiunse, infatti, il senatore Pellegrino, che il dott. Arrigo Molinari, vice-questore vicario di Genova e poi direttore dell’Ufficio ispettivo della Polizia di Stato per l’Italia del Nord, aveva ipotizzato che fin dall’ingresso nelle Brigate Rosse, alla metà degli anni Settanta, Senzani fosse «protetto dai settori deviati del Sismi, quelli legati alla P2». Oltre al coinvolgimento nel sequestro Moro, Senzani «organizzò e diresse anche il sequestro dell’assessore regionale campano della DC, Ciro Cirillo» (27 aprile – 24 luglio 1981), la cui liberazione fu il frutto di intrecci mai del tutto chiariti tra le BR, la Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo e i servizi segreti, ancora in mano a funzionari e ufficiali iscritti alla P2, nonché della mediazione del faccendiere Francesco Pazienza, legato al SISMI. Un’altra vicenda che a distanza di quarant’anni presenta ancora risvolti oscuri e inquietanti, come recentemente confermato anche dall’inchiesta di Sandro Ruotolo.

Le parole di suo figlio, Mauro Minervini

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Mauro Minervini ricordò che quella sera del 16 marzo, circa 36 ore prima di essere ammazzato, il padre gli aveva detto di non essere tipo da morire d’influenza.

Una persona abbastanza seria da non prendersi troppo sul serio

Mauro Minervini descrisse suo papà  come una persona dotata «di un humour vivacissimo».

Un uomo che «amava scherzare, “sfottere” ed “essere sfottuto”. I suoi vecchi amici, e lui stesso, mi raccontavano di scherzi da antologia. Delle tante ragazzate che, fortunatamente, ho avuto modo di fare non mi ha mai rimproverato che per dovere parentale. Era una di quelle persone abbastanza serie da non aver bisogno di prendersi sul serio più del minimo indispensabile. Era drasticamente interdetto a chiunque, salvo che alla piccolissima nipote a puro titolo di sfottò, chiamarlo Eccellenza; “giudice”, diceva, è un termine che identifica una funzione di così grande rilevanza da non essere sostituibile. Del proprio ruolo era fierissimo; credo che tra i pochi veri dispiaceri che gli ho inflitto, il più grande sia stato quello di essermi ritirato dal concorso in Magistratura. Però fu contento quando si accorse che in Banca, appena entrato, guadagnavo quasi quanto Lui, che portava (in teoria) l’ermellino. In famiglia, lo vedevamo poco… I suoi numerosi impegni, lo tenevano fuori casa 15 o 16 ore al giorno. In compenso, non gli rendevano una lira. Quando morì aveva una bella casa – di cooperativa, col mutuo ancora da pagare per un paio di lustri – un milione in banca ed una Volkswagen degna di uno studente fuori corso. Ed un patrimonio, dentro, che spero di aver ereditato seppure in minima parte. La mattina del 18 marzo, in autobus e senza scorta, andò a fare la sua parte, senza chiedersi se l’avessero fatta anche gli altri. Sul volto, da morto, aveva l’espressione serena di sempre

Alberto Quattrocolo

 

Fonti

Giovanni Fasanella e Claudio Sestieri, Segreto di Stato, Einaudi, Torino, 2000

www.antimafiaduemila.com

http://www.associazionemagistrati.it

www.poliziapenitenziaria.it

www.vittimeterrorismo.it