Assassinio di Pino Puglisi il 15/09/1993
Lo uccisero per rabbia, per paura, per invidia, perché dall’altare li aveva chiamati animali, perché “si portava i picciriddi cu iddu”
Questo autore non ha ancora scritto la sua biografia.
Ma siamo orgogliosi di dire che Alberto Quattrocolo ha già contribuito con 391 voci.
Lo uccisero per rabbia, per paura, per invidia, perché dall’altare li aveva chiamati animali, perché “si portava i picciriddi cu iddu”
La valle del fiume Isonzo fu teatro delle maggiori operazioni militari sul fronte italiano dal 1915 al 1917, fino alla disfatta di Caporetto. Vi trovarono la morte oltre 300.000 soldati, fra italiani e austroungarici; dodici battaglie, che, a parte la conquista di Gorizia, fruttarono al Regio Esercito guidato dal generale Cadorna ben pochi successi. La settima battaglia dell’Isonzo è la storia di un sanguinoso fallimento, venuto subito dopo una formidabile vittoria, la presa di Gorizia. Iniziò il 14 settembre, e 3 giorni dopo, quando terminò, le truppe di Cadorna avevano conquistato appena qualche trincea e un caposaldo. Ma le perdite italiane ammontavano a 21.144 uomini, mentre gli austriaci avevano perduto circa 15.000 uomini. Chissà quanti, anche in quell’orrenda carneficina, come il soldato Gherlinzoni, di cui riportiamo una lettera alla famiglia, gridarono: “ho quattro bambini! salvatemi la vita!!!”. Come scrisse Carlo Emilio Gadda, che a quella battaglia partecipò, tutte quell’atrocità e quelle miserie non potevano costituire “fanfara d’orgoglio”.
Pio la Torre, segretario regionale del PCI, e già membro della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia, fu tra i primi a riflettere sull’importanza strategica del patrimonio per i mafiosi. E non aveva paura di dichiarare che “[la] compenetrazione è avvenuta storicamente come risultato di un incontro che è stato ricercato e voluto da tutte e due le parti (mafia e potere politico). La mafia è quindi un fenomeno di classi dirigenti“. Non ebbe il tempo, però, di vedere diventare legge dello stato la proposta da lui presentata in Commissione: il 30 aprile 1982 fu assassinato a Palermo insieme al compagno di partito Rosario Di Salvo. Quella legge che introduceva il reato di associazione di tipo mafioso (art.416 bis del Codice Penale) e che prese il nome da lui e dall’allora ministro dell’Interno Virginio Rognoni, costituì una “rivoluzione copernicana”.
Un certo di modo di pensare, praticare e proporre la mediazione prevede di definire tale percorso di Ascolto e Mediazione e non soltanto di mediazione. Ne accenniamo il perché in questo post della rubrica #riflessionimediare
Stephen Bantu Biko, trentenne sudafricano, attivista contro l’apartheid, morì il 12 settembre 1977, per le conseguenze delle torture inflitte durante la detenzione, nel carcere di Pretoria. “L’arma più potente nelle mani dell’oppressore è la mente dell’oppresso“, aveva detto in un discorso sei anni prima. Ai funerali di Biko, il 25 settembre 1977, mentre la bara sfilava su un carro trainato da un bue, condotto dal figlio seienne, ventimila uomini e donne cantavano l’inno nazionale stringendo i pugni alzati. “Il primo passo da fare per l’uomo nero è rendersi conto di chi è; infondergli orgoglio e dignità; ricordargli che è un complice in quel crimine che è l’aver permesso di essere abusato. Quando dici a qualcuno ‘Nero è bello’, in realtà gli stai dicendo ‘Amico, vai bene così come sei, inizia a considerarti un essere umano” (Steve Biko).
Ciò che accadde settantasei anni fa è considerato il primo atto di rappresaglia nazista in Italia contro l’esercito italiano dopo l’8 settembre. Fino al 1997 quel massacro era stato rimosso, dimenticato, ignorato.
Un’area di 1600 km², sei vallate, 32 Comuni e più di 80.000 abitanti furono liberate dalla presenza nazi-fascista, con l’entrata dei partigiani a Domodossola la mattina del 10 settembre 1944. I tedeschi e i fascisti opposero una scarsa resistenza e si arresero dopo poche ore, ottenendo in cambio l’onore delle armi e la possibilità di ritirarsi in totale sicurezza. Venne creata un’organizzazione politica di stampo democratico, fondata su saldi valori umani e civili. La mancanza di supporti economici, armi e munizioni, promessi ripetutamente dagli Alleati e mai pervenuti, però, non consentì ai partigiani di reggere a lungo l’assalto dei 13.000 soldati delle forze nazifasciste.
L’armistizio dell’8 settembre 1943 aveva posto termine alla guerra tra gli Alleati e l’Italia, ma le truppe hitleriane presenti nel nostro Paese non avevano alcuna intenzione di andarsene pacificamente. Come si vide con lo sbarco degli anglo-americani, il giorno dopo, il 9 di settembre. Quando la battaglia finì si contarono i danni degli intensi combattimenti: i bombardamenti aero-navali avevano fatto strage di civili, Battipaglia, Sarno e Scafati erano state rase al suolo, Salerno era stata duramente colpita nella parte sud, dove si trovavano la stazione ferroviaria, due caserme e una fabbrica di siluri. Dal 9 settembre ’43 quella parte d’Italia scoprì cosa significa essere teatro di guerra: lutti, orrori, macerie, una popolazione stremata da malattie e fame, borsa nera, disperazione, diffidenza reciproca con i i vincitori anglo-americani, così culturalmente diversi…
Le conseguenze dell’armistizio, dell’8 settembre del 1943, tra l’Italia e le forze alleate meritano di essere ricordate. Rispetto alla situazione dei militari italiani, ad esempio, ha scritto Giorgio Rochat: “Tutti avevano ragione di sentirsi traditi dal re e da Badoglio, che li avevano abbandonati senza ordini agli attacchi tedeschi. Ciò nonostante, una grande maggioranza di questa massa di sbandati preferì la fedeltà alle stellette e la prigionia nei lager”. Oltre 600mila IMI, nonostante le sofferenze, il trattamento disumano e i vissuti di tradimento e abbandono da parte della madrepatria, rimasero invece fedeli al giuramento, scelsero di resistere e dire no alla RSI (la Repubblica Sociale Italiana), repubblica fascista capeggiata da Mussolini, manichino nelle mani di Hitler. Lo fecero per motivi etici, politici o di pura e semplice coerenza e dignità umana. Una ribellione silenziosa e disarmata che non ottenne mai riconoscimento.
Undici giorni di terrore aspettano le due pacifiste, ignare di ciò che sta per accadere loro.
TORINO
Via Buniva, 9bis/d - 10124 Torino
Tel. 011.8390942
Cell. 393 85.84.373
Mail [email protected]
Pec [email protected]