Carnage politico
Nel 2011 fu distribuito nelle sale cinematografiche Carnage, un film diretto da Roman Polański, tratto dall’opera teatrale Il dio del massacro di Yasmina Reza e sceneggiato da lei e dal regista. La trama vede due coppie di genitori, apparentemente animati dalle migliori intenzioni conciliative, incontrarsi presso la casa di famiglia di una di esse, per risolvere il contrasto tra i rispettivi figli undicenni (uno dei due aveva colpito al volto l’altro con un bastone), e finire col dare luogo ad una sorta di carneficina emotiva da cui non si salva nessuno. Infatti, Yasmina Reza e Roman Polanski, con l’apporto fondamentale di un cast composto Jodie Foster, Kate Winslet, Micheal C. Reilly e Christoph Waltz, pongono in evidenza come basti poco a dissolvere le buone maniere e a far emergere aspetti più intrinsecamente e visceralmente personali, che danno luogo ad un crescendo di accuse, squalifiche e recriminazioni culminanti con il grido “nostro figlio ha fatto bene a spaccare la faccia a quello stronzetto di vostro figlio”.
La prospettiva polanskiana, come sa chi ne segue la cinematografia, è spesso all’insegna di un amaro e dissacrante pessimismo circa la natura umana ed egli più volte si è soffermato sulla tensione tra le pulsioni (spesso distruttive) e la civilizzazione, mettendo in mostra l’irruzione delle prime a discapito delle istanze della seconda (in fondo già, ad esempio, Repulsione o Cul-de-sac, possono essere visti anche attraverso tale chiave di lettura). Perciò, lo sviluppo della trama e il suo finale sorprendono poco, da questo punto di vista, mentre potrebbe essere più sorprendente il fatto che dinamiche relazionali non tanto dissimili da quelle descritte nel film siano rinvenibili anche nell’ambito della dialettica politica. La sorpresa, però, ammesso che abbia senso ipotizzarla, è per l’appunto solo teorica, poiché soltanto chi fosse propenso ad una totale idealizzazione potrebbe stupirsi del fatto che i rapporti in ambito politico, inclusi quelli di natura conflittuale, siano permeati di ciò che, spesso con spirito giudicante, suole definirsi personalismo.
Infatti, che le vicende politiche siano influenzate anche dalle personalità dei soggetti che vi partecipano in posizioni apicali non soltanto è un fatto probabilmente da sempre riscontrabile (si potrebbe dare un’occhiata con questa lente anche solo ai più drammatici fatti storico-politici per rispolverare l’incidenza avuta dalle personalità di capi, re, imperatori, presidenti, leader religiosi o sindacali, ammiragli e generali nel concorrere a determinare il corso degli eventi), ma anche insopprimibile.
Ciò che può stupire il cittadino, e forse a volte lo amareggia, lo delude o addirittura lo disgusta, dunque, non è tanto il coinvolgimento personale del politico di prima o di ultima fila, quanto, nel caso di conflitti politici portati all’esasperazione, il vedere prevalere istanze prevalentemente o esclusivamente di parte e personali rispetto all’interesse e al bene comuni.
Ciò, però, si correla con una delle caratteristiche del conflitto e della sua escalation: la tendenza degli attori del conflitto ad interpretare le proprie condotte e strategie, finalità e aspirazioni, i propri desideri e bisogni come congruenti e coerenti con gli ideali professati.
Ciò non vale solo per i politici, ma presumibilmente per tutti noi. Nessuno, si potrebbe osservare, è disponibile ad ammettere di impegnarsi in una relazione conflittuale per conseguire un mero vantaggio egoistico ed egocentrico. Infatti, nelle situazioni conflittuali, per lo più ci accade non soltanto di rivestire le nostre azioni di significati alti, ma anche di compiere un’inconsapevole identificazione tra l’ideale perseguito o il valore (etico, sociale, culturale, morale, religioso o politico) affermato e la nostra persona. E in tali casi, dato il rilievo nobile o, almeno, apprezzabile, della nostra battaglia, capita che confondiamo i mezzi con i fini. Cioè, succede che, mentre perseguiamo quelle che riteniamo essere le giuste aspirazioni a migliorare il mondo, ci troviamo a venire a patti con la nostra coscienza rispetto ai modi e ai mezzi con cui ci battiamo contro l’altro.
Se ciò è in qualche misura vero, la propensione a giustificare con alti princìpi le nostre condotte aggressive viene declinata nelle situazioni in cui la posta in gioco è per noi importantissima: cioè allorquando si tratta di tutelare o far fruttare investimenti significativi, quando la dedizione alla causa ha implicato sacrifici e rinunce rilevanti, quando è a rischio la concretizzazione di progetti e di sogni, di attese e di speranze, quando temiamo che vengano sacrificate vanamente le risorse messe in campo in termini di tempo, di lavoro, di denaro, di energie, ecc. Anzi, sul tema della passaggio all’atto violento, tra le più citate vi è la teoria della frustrazione, elaborata da Dollard e Miller (1939), secondo la quale l’individuo diventerebbe aggressivo quando trova degli ostacoli sul suo cammino che impediscono il raggiungimento degli obiettivi che si è prefissato, e la sua aggressività subirebbe un incremento esponenziale in funzione dell’avvicinamento alla meta (cioè, quanto più l’individuo sta per raggiungere il suo obiettivo e viene interrotto in tale proposito, tanto più aumenterebbe la sua aggressività), portandolo a prendersela con il soggetto responsabile della frustrazione oppure con un bersaglio innocente o persino con se stesso (in molti casi, si osserva, l’aggressività viene repressa e non arriva a manifestarsi all’esterno, restando dentro l’individuo, sotto forma di risentimento o di sogni, mentre in altri casi viene controllata sul momento e rinviata).
C’entra tutto ciò con il “carnage politico” che dà il titolo a questo post?
C’entra, se si pone attenzione al fatto che l’obiettivo prefissato, di cui si parla nella teoria della frustrazione, può consistere nell’appagamento non soltanto di un desiderio o di un’esigenza di tipo materiale, ma anche di un bisogno di natura immateriale. Ad esempio, a scatenare l’aggressività del singolo o di un gruppo può essere la frustrazione derivante dall’azione altrui che impedisce di raggiungere l’obiettivo di sentirsi riconosciuti, apprezzati, stimati, ben voluti, amati o adorati; oppure potrebbe esservi una reazione aggressiva conseguente all’ostacolo al raggiungimento di uno status particolare (il che poi spesso si collega con il sentirsi riconosciuti, apprezzati, stimati, ben voluti…).
Gli obiettivi citati e i corrispondenti bisogni riguardano, verosimilmente, tutti gli esseri umani (tutti, credo, abbiamo bisogno di sentirci riconosciuti, considerati, rispettati, apprezzati, stimati, ben voluti e amati), e sarebbe logico supporre che siano attribuibili anche a quegli esseri umani che si occupano attivamente di politica, e che la reazione aggressiva, generato da una frustrazione, sia rinvenibile non soltanto nei loro sentimenti e comportamenti individuali, ma anche nei vissuti e nelle reazioni del gruppo (partito, movimento o schieramento che sia).
Si pensi, tanto per fare alcuni esempi, alla reazioni di Luigi Di Maio, intervistato da Giovanni Floris, nella trasmissione Dimartedì del 7 marzo, o a quella di Alessandro Di Battista, intervistato sempre da Floris nella puntata del 24 gennaio o a quella di Matteo Renzi, intervistato il 3 marzo da Tommaso Cerno, direttore di L’Espresso, e da Lilli Gruber, nel programma condotto da quest’ultima, Otto e Mezzo.
Ciò che accomuna tali interviste è il fatto che oggetto di molte domande fossero le indagini giudiziarie in corso (in particolare, quella che vede tra gli indagati Virginia Raggi e quella sul caso Consip, che coinvolge anche il Ministro Luca Lotti e Tiziano Renzi, il padre dell’ex premier), ma vi è anche un altro aspetto trasversale al modo di reagire dei tre politici intervistati a certe domande, che essi potevano interpretare come intrise delle polemiche abitualmente proposte dagli avversari politici: in tutti tali casi, si è manifestata sullo schermo una certa reazione emotiva – disagio, fastidio, irritazione, offesa o indignazione – e successivamente una dichiarazione di contrattacco, prevalentemente all’insegna della rabbia, tesa alla delegittimazione dell’avversario. Infatti, con toni, forme e ragionamenti diversi, Di Maio, Di Battista e Renzi, nel replicare, hanno proposto un attacco squalificante verso la o le controparti politiche (rappresentate anche da media considerati politicamente avversi) e, in particolare, verso quelle da cui sapevano provenire il pensiero delegittimante e svalutante sotteso alla domanda posta dall’intervistatore.
La teoria della frustrazione, che ha l’indubbio merito di essere semplice e vicina al senso comune, è stata, in realtà, molto discussa, poiché si è osservato che la frustrazione non sfocia sempre nell’aggressività e che non tutti i comportamenti aggressivi sono provocati da una frustrazione.
Però, è vero, che spesso il conflitto sorge in conseguenza dell’azione di un soggetto che impedisce all’altro di soddisfare una propria esigenza, la quale può essere di natura relazionale. Naturalmente, conflitto e aggressività non sono sinonimi. Non sempre, dunque, la frustrazione produce una condotta aggressiva, ma qualche volta, sì, come manifestazione di una condizione conflittuale innescatasi per effetto dell’impedimento alla soddisfazione di un bisogno. E quando la risposta conflittuale assume le forme dell’aggressione (verbale o fisica), a farlo succedere concorre il fatto che mettiamo la sordina ai nostri propositi e alle nostre consuetudini di tolleranza, comprensione e benevolenza. Ciò, perlopiù, si verifica quando l’azione ci nega la soddisfazione di esigenze per noi fondamentali, come individui e/o come rappresentanti di una comunità, incluse quelli legate a come vorremmo essere percepiti e valutati sul piano della credibilità, dell’onestà, della coerenza e dell’affidabilità.
E, se in tali ragionamenti vi è un che di plausibilità, è possibile supporre che essi si possano proporre, come abbiamo tentato di fare, anche a ciò che abbiamo definito il carnage politico. Se così è, allora ciò forse può contribuire ad interpretare l’apparente perdita di capacità di vedere oltre se stessi che talora accompagna le modalità di stare in conflitto dei protagonisti della politica, in particolare, quando assumono atteggiamenti che, agli occhi dei cittadini, di fatto, ne corrodono la credibilità e l’apprezzamento, ossia intaccano proprio quei “beni” che essi, attaccando e difendendosi, tentano di conservare o alimentare per sé e di far perdere alla controparte.
Quest’ultimo aspetto appare anche nel film di Polański, quando nelle liti tra le due coppie emergono le tensioni interne ad esse e quando si manifesta una sorta di conflittuale solidarietà maschile tra i due mariti contro le loro mogli. Anche in politica, infatti, accade che si faccia provvisoriamente comunella col nemico, se per un attimo c’è qualcosa che unisce a lui nella contrapposizione ad un altro partito.
Le chiavi di lettura fin qui proposte, ovviamente, si inseriscono in una prospettiva che non vuole essere superficialmente giudicante, ma che è tesa a proporre in termini realistici, o almeno non troppo idealistici, delle possibilità di prevenzione e di contenimento degli effetti più deleteri del conflitto in ambito politico.
Alberto Quattrocolo
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